venerdì 30 ottobre 2020

I FIORI DI DRESDA



Il fosforo dilagò sull’asfalto creando fontane di fuoco. Persone urlanti uscivano dalle rovine avvolti da fiamme biancastre; torce umane vacillanti che cadevano una dopo l’altra in preda a strazianti agonie.
 
Un sergente di un ormai sbandata Wermacht, proruppe in ordini perentori:
 
"Per Dio sparate a questi disgraziati, meglio un colpo di pistola al posto di quest’orrore."
 
A Dresda il 13 febbraio del 1945 l’inferno caduto dal cielo si mostrò agli uomini rendendo la città il simulacro di se stessa. Dovunque macerie e roghi. Tutto si consumava, si piegava, si inginocchiava, specchiandosi carbonizzato sull’Elba; dai fulvi gotici palazzi del centro, alle antiche casette di legno, ai vicoli punteggiati di birrerie.
 
Wolfang Hànel quel giorno aveva sedici anni e faceva parte delle giovanissime, rabberciate truppe, assoldate per l’ultima disperata difesa del Reich. Otto lustri dopo, quando la Volkspolizei assunse le forme e il nome di Dynamo Dresda miscelando una selezione dei migliori elementi di sette squadre locali, Hànel fu eletto presidente della Dynamo dal comitato centrale dello Sport della DDR in mano a Manfred Ewald. A partire dal 1968 il club si liberò definitivamente dei colori originari per avvalersi nello stemma del giallorosso della Sassonia. Nel dopoguerra era cominciato un significativo processo di ricostruzione e redenzione che coinvolse l’intero paese, discipline sportive comprese. Si decise di sciogliere i vecchi club tedeschi, considerati borghesi, attraverso una filtrazione in gruppi polisportivi aventi ragione sociale connessa ad aziende e enti pubblici. La Dynamo agli inizi degli anni ’70 possedeva diciassette squadre di calcio delle quali tredici nella sola Dresda, le altre nei dintorni della città. Il reclutamento avveniva in maniera rigorosamente regionale creando in tal modo delle formazioni che incarnavano orgoglio, tradizione e senso d’appartenenza.
 
A proposito la Dynamo è femmina, si pronuncia con l’accento sulla a, e loro ci tengono.
 
Nel 1973 conquista il suo terzo titolo di Oberliga sotto la guida tecnica di Walter Fritsh; tipo snello quel Fritsh, nato a Planitz, 48 anni portati bene, i capelli appena brizzolati, gli occhi profondi di chi ha visto tutto e lo ha accettato al ritmo del destino, una voce da caporale, tuta d’ordinanza e scarpette bianche da ginnastica. Divenne allenatore seguendo l’obbligatoria prassi dello schema sportivo socialista, ossia frequentando l’apposito istituto di Lipsia e a quel punto, ottenuto il diploma, presentò formale domanda per essere assunto.
 
Nel 1968 Hànel lo porterà a Dresda.
 
In quella Dresda dove gli juventini dissero di aver dormito malissimo. Le stanze d’albergo sembravano quelle delle case delle bambole giapponesi, le finestre prive di tapparelle e i letti bislacchi. Colpa, nell’ultimo caso, delle lenzuola: troppo corte sotto, con tendenza a sfuggire e ad arrotolarsi, assenti sopra, dove erano surrogate da una sorta di bustone di stoffa contenente una pesantissima coperta che scivolava dovunque.
 
Insomma in basso si gelava e in alto si sudava. Che sia stata una patetica scusa per la sconfitta subita?
 
Fatto sta che i bianconeri, reduci dalla delusione patita nella finale disputata qualche mese prima a Belgrado, detentori dello scudetto italiano, affrontarono i campioni della Germania Est nel primo turno della Coppa dei Campioni nel settembre del 1973 quando il calcio in Italia si svegliava sbadigliando ancora assopito dal sole delle spiagge della Versilia e della Romagna, mentre nel nord Europa già si battevano come leoni.
 
