
Quartiere di Govan, esterno giorno. Luce tenue della mattina,
asfalto bagnato, un chiosco di chips e hot dog infradiciato dalla pioggia appena
cessata gronda acqua sporca, odore di salse e bacon grigliato. Si muove Jimmy, vent'anni, professione disoccupato, un
giovanotto magro, nervoso, spiritato, sulle spalle uno sbiadito giacchetto di pelle nera, un
paio di “Docs” ai piedi, di quelle prodotte dalla Martens R. Griggs & Co. di
Wollaston, maglietta dei "King Krimson" e bretelle d’ordinanza ad agganciare i jeans stretti
col risvoltino; cammina sul selciato fra sgocciolii umidi, poca gente in giro,
assenza apparente di calore umano, qualche gatto dagli occhi nocciola. Il pub dagli infissi scarlatti è
dietro l’angolo, spera in una pinta con nelle tasche due sterline scarse di
immaginazione ma Tim Chassels, proprietario di lunga data del Richard’s, è un omaccione
con nelle narici l’odore di vecchi pestaggi e resta rigido nel suo broncio di
intenditore presunto di perditempo e casinisti, sogghigna, allora Jimmy si appoggia
a un angolo del locale dove lo spazio e più esiguo di un corridoio. È estate,
luglio 1989, un’estate del cazzo, estate per modo di dire, perchè a Glasgow l’estate
vira impazzita, non è terra di tepori, si fa alla svelta a rendersi conto che
il sole non ami questa città. Jimmy si siede su uno sgabello in noce, sotto la fronte gli
splendono due occhi cupi, rossi, la nottata quasi in bianco, le dita giallognole
di nicotina, nocchiute e deluse come a sfilare ingannevoli assi di un poker, brevi
fumacchi di una Benson&Hedges. Dio ha detto che oggi è tempo di soffiare una pedina apparentemente incolorabile a quelli col pigiama, ma appare scelta discutibile, un orzaiolo, un bruscolo nell’occhio del creatore, una infelicissima mossa, stridente. Infatti, macchè Dio, colpa del vizio solitario del sognare e del trasognare di quel Greame Souness, perbacco gran giocatore, niente da dire, bel baffo e bella chioma di ricci ma anche furbissimo picchetto da ippodromo, donnaiolo
e scaltro come i garzoni di un macello. Glasgow luogo di bisticci e non sensi,
carbonari e certosini nell’eterogenesi dei fini, pigionanti della città dove
nei tram si leggono polizieschi da viaggio, working class e modesta borghesia. Più
che altro cattolici contro protestanti, vangeli contrapposti, sermoni contro
eucarestie, Celtic
contro Rangers. Un’accetta a spaccare il Clyde. A Jimmy adesso risuona
un nome nella testa: Don
Kitchenbrand detto Rhino. Un sudafricano che aveva vestito la maglia dei
Rangers fra gli anni Venti e Trenta, un cattolico, l’unico certificato, tuttavia con molta
probabilità non molto credente, ma stavolta sembrava esserci altro a
galleggiare nel cielo grigio. Qualcosa di nuovo, troppo nuovo e
sconcertante. Nel pub entra James sporgendo il naso in avanscoperta, secco, ulivigno, inforca spesse lenti da miope, la maglietta con un abbozzata "union jack". L’amico di una vita, dalla scuola, allo sballo di serate senza ipotesi, agli spalti simmetrici di Ibrox. Dietro di lui
arriva il “vecchio” Allan, irrompendo nel pub col piglio di un basso che
sorprende soprano e tenore. Non occorsero spiegazioni fu subito chiaro che, se
era già fuori a quell’ora senza cappello né bastone e in faccia mostrava un
brutto colore e alle occhiate investigative rispondeva solo con un’epilessia
delle mani una cosa grossa doveva essere capitata davvero. Furono tutti in un balzo ai suoi
fianchi per sorreggerlo, mentre Tim accorreva con mezzo bicchierino di
Glenlivet. Venne praticamente deposto come un Cristo sulla seggiola più vicina. Sbalordimmo,
poiché nella voce insieme alla indignazione che ne svisava i toni fino al
falsetto, inequivocabilmente un gorgoglio di riso squittiva da far pensare che quanto
ci veniva raccontando non lo facesse soffrire più di quanto lo divertiva e che
comunque la "disgrazia" lo avesse si, sulle
prime accasciato ma trasformatolo subito dopo in elettrica marionetta. Insomma,
cosa diavolo era accaduto?
Bisogna ripartire. Non cercate termini di paragone. Non lì troverete.
Questo è un affare per stomaci forti. Noi galleggiamo sulla superficie liscia
del semplice antagonismo sportivo, l'Old Firm scende in profondità, giù fino ai
cromosomi di un popolo, fino alle ragioni di una comunanza forzata decisa dalla
fame e dalle opportunità. Il trionfo delle conseguenze non volute. A Glasgow c'è una data d'inizio a tutto questo.
