Pioveva
da giorni. L’acqua portata dalle nuvole nere sbucate dalle montagne di
Aizkorrie e Gorbea scivolava come ruscelli in piena attraverso il dedalo
delle sette antiche vie del Casco Viejo. Bilbao era un intarsio bagnato
e reticente. Nelle insegne dei negozi spiccavano ancora ben visibili le
ammaccature di proiettili, non tutti di gomma, sparati dalla Guardia
Civil. Mischiato agli afrori della pioggia battente il profumo dei tanti
negozi di alimentari che occupavano il pian terreno dei vecchi palazzi:
stretti gli uni agli altri al punto da rubarsi il timido sole che
filtrava a tentoni. Sulle terrazze degli appartamenti, fra Somera, Artekale
e Tendería, restavano appese bandiere fradice appiccicate alle ringhiere
in attesa di qualche folata di vento per tornare asciutte e frusciare refoli di
orgoglio e libertà. Gli argini del Nervion apparivano carichi ed
esausti. Si giocherà? Nessuno lo sapeva con esattezza. La situazione
politica nei paesi baschi continuava a restare tesa: le organizzazioni
sindacali sembravano intenzionate ad insistere nell'azione rivolta ad
ottenere un'amnistia totale dei detenuti politici ma si ignorava se
queste ultime volessero continuare lo sciopero generale che aveva praticamente
bloccato ogni attività da alcuni giorni. Dopo l'annullamento della tappa
del Giro ciclistico di Spagna, la Durango-S. Sebastian, fu sospeso
anche l’incontro di campionato tra la Real Sociedad e il Siviglia. Tutti
guardavano a Bilbao perché c’era da giocare la finale di ritorno della
Coppa UEFA e il San Mames era già esaurito. Un
interesse senza precedenti. Per l’allenatore dell’Athletic, Koldo
Aguirre, a Torino la Juventus aveva deluso e adesso i suoi ragazzi potevano
farcela a ribaltare la rete al passivo. I problemi con i quali stava
alle prese erano costituiti dalla lombalgia che affliggeva il portiere icona Josè Angel Iribar e l'indisponibilità di Andoni Goicoechea la cui furia agonistica ebbe l'effetto di beccare un
cartellino pesante al Comunale.
Probabilmente nel ruolo di centrale il bilancino della possibilità oscillava fra Onaederra e il giovane Alexanco, una delle rivelazioni dell'annata, messo fuori causa
a inizio stagione da un infortunio al ginocchio ma adesso pronto a ributtarsi nella mischia.
Si parlava di Jose Maria Lasa e dell'inserimento del sempre incisivo Carlos
Ruiz tra gli attaccanti. Insomma, il 18 maggio 1977 tutta Euskal Herria
sperava in una rimonta dell'Athletic. Intanto, al di là del successo sportivo, la vittoria continentale avrebbe garantito un utilissimo credito per
mettere la città sulla mappa del mondo e condividerne i problemi mentre sul fiume sarebbero scivolati battelli ammantati di striscioni a righe biancorosse con a prua, in
bella vista, la prima coppa europea di un club che di esotico possedeva
soltanto il nome d'origine britannico. Per il resto, dal presidente
all'allenatore, dall'ultima riserva al massaggiatore, erano tutti rigorosamente di
estrazione basca. Tuttavia non c’e solamente l’identità a tenere uniti i tifosi dell’Athletic,
c’e anche una visione della società che a oggi a molti può
sembrare impensabile e anacronistica. L'Athletic è una sorta di democrazia diretta, un azionariato popolare, nel quale l’assemblea dei circa 30.000 soci sostenitori, che assiepano il San Mamès, ha voce in capitolo su qualsiasi decisione. Il club, per atavica fierezza regionalistica,
rinuncia di fatto agli stranieri assumendo esclusivamente calciatori
nati e cresciuti nella zone contrassegnate dalla cultura e dai sapori baschi per esaltare l'amore e l'interesse in difesa
dei propri colori e delle proprie tradizioni (su di loro cali benedizione e indulgenza plenaria). E' dunque, tornando sul pezzo, la Juventus guidata in panca dal debuttante Giovanni Trapattoni, in quel maggio del 1977, doveva
innanzitutto fronteggiare la calorosa spinta indipendentista a cui il
popolo basco non intendeva certo rinunciare: per loro l’incontro si vestirà, come in ogni occasione degna di nota, di
un significato che trascendeva il mero fatto calcistico. “Una Senora
contra los leones" scrìssero sui giornali locali per avvertire gli italiani
dei rischi che si corrono quando ci si trovava chiusi dentro la “Cattedrale”.