Dynamo Dresda- Juventus si giocò nel catino del Rudolf-Harbig Stadion sotto una pioggia sottile e vacua di quelle che rendono l’erbetta soffice e luccicante da far morire d’invidia certi nostri asfittici impianti sterrati. I riflettori pallidi come un boccale di Radeberger, resero luci e ombre ai trentamila presenti tenutari di biglietti oscillanti fra gli 8,90 marchi per un posto seduto al coperto, e 5,50 per starsene belli addossati alle fradice balaustre di ferro. Un prezzo forse eccessivo, ciò nonostante anche i paesi d’oltrecortina stavano ormai scoprendo che questa competizione poteva essere un affare non soltanto di prestigio e poi due anni addietro, giusto lì, avevano bloccato su un tassativo 0-0 nientemeno che l’Ajax della trilogia di Cruijff e soci.
 
Mica poco in fondo.
 
La Dynamo stentò a mettersi in moto contro la Juve, intimorita in avvio dal bolide di Anastasi finito sulla traversa, e allora decise di manovrare cauta, riflessiva, stretta nel palleggio, finché la sua miglior condizione fisica si palesò netta sulla scena e ebbe la meglio: Boden, Ganzera, Wazlich, Sammer, Helm, Rau, Schade, Riedel, Klaus Muller, Sachse e soprattutto là davanti Hans Jurgen Kreische detto "Hansi", autentico martello biondo platino, da diverse stagioni stabilmente in vetta alla classifica cannonieri del campionato issante la bandiera dalla corona di spighe martello e compasso.
 
Sarà proprio lui ad aprire le marcature sfuggendo al controllo di Marchetti e ribadendo in rete una corta respinta di Dino Zoff. Dieci minuti e Hartmut Schade approfittò di un incertezza di Morini siglando il raddoppio. A Torino al ritorno ci fu battaglia vera, tuttavia per la Juventus allenata dal ceco Čestmír Vycpálek arrivò soltanto una platonica vittoria per 3-2 e una cocente, prematura, eliminazione dal torneo. La Dynamo girava a mille; i figli della sconfitta adesso erano fieri narcisi gialli sbocciati dagli amplessi consumati fra i ruderi del bombardamento. L’ostacolo successivo si sarebbe chiamato Bayern Monaco. Un confronto epico, fuori dal tempo, in uno spazio geografico che parlava la stessa lingua eppure mutilato ferocemente. 
 
La spuntarono i cugini dell’Ovest, quelli della Baviera cattolica e conservatrice, al termine di due sfide senza respiro su sentieri di sbronza e echi da guerra dei trent’anni: 4-3 a Monaco 3-3 a Dresda con Gerd Muller abile a salvare in extremis i suoi. Una sconfitta bruciante ma la vendetta, almeno a livello di compagini nazionali, era dietro l’angolo. Basterà aspettare la rete di Jurgen Sparwasser a Amburgo.
 
Certo è chiaro, quella è tutta un'altra storia.

 

martedì 27 ottobre 2020

Il METODO CHAMPENOISE


Il bisnonno del Marchese Melchior de Polignac era un tipo scaltro; quando si accorse che troppe teste stavano cadendo nella cesta del boia pensò bene di mettersi una coccarda tricolore sul cappello e aderire alle idee rivoluzionarie asserendo che le lepri della sua proprietà non erano più esclusiva preda dell’assonnata nobiltà venatoria francese bensì dono di Dio per il popolo sovrano. E il nipote, anche lui con l’occhio lungo seppure in tempi di Belle époque e Ville lumiere, metterà a disposizione una discreta somma di franchi per il giocattolo ricreativo dei suoi dipendenti. 
 
Circa quarant’anni dopo quel passatempo denominato Stade de Reims, diventerà la squadra del figlio talentuoso di un minatore polacco e di un genio visionario della Marna che vedeva il calcio come un inno alla gioia: Raymond Kopa e Albert Batteux. 
 
Ah, certo, l’Abbazia. L’abbinamento calcio champagne è ovviamente roba di queste parti, merito di Pierre Pérignon, monaco per vocazione ed enologo per passione. Secondo il racconto tradizionale lo champagne non sarebbe stato frutto di un esperimento voluto, ma semplicemente il risultato di un errore. Il benedettino avrebbe scoperto la cosiddetta “presa di spuma” accorgendosi che alcune bottiglie di vino, lasciate in cantina ad affinare, erano scoppiate. Pérignon infatti ebbe l’intuizione di far colare della cera d’api all’interno del collo delle bottiglie per assicurare una chiusura ermetica senonché qualche settimana più tardi, a causa dell’eccessiva pressione, le bottiglie scoppiarono, offrendogli però lo spunto per creare il cosiddetto “methode champenoise”.
 