Iniziate a cercarla a Gallowgate nel sud est della città. Edilizia popolare e
negozietti a buon mercato che sventolano bandiere irlandesi. Sui pub troneggiano
scritte in onore dei “Lisbon Lions 1967”, l'anno in cui il Celtic vinse la
Coppa dei Campioni a Lisbona contro l'Inter di Helenio Herrera e contro i
pronostici. Prima squadra non latina a farlo. Prima, sopratutto degli inglesi,
che marceranno d'invidia e dovranno aspettare la stagione successiva per
festeggiare, nella notte di Wembley, di Bobby Charlton e del Manchester United.
“Qui troverete ovunque questa scritta”, -ti dicono orgogliosi. Qui, si riversarono navi di
emigranti provenienti dall'Irlanda a seguito della penosa carestia delle
patate scoppiata nella metà del XIX secolo e che causò la morte di quasi un
milione di irlandesi. Ad attrarli il grande porto di Glasgow, i suoi moli, i
suoi cantieri navali. Da qui, e non solo da qui, il Regno Unito è partito per
il mondo e se lo è portato a casa. In breve, l'afflusso immigratorio definì
ancora meglio la fisionomia della città. Operaia, proletaria, e laburista. Un
giorno fratello Walfrid, nome religioso di Andrew Kerins, irlandese nato a
Ballymote nel 1840 e anche lui emigrato nella cittadina scozzese viene
convocato dal suo arcivescovo che ha in mente di creare ciò che ha già preso
piede a Edimburgo. Ciò che già funziona con l'Hibernian. Una squadra di calcio
che raccolga fondi da devolvere in beneficenza ai bambini più sfortunati: Poor
Children's dinner table. Walfrid è entusiasta del progetto. Si darà subito da
fare; affitta per 50 sterline un lembo di terra accanto al cimitero di
Janefield, proprio nella zona di Gallowgate, e lo trasforma in un empirico campo
da calcio. Nel 1888 partorisce la sua “creatura”, al grido di “viva San
Patrizio”. È nato il Celtic Football Club. È nata una “banda di straccioni” che
gioca accanto alle lapidi sbrecciate di un camposanto, con una maglia bianca e
verde e un quadrifoglio come emblema. Diventerà icona, simbolo, rifugio, ed
eccellenza sportiva. Ma intanto la massiccia iniezione di manodopera irlandese
non poteva non provocare reazioni in città. Dell'altra faccia della città.
Quella protestante, e presbiteriana, quella delle prediche infuocate di John
Knox a una platea che lo ascolta ma non si muove. Perché farsi il segno della
croce è da fanatici, da adulatori del Papa e delle sue politiche d'interesse,
da fondamentalisti cristiani, da superstiziosi cattolici. Le braccia locali si
vedono sfilare posti di lavoro e stipendi. Irlandesi e scozzesi. Cugini di
genesi celtica. Troppo simili per non odiarsi. La religione, la politica, ma
non solo. Ne nasce un attrito che il tempo provvederà ad accrescere e
amplificare.
Nel 1872 erano nati i Rangers, anche se alcune cronache non
collimano con questa data. Quello che è certo e che nascono dalle idee di
quattro padri fondatori. I fratelli Moses e Peter McNeil, Peter Cambell e
William McBeath. I primi due sono figli di un giardiniere che lavora presso la
residenza estiva di John Honeyman, un mercante di grano. Per il nome si
ispirano a una squadra inglese di rugby, per i colori al blu scozzese che gli
anni a venire macchieranno di una britannicità palesemente ostentata da
venature bianche e rosse. I colori della Union Jack. Mentre i cori
racconteranno della battaglia di Boyne e di quando Guglielmo d'Orange sconfisse
il re cattolico Giacomo II. Prima partita contro il Callander FC con pareggio
finale a reti inviolate. Sedi vacanti e provvisorie per i primi anni, poi dal
1899 arriva definitivamente il quartiere di Ibrox e uno stadio progettato del
celebre architetto Archibald Leitch. Diventerà il tribunale del popolo. Ibrox,
Govan, South Side, salsedine, brividi freddi, gabbiani rauchi, i cantieri navali
di Gorbals, e cieli neri per il fumo costante delle ciminiere. Sarà il riflesso
opposto a Gallowgate. Oggi Govan è mestamente fatiscente ma la zona adiacente
di Pacific Quay è stata oggetto di uno straordinario lavoro di rinnovamento,
dal Glasgow Science Centre, al Riverside Museum, agli studi della BBC. Dalla
fondazione dei due giganti calcistici della città, dal loro primo match
ufficiale disputato nel maggio del 1888 (un amichevole si noti bene) malgrado
numerosi segnali di distensione, la rivalità è cresciuta costantemente.
