mercoledì 30 settembre 2020

CHIEDI CHI ERANO I VILLANS



 

La signorina Adams, segretaria dell’Aston Villa Football Club, quella gradevole mattina di metà giugno del 1974 si presentò in ufficio con un sorriso più smagliante del solito. A casa aveva diminuito la dose di panna da mettere sul caffè e il rossetto le appariva stranamente in perfetto ordine. Nei giorni precedenti, colloquiando al telefono, era riuscita a stabilire un paio di appuntamenti molto importanti. Il primo da tenersi negli uffici vittoriani di Trinity Road, alla presenza del presidente Doug Ellis, e un secondo, subordinato agli esiti del suddetto, presso i campi d’allenamento della squadra in Bodymoor Heath.

Elizabeth Adams, 37 anni portati maluccio, posò gli occhiali sulla solida scrivania in radica di noce, si appuntò sulla nuca i lunghi capelli fulvi e per un attimo, dagli infissi del Villa Park, scrutò la sagoma gotica dell’Aston Parish Church dove avrebbe tanto desiderato sposarsi, dopodiché, abbandonando quel pensiero, con malcelato rammarico, sorresse a malapena lo sguardo sulla fila dei quadri appesi alla parete di fronte a lei che emanavano folate di storia così forti da far impallidire un presente fatto di divisioni inferiori e anonime posizioni di classifica.

L’ultima stagione in cadetteria si era conclusa da poco con il "Villa" aggrappato allo scialbo ramo del quattordicesimo posto arrabattato a fatica dalla squadra allenata dal gallese Vic Crowe. Troppa gloria perduta la fissava dentro quella stanza; volti austeri, colti nelle loro espressioni più serie, schermati dal vetro e guarniti alla base da un etichetta aurea da toccare con la stessa ricettività e attenzione di un cieco che legge in braille: Jack Hughes, Frederick Matthews, Walter Price, William Scattergood.

Eccoli i quattro padri fondatori, la scintilla, coloro che una sera d’inverno del 1874 seduti sulle panche nodose della Wesleyan Chapel e rischiarati dalla luce fatua di un lume a gas, decisero di donare a Birmingham il cuore profondo del calcio inglese. Non solo, sull’altro lato dell’ufficio pendeva un ulteriore imponente ritratto; quello di un baffuto scozzese, un uomo d’affari, tale William McGregor, evangelista convinto, uno che non beveva, non fumava, sfuggiva alle lusinghe delle donne alla stregua di un santo, ma evidentemente non riuscì a resistere alla tentazione di un pallone ruzzolante, offrendosi di aiutare in qualche maniera il vagito dell’Aston Villa.

Nel 1878, di ritorno da Edimburgo, donò al gruppo una muta di divise da gioco recanti sul petto uno sgargiante leone rosso su campo nero. Una livrea da torneo medievale, quasi un frammento ritagliato da una pagina dell’Ivanohe di Walter Scott. Purtroppo quel leone non ebbe nessuna possibilità di successo contro la ligia signora delle pulizie diventando, a furia di lavaggi, pallido e anemico. Resterà il simbolo del club, certo, ma tornerà a ruggire sulle commoventi maglie claret&blue soltanto dal fatidico 1957 allorché l’Aston Villa di Eric Houghton (ghigno, sigaraccio, trilby verde e soprabito scuro) scese a Londra per il settimo e ultimo sigillo nella FA Cup. 

Tuttavia in quel frangente, mentre la radio passava “Rebel Rebel” di David Bowie, qualcosa diceva alla signorina Adams che il Villa stava davvero per tornare in alto e che lei, finalmente, avrebbe trovato marito. In fondo occorreva essere ottimisti, quel giorno c’era il sole a brillare sui muri rossastri di Witton Lane e sulla vecchia Holte Road, dove quattro secoli addietro un certo Thomas Holte costruì un’incantevole locanda, e allora, per non scordarsi delle ataviche bevute, il club pensò bene di intitolare la più grande stand dello stadio proprio a questo tizio benemerito.

Il nuovo tecnico, secondo i piani, sarebbe dovuto essere Ron Saunders in uscita dal Norwich, un ex attaccante nato a Liverpool nel 1932 con discreti trascorsi per Everton, Gillingham e Watford nonostante una vertebra cervicale in pessime condizioni. Ron rappresentava la sintesi perfetta di una persona degna della più aristocratica sala da tè: elegante, composto, educato, mento volitivo, sguardo indagatore e, ahimè, anche una calvizie inclemente nascosta a stento da un misero riporto.

Il presidente Doug Ellis, in carica dal 1968, con cui Saunders si interfacciò al suo arrivo era invece un imprenditore controverso, astuto al punto giusto, mai molto amato e sicuramente bizzarro, se si pensa che fece installare un particolare sistema di citofoni all’interno del Villa Park per poter parlare con gli allenatori durante le partite. Fatto sta che Saunders sottoscrisse il contratto e la “lunga marcia” dell’Aston Villa non poteva cominciare meglio visto che arrivò subito un secondo posto alle spalle del Manchester United (altra nobile declassata) che significò promozione in First Division. La ciliegina sulla torta sarà l’inaspettata finale della Coppa di Lega a Wembley in cui i Villans piegarono, guarda caso, il recente passato di Ron, ossia il Norwich City, con una rete di Ray Graydon.