Insomma lo Stade de Reims, tunica rossa recante maniche bianche a seguito di piccole fusioni locali, si è giocato un paio di finali della Coppa dei Campioni battagliando contro il Real Madrid grazie a Monsieur Albert Batteux, un tecnico che schierava cinque attaccanti di ruolo predicando un gioco offensivo fatto di passaggi corti, triangolazioni, possesso e moto continuo delle sue pedine. 
 
Il 13 giugno del 1956 a Stoccarda il Real Madrid si trovò sotto di due reti contro i veementi Rouges et Blanc, il cui calcio armonico, a detta della loro stella più fulgida, Raymond Kopa, “combinava intelligenza e spettacolarità”. Il maggior tasso tecnico delle Merengues non sembrava sufficiente di fronte al collettivo francese, che a mezz’ora dal termine si trovava in vantaggio per 3-2. 
 
Poi ecco l’episodio non inserito nelle coordinate Cartesiane e che s’insinuò dentro gli assi decidendo storia antica e moderna: un palo colpito da Jean Templin. Avrebbe potuto essere il crollo definitivo degli spagnoli, ne diventerà invece punto di rinascita e trampolino della saga; segneranno Di Stefano e Gento, e l’edizione inaugurale della Coppa finirà a Chamartin. 
 
Poche settimane dopo ci finirà lo stesso Kopa o Kopazewski, il centravanti brevilineo dal dribbling letale. 
 
Le “Napoleon du Football”, il primo giocatore francese a vincere il Pallone d’Oro, il miglior giovane al Mondiale svizzero del 1954 e il miglior giocatore in assoluto a quello in Svezia quattro anni dopo, restando il più celebre calciatore del pentagono transalpino, almeno fino all’avvento di Michel Platini. Kopa era figlio di polacchi emigrati negli anni Venti nel villaggio battuto dal vento di Nouex-les Mines, nel settentrione del paese, per lavorare in infide miniere di carbone.
 
Fortuna volle che Raymond Kopa fu baciato in fronte da Eupalla e Albert Batteux, nel 1951, convinse il presidente dello Stade Reims, Henri Germain, a sborsare 1.8 milioni di franchi per assicurarselo dall’Angers. Batteux dal canto suo era stato promosso allenatore all’età di 29 anni fra la perplessità di molti dirigenti, eppure a smentire ogni residuo di incertezza nel 1953 arriverà il titolo nazionale sulla sinfonia del quintetto d’attacco Appel-Glovacki-Kopa-Sinibaldi-Méano. Nel 1955 entrerà in bacheca un' altro campionato e Batteux non si dimostrò solo maestro di tattica ma allenatore completo introducendo durante la preparazione estiva i “seminaires”, una sorta di stage nel quale i giocatori venivano sottoposti a una dura trafila che combinava preparazione fisica, tecnica e psicologica.
 
Persa la Coppa dei Campioni e Kopa, a Reims continueranno a mettere su il vinile di Edith Piaf "la vie en rose" perchè Batteux ripartìrà prelevando dal Nizza Just Fontaine, affiancandolo a Roger Piantoni a Jean Vincent e all’attaccante Renè Bliard. Arriveranno altri titoli e il club potè vantarsi di fornire alla nazionale ben otto elementi (inclusi Robert Jonquet e Armand Penverne), oltre allo stesso Batteux in panchina, che si arrenderà solo in semifinale al cospetto del grande Brasile. Lo Stade de Reims, trascinato dalle reti del “pied noir” Fontaine, (così chiamavano i francesi nati in Africa e rimpatriati) raggiunse di nuovo la finale della Coppa Campioni, trovandosi sempre di fronte il Real Madrid, ma lo champagne dei francesi evaporerà prestissimo e l’incontro si chiuderà con una sconfitta per 2-0 stavolta priva di rimpianti.
 