Rimaneva il dubbio legato alla situazione esterna, alla tensione e alla
paura avvertita ogni ora più massiccia, in una Bilbao umida e irretita che
all’ora di cena della vigilia taceva ringhiando fra i denti, in un'atmosfera da autentico
coprifuoco con l’Athletic deciso a giocare la finale portando il lutto al braccio in
ossequio alle vittime degli scontri che avevano caratterizzato il sanguinoso
fine settimana precedente. Intanto continuava a piovere, seppure con meno insistenza, e la federazione dette il via libera al match ma a nulla valse il mazzo
di fiori lanciato dagli juventini in maglia blu verso il busto del capocannoniere di
ogni tempo “Pichichi”, al secolo Rafael Moreno
Aranzadi, per smorzare la palpabile ansietà emotiva. Il dittatore Francisco Franco era morto nel
1975, ma solo qualche settimana prima di Natale venne ritirata fuori dai
cassetti la Ikurriña, lo stendardo degli stendardi, creata nel 1894 dai fratelli Luis e Sabino Arana.
Fu durante un derby ad "Atocha" che la bandiera vietata rifece la sua
comparsa pubblica portata dai capitani Inaxio Kortabarria della Real Sociedad e
José Ángel Iribar dell’Athletic, dopo che Josè Antonio de la Hoz Uranga
detto “Abertzale” (che sta all’incirca per patriota..)
ex giocatore della "Erreala", fremente attivista, la farà
cucire dalla sorella e a farla entrare sul terreno di gioco nascosta
dentro un borsone pieno di tute e borracce. In questo clima da tregenda si giocò
Athletic- Bilbao- Juventus del 1977 e probabilmente l'eccitazione farà
subito un brutto scherzo ai padroni di casa perché nonostante un
immediata incetta di calci d'angolo a favore, su un terreno ogni minuto più allentato dal fango, Roberto Bettega in tuffo, su pennellata di
Tardelli, anticipò il terzino Escalza, infilando una rete che apparve
letale. Ciò nonostante l'Athletlc ebbe una reazione a dir poco vigorosa, schiumando bile.
Villar si prese le redini del centrocampo, la classe di Rojo mostrò la
sua profondità e quando Lasa pescò inebetiti Morini e Scirea, Chiurruca
servì a due passi dalla porta Irureta al quale bastò spingere per il
pareggio. Una polveriera, un accendersi, nel nome del rosso di Biscaglia, del verde decussato di Sant'Andrea, e dell'albero di Guernica instillato nel bianco della croce cristiana. “Quando manca?” sarà la
preghiera laica e assidua di diversa variabile temporale chiesta dai
giocatori di entrambe le squadre. Gli assalti dell’Atheltic
continuarono, ci fu forse un rigore negato ai padroni di casa dopo un
intervento molto dubbio di Scirea su Dani e il San Mames
allora diventò una prigione di rabbia; partì qualche bottiglia di birra di
troppo sul campo e le punte degli ombrelli picchiavano sulle nuovissime reti di
recinzione scrollando goccioloni d'acqua sporca. Poi Lasa pizzicò Zoff, commettendo fallo di mano, niente da fare. Nella ripresa Trapattoni si
cautelò di fronte alla mareggiata basca con il terzino Spinosi al posto
del centravanti Boninsegna. Benetti e Furino si disporranno in una diga esemplare forata quando
sembrò non ci fosse più luce nelle prospettive dell’Athletic e su un
calcio d’angolo battuto da Rojo spuntò la testa nel neo entrato Carlos
che manderà avanti i suoi, solo che per le regole delle reti in trasferta non bastava. Mancavano
12 minuti, lunghissimi o brevissimi a seconda dei punti di vista, dove
l'Athletic sfiorò soltanto quel terzo, bramato goal, che avrebbe
cambiato la sua storia e chissà, non soltanto quella.
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