Dissidi, rancori, incidenti e un episodio fra i tanti che ha destato
l'attenzione di tutto il mondo.
Thomson Street, lunga teoria di
case squadernate nell’est di Glasgow, più lontana di quanto si pensi dalle luci
di Buchanan e Argyle Street, la mansarda è in cima a una di quelle palazzine dal colore indefinito, quasi minerale, è colma delle note dei Simple Minds, la voce chiara di Jim Kerr e il riff tagliente della chitarra di Charlie Burchill. Tutto partì da quel loro primo
album "Life in a Day", rilasciato nel 1979, segnale indiscusso del loro talento musicale. Il
sound punk rock combinato con elementi di elettronica adesso, dieci anni dopo, risuona con Belfast Child. Seán vorrebbe approfondire ancora una volta il tepore del corpo di Orna, la
ragazza in piedi a due passi da lui, tenta di carezzarle piano i capelli, ciclamini
di respiro, Orna si ritrae, ha la fronte larga bianca come le scogliere d’Irlanda, sotto una
coppia di occhi azzurri e silenziosi, osserva Seán con aria di cocciutaggine
e sazietà, la loro storia sta giungendo al termine, anzi è finita, la loro alcova ormai un
nido consunto di un amore sbocciato sulle tribune ovali e oracolari di Parkhead
nel solito putiferio, consueto, della "Jungle". Seán osserva le pozze d’acque dalla finestra, brillano come pupille che non sembrano intenerirsi in vezzi di fiume, le storie scappano
via nel destino di parole storte, bizzarre, atte a corrompere, sono le linee
oblique del nostro personale juke box di ricordi programmato a disobbedire,
specchio portato a spasso o lasciato in soffitta come il ritratto di Dorian Gray. Porco cane di quel re pagliaccio, sussurrato
alle canne di un fosso, quell’ impostura, quell’acquaforte morsa appena
dall’acido del possibile, nell’assemblea di Guinness. Solo per un attimo, -le
dice,- ma ci siamo anche io e te in quell’inquadratura. Forse adesso dovrei
ridere di quel pomeriggio; nell’istante in cui "Mo" Johnston ci fotte al
novantesimo io perdevo te. Ti vedevo sparire a poco a poco, trascinata dolorosamente
fuori dall’onda umana dei tifosi che per non subire altra onta uscivano
trafelati e corruschi da Ibrox. Mi guardavi, sospinta verso l’uscita, come
scusandoti per quella tristezza. Lasciarsi in quello stadio per un litigio su quel rosso
di merda che si era voluto mettere la maglia dei Rangers per dei sacchi di
sterline in più era una cosa da idioti. Ecco perché, quando segnò, in fondo non
immaginavo di chiudere in un modo così improbabile la nostra storia. “Good
things come to those who wait”. Lui parlava dell’Old Firm e io pensavo a noi. Già seppi che disse proprio così il telecronista
mentre Johnston stava per colpire il pallone decisivo. Lo vidi
qualche giorno dopo sul nuovo TV color della Philips appena comprato dai miei
per sostituire il vetusto apparecchio in bianco e nero. A questo proposito c’è
una cosa che penso, mi fa star male e paradossalmente mi fa sorridere: hai mai pensato che ogni tifoso dei maledetti Rangers di tanto in tanto, andrà a cercarsi la videocassetta di quella rete e si commuoverà? Tutti quanti quei maledetti "huns" insomma, alle volte, si rifugeranno in quel giorno bislacco della
nostra vita per essere felici. Assurdo. Seán guarda l’alba, le ombre di case che resistevano
ancora al giorno, sullo sfondo la sagoma del Celtic Park, nello adesso stereo gira Angel of Harlem degli U2, Orna esce, c’è suo fratello Liam a prenderla. Bottiglie
vuote, zodiaci sul soffitto, mentre sul muro un timido sole comincia ad accarezzare il poster di Paul
McStay, “The Maestro”.
La notizia pareva già nell’aria fetida, ma pare che un quotidiano di Belfast, il Telegraph (tanto per
far capire che una parte consistente di Old Firm si gioca in Irlanda del Nord) aveva annunciato per primo che i Rangers, sotto la pressione del loro allenatore Graeme Souness, vogliono venire meno alla loro storica “unwritten rule” di non tesserare
giocatori di fede cattolica. Era ufficialmente aperto il caso Maurice Johnston. Maurice
John Giblin Johnston, per tutti “Mo”, nasce a Glasgow il 14 aprile 1963.