Gli anni Sessanta portarono il declino; rientrò Kopa ma in parabola discendente; Fontaine lascierà il calcio a causa di un brutto infortunio e nel 1963 dalle parti di Chaussée Bocquainenon, non rinnovarono il contratto a Batteux. 
 
Si concluse lì l’epoca d’oro dello Stade de Reims, iconico tabernacolo del calcio europeo, condannato negli anni seguenti a barcollanti stagioni in paludose serie inferiori disperse nelle campagne francesi. Un paio d'anni fa, i Rouges et Blanc sono tornati nel massimo campionato sotto lo guida di David Guion stravincendo la cadetteria con qualche settimana d’anticipo. 
 
Eh, pensare che una volta i bravi cadetti si recavano a Parigi per diventare moschettieri.
 
“Bonne Chance” vecchio Stade.

 

lunedì 26 ottobre 2020

L'ULTIMA ROSA DI LEEDS


 

A Leeds l'inverno è talmente egocentrico che ogni anno pretende di essere il più freddo di sempre. Scatena un vento pungente che ti sferza la faccia, duro, come le vocali strette degli inglesi del nord. Un inverno così lungo che sembra nessuno si ricordi cosa c'era prima a parte quella breve parentesi autunnale che piega gli alberi e riempie le strade di foglie morenti. Il sole? Una band d'apertura che si sgola qualche minuto e poi cede il passo al protagonista. A precipitazioni che si abbattono al suolo tramando contro l'eroismo di piccoli fiori sbocciati nei giardini di Bramley, di Horsforth o di Roundhay e inzuppa l’erba di Elland Road facendo lacrimare gli occhi di bronzo della statua di Billy Bremner.. Suvvia lo scenario non è poi così cupo, in ogni caso benvenuti a Leeds, porta d'ingresso dello Yorkshire, dove le brughiere si alternano ai villaggi, in un coloratissimo patchwork di colture e vegetazioni.

 

Benvenuti nella città del Leeds United AFC. Ma non iniziamo subito ad associare questa squadra con quella che per circa un decennio, a cavallo fra gli anni '60 e '70, visse un autentico periodo da protagonista sia in Inghilterra sia in Europa, raccogliendo trofei importanti insieme a beffarde sconfitte, conosciuta con il celebre soprannome di dirty Leeds, uno spiritato manipolo guidato in panchina dalle occhiatacce e dai basettoni da ispettore di Scotland Yard di Donald "Don" Revie.

 

Jack Charlton, John Giles, Peter Lorimer, Norman Hunter, Allan Clarke, Billy Bremner off course, tanto per fare una mini fabbrichetta da ufficio anagrafe; un undici etichettato come rude, sleale, tanto da essere etichettato dagli avversari con quel nomignolo citato in precedenza, a torto o a ragione. Nel 1974, va detto, raggiungerà in ogni caso la finale di Coppa dei Campioni senza Revie perchè chiamato a guidare la nazionale e il suo nemico giurato Brian Clough sarà inopinatamente chiamato a domare gli afrori di Elland Road solo che, dopo 44 giorni di frustrazioni, litigi e rabbia, lasciò capre e cavoli sotto la panca  di Jimmy Armfield, traghettatore sereno senza troppa scorza, fino a una Parigi sognata dove il Bayern Monaco, non senza oggettive recriminazioni, si imporrà per due reti a zero. Si è vero, non erano una comitiva di santi, ma alla fine, nel calcio l'aggettivo “sporco” o “cattivo” potrebbe fare compagnia a molte altre squadre che si vantano di avere una fedina penale pulita e che invece di misfatti dentro e fuori il rettangolo verde ne hanno combinati diversi.

