lunedì 15 luglio 2024

KAPITÄN "FRITZ"






Friedrich sobbalzò sul letto per un colpo di tosse. Quella maledetta bronchite lo stava mettendo troppo spesso in pessime condizioni e anche il cuore ne risentiva. La luce che filtrava attraverso le tende della camera si posava sui cimeli della sua gioventù, ricordi di un'altra epoca e di un'altra epica. Era cambiato il mondo, niente di preoccupante, sembra sia sembrava fosse sempre accaduto, almeno su quello non c'erano dubbi. Si alzò, e dopo qualche passo strascicato con le pantofole di pelle scura, appoggiò i palmi delle mani sul davanzale, ad un tratto distinse la sua faccia riflessa nel vetro della finestra intravedendo in lontananza la cupola d’ardesia della Chiesa di Alsenborn ormai libera dalla neve dell’inverno. Si riconobbe. Non era poco, in fondo. Riconobbe il naso grosso, le rughe e la malinconia. Avrebbe venduto l’anima al primo diavolo di Goethe 
per poter salire quella sera sulla collina di Betze, scendere nella pancia dello stadio seminascosto dal verde del bosco, rimettersi la sua maglia aderente rossa, infilarsi le scarpette tirate a lucido e gettarsi in campo ancora una volta come lo aveva fatto per ventiquattro anni filati con il suo amato Kaiserslautern. Ja, Kaisersalutern. Città tipicamente tedesca della Renania, tante industrie meccaniche, un discreto comparto tessile, la bellezza del legno lavorato e persino odore di buoni sigari accompagnati dal solito boccale schiumante di birra.

“Fritz non scendi a vedere la partita?”

La voce è quella di sua moglie, Italia.

Lei, si comprende, è italiana, i genitori in uno slancio patriottico pensarono bene di chiamarla come la loro terra: Italia Walter. Perché lui è Friedrich Walter, anzi, Fritz Walter. 

Una volta in un tema di classe uno scolaro scrisse che la città di Kaiserslautern, settanta chilometri da Magonza, venne fondata da Fritz Walter. In fondo non aveva tutti i torti. Fritz Walter era diventato una sorta di figura mitica, non solo in termini calcistici, un simbolo di rinascita e di rivendicazione della Germania sconfitta, ferita e umiliata dalla sconfitta e dai bombardamenti. Ambasciatore sportivo, capitano della nazionale tedesca e luogotenente del leggendario allenatore Sepp Herberger, con il quale mise a punto la squadra del "Miracolo di Berna" del 1954, vincitrice della Coppa del Mondo. Nato all'ombra della Grande Guerra a Alsenborn, cittadina oggi riunificata con il villaggio di Enkenbach, venne battezzato con il nome di Friedrich Walter, anche se fin da piccolo tutti lo chiamarono naturalmente e semplicemente "Fritz". Due costanti hanno plasmato la vita calcistica di Fritz Walter. Da un lato c'era la sua squadra, il Kaiserslautern, per la quale giocherà per ventiquattro anni consecutvi. E poi c'è stato il rapporto con il citato Sepp Herberger, l'allenatore della nazionale tedesca, che promosse Walter più decisamente di ogni altro suo giocatore. Herberger lo aveva scoperto nel 1940. La prima apparizione del ragazzo risultò decisamente promettente: tre reti nella vittoria per 9-3 contro la Romania. "Sei il benvenuto, Fritz", disse Herberger al giovane esordiente. Ma sebbene l'allenatore cercò di fargli evitare la divisa durante il conflitto a Walter fu ordinato comunque di arruolarsi nell'esercito e lui lì giocò nella squadra composta dai cosiddetti "Rote/Jäger" i paracadutisti della 26° Luftlandebrigade, reclutato dal comandante Hermann Jager.

“No, non vengo, non me la sento, dopo mi dirai come è andata.”

Settantasei anni e non sopportare più le emozioni del calcio, della vita.

Quel pomeriggio, era il maggio del 1998, e battendo in casa il Wolfsburg per 4 - 0, con doppiette di Olef Marschall e Martin Wagner il Kaiserslautern divenne ormai irraggiungibile per gli inseguitori. Quattro punti di vantaggio sul Bayern, che non riuscì ad andare oltre uno stentoreo pareggio per 0-0 a Duisburg. Fu la prima volta, da quando fu fondata la Bundesliga nel 1963 che una società neopromossa riusciva a vincere il Meisterschale. I diavoli rossi, o Die Rote Teufel, allenati da quel istrione di Otto Rehhagel con il redivivo Ciriaco Sforza in cabina di regia, festeggiarono il titolo davanti a 38.000 spettatori. E pensare che se non fosse stato per l’attento speaker dello stadio, forse quella sera l’FCK 1900 avrebbe potuto anche non farcela.

“Otto, conta gli stranieri”, gracchiò l’altoparlante a 10 minuti dal calcio d’inizio di una partita di qualche sabato precedente.

In effetti i "forestieri" in maglia rossa erano più di quelli previsti dalle regole.

Cosicché fra il borbottio del pubblico, occhiatacce e frenetica agitazione, il K’lautern rimediò a un inopinata figuraccia con annessa sconfitta a tavolino che poteva pregiudicare davvero l’ottimo lavoro svolto fino a quel momento dal tecnico di Essen iniziato in agosto quando i “Die Roten Teufel”, avevano piegato gli eterni protagonisti della Baviera con un goal del “Maresciallo” Olaf e Otto si era preso una bella rivincita con la squadra che lo aveva licenziato appena due anni prima. L'FCK alzò gli scudi davanti all’estremo Andreas Reinke con difensori nodosi e caparbi come Harry Koch, l'infaticabile Martin Wagner, il gigante ceco Miroslav Kadlec e l'implacabile danese Michael Schjønberg. A centrocampo il già citato Sforza, figlio di un imbianchino italiano emigrato in cerca di fortuna, reduce da un esperienza non troppo gratificante a Milano con la maglia dell’Inter. A Kaiserslautern Ciriaco si accorse che la palla era tornata ad ubbidirgli ciecamente e allora riprese a impartire ordini e disegnare geometrie. Lo sostenevano Andreas Buck e il brasiliano Everson Ratinho, unite alla qualità e al talento di Marco Reich e del giovane Michael Ballack che avrebbe fatto la fortuna di Goethe ancor più delle epistole di Werther.

Davanti, tre interruttori accesi senza soluzione di continuità: Olef Marshall, Pavel Kuka e il bulgaro Marian Hristov.

“Gol- Gol- Gol- Gol", o forse "Tor- Tor- Tor"  ripeteva Italia, nel salotto di casa Walter, fra le ceramiche, i bricchi e le assenze impresse sotto il vetro dei quadretti appesi alle pareti. Il Kaisersalutern da quel giorno non vincerà più niente. Chissà, Fritz forse se lo sentiva, pare ad ogni marcatura gli scendesse via una lacrima. Difficile dire se fosse di gioia o di tristezza. 

Gute Reise Kapitän 







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