Rossiccio di capelli, qualche lentiggine e lo sguardo di chi conosce le insidie
della strada. È cattolico oltre che calciatore promettente. Per uno di quelle
parti il Celtic sembrava la destinazione naturale. Ci arriverà nel 1984 e in
tre anni collezionerà 140 presenze siglando 52 reti. Poi arrivano le sirene
francesi e l’esperienza nel Nantes. Nella Loira non smarrisce le sue doti di
bomber facendo intendere di non voler più tornare, anzi no, improvvisamente
rilancia il suo amore per il Celtic e dichiara che rivuole Parkhead. Frank Mc
Avennie, il suo sostituto, se ne ritorna al West Ham. E Johnston tornerà a
Glasgow, sì, ma nella parte blu. Una bella merda di problema. Souness
risponderà alle domande dicendo:
“Sono scozzese e protestante, capisco certe cose, ma nel
calcio come nel mondo moderno non devono contare, io ho il dovere di scegliere
i più bravi e poi ho sposato una cattolica figuriamoci se avrò problemi ad
allenarne uno”.
Anche
il neopresidente David Murray avalla la scelta del “padrino di Edimburgo”. I
tifosi no. Di ambo le parti. Per quelli del Celtic è semplicemente un “Judas”
un maledetto traditore. E mentre dall' East End volano offese e minacce, sui
cancelli di Ibrox bruciano le sciarpe dei Rangers e vengono stracciati gli
abbonamenti. Edminston Drive viene presa d'assalto. Il 13 luglio fu una notte
infinita, urla, rabbia e tanta polizia. Nemmeno una subdola regia occulta
avrebbe fatto meglio, siamo infatti nel bel mezzo delle marce orangiste a
Belfast. Benzina sul fuoco. Johnston fu costretto a difendersi da tutti. Da
quelli dei Rangers, e da quelli del Celtic. Per muoversi avrà bisogno di tre
guardie del corpo. Stessa storia per la moglie e i quattro figli. Fu persino
costretto a prepararsi da solo la divisa da gioco in quanto anche il
magazziniere dei “gers” si rifiutava di farlo. Billy McNeill l'allenatore del
Celtic non avrà mezze parole:
“Non lo posso perdonare e credo che nemmeno i
fans lo faranno mai perché ha mancato di rispetto a tutti a noi e alla nostra
causa”.
4 novembre 1989, ad Ibrox, andò in scena l’Old Firm, il pubblico di
casa parve ambiguo, prudente, Johnston apparve dal tunnel degli spogliatoi con
un riso stizzoso, nell’abbrivio di scorgere il raccapriccio, fragorosamente
evitato ai primi cori, ed evitato lo scandalo, cadde ogni verginità, ogni caldana
di gelosia, anzi furono calori e ovatte nuziali, lui rosso come un lume di
carro nottambulo, lui per gli altri solo bivacco di ladro di passo, “opus
incertum” delle facce, colpi proibiti. I Rangers scendono sul terreno con Woods, Stevens, Munro, Brown, Wilkins, Butcher,
Steven, Ferguson, McCoist, Johnston, Walters, il Celtic con Bonner, Morris, Burns, Aitken,
Elliott, Whyte, Galloway, McStay, Dziekanowski, Coyne, Miller. L’invocazione alla
rete sforza le labbra, una spina d’apprensione, Johnston è un John Silver senza
benda sull’occhio ma con la stessa follia piratesca, sterline o meno giocare in
quella situazione sarebbe stato impossibile per molti, sgomita, anelante di
dimostrare, nel rantolo dei 7500 tifosi ospiti barricati e fieri dietro i
tricolori irlandesi, imballati nella Broomloan Stand dalla polizia dopo aver
colpito Johnston in testa con un pasticcio di carne e intenti negli insulti
d’addio. A un minuto dal termine tutto si scioglie nel singulto dell’azione: Stevens
partì sulla fascia destra, Morris respinse in modo inadeguato il cross e la
palla si contorse verso Johnston pronto a colpire rasoterra oltre Bonner. Alla
pari di un'amante abbandonato il Celtic provò il dolore terribile di vedere il
suo ex spezzargli definitivamente il cuore con il goal della vittoria a 60 secondi dalla fine; modo più crudele non poteva esserci. L’esultanza
di Johnston è sfrenata, corre sotto il lato della curva occupata dai propri
tifosi. Uno a zero e abbracci. Qualcosa era cambiato mutuando il film di Jack Nicholson ma nemmeno tanto, Johnston dimostrerà una forza di carattere
notevole e se ne andrà da Ibrox solo nel 1991 dopo aver segnato 46 reti,
qualcuna applaudita, qualcuna no perché appunto, mica tutti suonarono il flauto orangista di benvenuto per lui, ma la vicenda resterà pietra angolare nelle successive fasi della
storia di questa partita, passione e scorza dura al tatto di qualunque
ordinaria rivalità sportiva.
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