 

Agli inizi degli anni ‘90, dopo essere tornata nella massima serie arrivò un inaspettato titolo di campione d’Inghilterra grazie soprattutto all’ innesto del talento di Eric Cantona. Oui, Cantona, un marsigliese, istrionico, geniale, ruvido. Nel gennaio 1992 farà un provino con lo Sheffield Wednesday allenato da Trevor Francis. Gli venne offerto un secondo provino ma ciò provocò il risentimento del giocatore che offeso decise di firmare per il Leeds United, diventando una colonna della dei bianchi di Howard Wilkinson. Non solo Cantona, quella era la squadra del portiere John Lukic, del terzino Tony Dorigo e dei suoi ricci sempre perfetti, della grinta dell'irlandese Gary Kelly, delle scorribande del povero Gary Speed, dell'esperienza di Gordon Strachan, della fermezza dello scozzese Mc Allister, del barcollante ma puntualissimo centravanti Lee Champan, e del velocissimo Rod Wallace. Le speranze del Manchester United anch’esso alla ricerca di risalire sul trono nazionale vennero soffocate dalla spuma dello champagne stappato a Elland Road. Fu l’ultimo campionato prima dell’avvento della patinata Premier League, la fine del calcio inglese, amen, con nostalgica ammissione, e l'iniziò di un era diversa, globale, che piaccia o meno. A conti fatti quel gruppo segnerà un epoca e per favore, stavolta però non chiamatelo sporco, non chiamatelo maledetto, chiamatelo solo e più semplicemente Leeds United.

 

Marching on together....