Le stagioni che seguirono stabilizzarono il club nel campionato maggiore, merito soprattutto delle prestazioni dello scatenato attaccante Andy Gray, scozzese biondiccio prelevato dal Dundee United, che con i suoi prodigiosi goal nel fango nelle serate grigie e piovose, scaldava le membra meglio di un sorso di Punch o di un vasetto di Bovril. Doug Ellis nel frattempo cedette la presidenza a Sir William Dougdale, signore della buona nobiltà britannica, educato a Eton, discreto pilota, egregio granatiere decorato con la croce di guerra, appassionato agricoltore, azzeccagarbugli, giramondo, buon fantino e ci mancherebbe: nominato baronetto a Warwick.

Per non farsi mancare niente sembra che passò anche una notte in cella, reo di aver colpito con un pugno un poliziotto durante una manifestazione. A questo punto dobbiamo fare un balzo in avanti, dobbiamo saltare al maggio del 1981, a quel Natale dell’anima in cui il capitano Dennis Mortimer, barba gitana e cespuglio di capelli in testa, si affaccia sorridente dal balcone della Council House in Victoria Street mostrando il trofeo della Prima Divisione.

L’Aston Villa era tornato a conquistare il titolo dopo 71 anni di attesa. Lo sforzo vincente, fissato sugli almanacchi con il timbro 1980/81, giunse dagli esiti dolenti della dipartita del beniamino Gray che si accaserà al Wolverhampton per 1,5 milioni di sterline. A rimpiazzarlo spuntò Peter Withe, mascella quadra e fisico da taglialegna. Avrebbe dovuto far coppia con Brian Little ma quest’ultimo incappò in un serio infortunio al ginocchio che ne fermò prematuramente la carriera. Fu così che Saunders promosse un prodotto delle giovanili, il platinato local boy Gary Shaw. Si trattò di un autentico miracolo sportivo.

Riuscire a portare a termine vittoriosamente una stagione estenuante come quella inglese con appena 14 giocatori a disposizione significava aver letto la dottrina degli astri come Eraclide e chiudere ogni allenamento in avanzo di ossigeno. L’undici titolare vide in porta l’esperienza di Jimmy Rimmer, protetto dal vallo difensivo formato dai centrali Allan Evans e Ken McNaught, ai lati Kenny Swain e Gary Williams, in mezzo il condottiero Mortimer e il talentuoso faccia d’angelo Gary Shaw con accanto due ali diversissime tra loro, l’agilissimo Tony Morley, genuina “English Wing”, e il più guardingo Desmond Bremner detto “Dezzie”, ragazzo cresciuto in un villaggio sperduto del granitico Aberdeenshire dove gli uomini sono uomini e anche le pecore sono nervose.

Ne uscì una formazione votata al dinamismo e praticante un football spregiudicato grazie alla fantasia del regista e aggiungerei sceneggiatore Gordon Cowans, autentica musa ispiratrice che si portava dietro la leggenda di essere in grado di far atterrare un pallone su una moneta da un 5 pence da oltre 40 metri. E se ciò può sembrare banale nell’accezione della raffazzonata, retorica, mitologia corredata al calcio, lo studio del mito riporta che ad oggi nella speciale classifica del più grande Villans di ogni epoca c’è esattamente lui, il nativo di West Conforth, una manciata di case della Contea di Durham dove Dio ha messo il carbone e gli abitanti vi hanno eretto una Cattedrale.

Ma a quelli del risorto Aston Villa non bastò tornare a sedersi sul trono d’Inghilterra; l’anno seguente ci sarà addirittura la consacrazione europea. Un anno che parve non dovesse concludersi nel migliore dei modi quando il 9 febbraio, a causa di un disaccordo contrattuale (o divergenze con la nuova coppia dirigenziale Bendall-Wiseman), Ron Saunders decise di dimettersi dall’incarico di manager lasciando baracca e burattini nelle mani del suo fidato assistente Tony Barton, tipo schivo, riservato, e padre di tre figli. Ciò nonostante se le cose in campionato galleggiarono sulla linea della sufficienza, Barton guidò caparbiamente la squadra verso la finale della Coppa dei Campioni a Rotterdam. Sua moglie Rose (vedova dal 1993) ricorda: 

"Qualche giorno prima che mio marito partisse per l’Olanda uno zingaro bussò alla nostra porta mostrandoci la sua mercanzia, si trattava essenzialmente di lavori di cucito con pizzi di lana. Ne comprammo uno e lo zingaro affermò che si trattava di un oggetto molto fortunato. Non sono mai stata scaramantica ma in qualche modo quel merletto lo feci scivolare segretamente dentro il borsone di Tony".

Come sia andata la partita lo sanno tutti (giusto magari rammentare che il portiere titolare Rimmer fu costretto ad uscire appena al terzo giro di lancette e il sostituto Nigel Spink decise di inventarsi la notte della sua vita). Ma per chi si fosse perso il risultato di quel 26 maggio 1982 e volesse scoprirlo, sarebbe bello andasse a dare un’occhiata alle parole scritte sulla balaustra della North Stand del Villa Park che riportano la storica, concitata, frase del commentatore della BBC Brian Moore, strappate nel momento più intenso della sua telecronaca:

"Shaw e Williams si sono preparati ad avventurarsi sulla sinistra, c’è una buona palla al centro per Tony Morley, oh, ecco una grande opportunità! Ed è Peter Withe a sfruttarla al meglio!"

Aston Villa 1 Bayern Monaco 0.

 

 

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