LO SPARTA DEI PASSI PERDUTI


Dusan ha la faccia pulita di un pastore all’alba. E’ nato in Slovacchia, nel bel mezzo della guerra, in un paesino alle pendici del monte Zobor, lungo la valle solcata dal fiume Nitra che alle casupole presta il nome. Ma adesso c’è altra acqua che scorre davanti a lui e sull’acqua si trasfigurano i riflessi gotici di Praga perché Dusan a 16 anni seguì la sua famiglia alla ricerca di un lavoro migliore e di una vita diversa. La Moldava è una cintura che avvolge lenta la città, è la chiave di tutto, è il fiume che qui nessuno può ignorare, il poema sinfonico di Bedrich Smetana, una cornice, un confine e, nello stesso tempo, un punto d’unione. Dusan Uhrin cammina sull’acciottolato del centro, è ancora giovane, non ha nemmeno cinquant’anni, si ravviva un po’ i capelli di un fulvo raschiato, si passa il dorso della mano sulla guancia fresca di rasatura, prima di entrare nella sua birreria preferita, e affogare la delusione in un boccale o due di birra. Si dice che all'osteria “Casa della Tigre”, nel quartiere di Staré Město, la Pilsner venga spillata nella maniera migliore al mondo e forse non è un caso che lo scrittore Bohumil Hrabal, grande intenditore, era un cliente abituale; ci passava diverse ore al giorno, considerava le birrerie uno dei posti più confortevoli al punto che nel suo testamento scrisse di voler essere seppellito non solo sotto un albero di quercia ma sulla sua bara volle far incidere il nome della fabbrica di birra dove sua madre e suo padre adottivo s'incontrarono per poi innamorarsi. A 26 anni Dusan Uhrin giocava da queste parti per il Bohemians, nel delizioso Dolicek, ma un brutto infortunio gli fermò la carriera e da allora si gettò a capofitto nel ruolo di allenatore, solo che in quella primavera inoltrata fatta di ciliegi in fiore e di grano quasi maturo, stava per toccare un sogno e il sogno è sfumato, torbido e malinconico, per dirla con le parole di Friedrich Nietzsche, con un alone di lugubre sfacelo, con una smorfia di eterna disillusione. Il suo Sparta Praga era arrivato a un passo dalla finale dell'edizione di partenza, un po’ empirica a dire il vero, della nuova Champions League, e quella sera, la sera del 20 maggio 1992 non aveva nessuna voglia di vedere in TV la partita fra la Sampdoria e quel Barcellona che lui immaginava ancora tremante per lo spavento preso durante il girone di semifinale dagli undici in maglia granata del Letná. La collina di Letná è quella con il metronomo in cima. Lo si vede chiaramente stando su via Pařížská o, semplicemente, dal molo di Dvořákovo Nábřeží. La vista di Praga è magnifica e lo stadio alla fine sembra un ponte, uno dei tanti, forse non bello come il San Carlo con le sue statue misteriose di nebbia o cocenti di sole che qualcuno racconta si muovano, parlino, si mettano comode. E che, quando sull’isola di Kampa, nel mezzo al fiume, nasce un bambino, le statue si animino per festeggiarlo e promettergli protezione. Ma il suo Sparta non era stato protetto a sufficienza e la Praga avvolta nella bandiera rossa, blu e gialla aveva pianto lacrime amare. Dusan ordinò una birra e appoggiò i gomiti al bancone. Ripensò alla sua formazione: Petr Kouba in porta, in difesa Michal Hornak, Jiri Novotny, Jan Sopko, e Petr Vrabec, a centrocampo Martin Frydek, Lumir Mistr, Jiri Nemec, e Vaclav Nemecek, e infine in attacco la coppia Pavel Cerny, Horst Siegl. Una bella squadra e due sorteggi iniziali complicati. In pochi ci credevano, la gente sfogliava i quotidiani sportivi nei pressi della stazione di Hlavní Nádraží nel cuore della città nuova e non dette troppa enfasi alla partita contro i Rangers di Glasgow, seppure l’urlo della rete della vittoria segnato da Jiri Nemec mosse qualcosa nello spirito, uscendo di fatto dallo stadio e percorrendo Via Zatleca fino all'antico cimitero di Praga, che s'innalza di qualche metro rispetto all'altezza della strada e le lapidi sono ammassate l'una sull'altra, e fra le centinaia una appartiene a Judah Low, il Maharal praghese, rabbino, filosofo, cabalista e matematico. C’era una partita di ritorno in Scozia dove non bastarono novanta minuti per decidere. Ai supplementari i Rangers erano avanti 2-0 poi ecco la salvifica autorete di Scott Nisbet che promosse lo Sparta Praga. Fu complicato uscire con il biglietto del secondo turno da Ibrox ma in fondo cosa vuoi, a essere complicata è la stessa Praga e non parlo dei pinnacoli di San Vito ma di un ometto iroso e impenetrabile, paradossale e tragico: Franz Kafka. Si perché Praga è Kafka. In ogni sua riga noi possiamo ancora assaporarla, magari partendo da Hradčanské, attraversando Loretánské, e salendo su fino alla collina di Petřín. Invece lo Sparta Praga scese fino a Marsiglia e fu battaglia, una sconfitta limata dalle reti di Vrabec e Kukleta quando ogni ormeggio sembrava perduto sul 3-0 per i francesi. A Letná ci fu un esaurito memorabile. Frydek e Siegl fecero impazzire gli oltre 30000 sugli spalti anche se nei minuti conclusivi ci sarà parecchio da soffrire per il goal di Abedì Pelè ma lo Sparta in trincea, richiamato dai sui fondatori alla tenacia della città greca, superò il turno e ora il girone di semifinale avrebbe sentenziò secco: la prima classificata va a giocarsi la Coppa a Wembley, mica a Teplice o a Olomouc. Dusan uscì dalla birreria, c’èra una brezza leggera, e tram bianchi e rossi che sferragliavano. Sapeva che la partita lassù a Londra doveva essere incominciata ma non volle pensarci. Ripensò invece a quella partita del Camp Nou che risultò decisiva, quella maledetta partita. A girone concluso, dopo che a Praga lo Sparta si era imposto 1-0 in casa sul Barcellona con una memorabile rete del solito infallibile Horst Siegl, in Spagna un pari avrebbe sbilanciato la classifica a favore dei cechi e a quel punto a giocarsi il trofeo dalle grandi orecchie con la Sampdoria, ci sarebbe andato lui, Dusan Uhrin dalla pietrosa Nitra. Invece in quella notte catalana, sballottati dal “miedo escenico” dei 100000, nonostante un Barca in inferiorità numerica per l’espulsione di Guillermo Amor, lo “Železná Sparta” si piegherà 3-2 e la grande rincorsa successiva non servì a niente, se non ad aumentare il rammarico. Ci sono treni che passano una volta sola, anche in una città di maghi, alchimisti, restauratori di libri rari e cliniche di vecchie bambole. Questo sapeva il buon Dusan mentre stravaganti ombre color granata sembravano seguirlo. Tuttavia non ebbe paura, erano i suoi giocatori, il suo capitano Vaclav Nemecek, biondo come una schiumosa birra appena spillata, pronto ad abbracciarlo, affinchè nessun passo sia perduto per sempre.

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...