Dusan
ha la faccia pulita di un pastore all’alba. E’ nato in Slovacchia, nel
bel mezzo della guerra, in un paesino alle pendici del monte Zobor,
lungo la valle solcata dal fiume Nitra che alle casupole presta il nome.
Ma adesso c’è altra acqua che scorre davanti a lui e sull’acqua si
trasfigurano i riflessi gotici di Praga perché Dusan a 16 anni seguì la sua famiglia alla ricerca di un lavoro migliore e di una vita diversa. La
Moldava è una cintura che avvolge lenta la città, è la chiave di tutto, è
il fiume che qui nessuno può ignorare, il poema sinfonico di Bedrich
Smetana, una cornice, un confine e, nello stesso tempo, un punto
d’unione. Dusan Uhrin cammina sull’acciottolato del centro, è ancora
giovane, non ha nemmeno cinquant’anni, si ravviva un po’ i capelli di un
fulvo raschiato, si passa il dorso della mano sulla guancia fresca di
rasatura, prima di entrare nella sua birreria preferita, e affogare la delusione in un boccale o due di birra. Si dice che
all'osteria “Casa della Tigre”, nel quartiere di Staré Město, la Pilsner
venga spillata nella maniera migliore al mondo e forse non è un caso
che lo scrittore Bohumil Hrabal, grande intenditore, era un cliente
abituale; ci passava diverse ore al giorno, considerava le birrerie uno
dei posti più confortevoli al punto che nel suo testamento scrisse di
voler essere seppellito non solo sotto un albero di quercia ma sulla sua
bara volle far incidere il nome della fabbrica di birra dove sua madre e
suo padre adottivo s'incontrarono per poi innamorarsi. A 26 anni Dusan Uhrin
giocava da queste parti per il Bohemians, nel delizioso Dolicek, ma un
brutto infortunio gli fermò la carriera e da allora si gettò a capofitto
nel ruolo di allenatore, solo che in quella primavera inoltrata fatta
di ciliegi in fiore e di grano quasi maturo, stava per toccare un sogno e
il sogno è sfumato, torbido e malinconico, per dirla con le parole di
Friedrich Nietzsche, con un alone di lugubre sfacelo, con una smorfia di
eterna disillusione. Il suo Sparta Praga era arrivato a un passo dalla
finale dell'edizione di partenza, un po’ empirica a dire il vero, della
nuova Champions League, e quella sera, la sera del 20 maggio 1992 non
aveva nessuna voglia di vedere in TV la partita fra la Sampdoria e quel
Barcellona che lui immaginava ancora tremante per lo spavento preso
durante il girone di semifinale dagli undici in maglia granata del
Letná. La collina di Letná è quella con il metronomo in cima. Lo si vede
chiaramente stando su via Pařížská o, semplicemente, dal molo di
Dvořákovo Nábřeží. La vista di Praga è magnifica e lo stadio alla fine
sembra un ponte, uno dei tanti, forse non bello come il San Carlo con le
sue statue misteriose di nebbia o cocenti di sole che qualcuno racconta
si muovano, parlino, si mettano comode. E che, quando sull’isola di
Kampa, nel mezzo al fiume, nasce un bambino, le statue si animino per
festeggiarlo e promettergli protezione. Ma il suo Sparta non era stato
protetto a sufficienza e la Praga avvolta nella bandiera rossa, blu e
gialla aveva pianto lacrime amare. Dusan ordinò una birra e appoggiò i
gomiti al bancone. Ripensò alla sua formazione: Petr Kouba in porta, in
difesa Michal Hornak, Jiri Novotny, Jan Sopko, e Petr Vrabec, a
centrocampo Martin Frydek, Lumir Mistr, Jiri Nemec, e Vaclav Nemecek, e
infine in attacco la coppia Pavel Cerny, Horst Siegl. Una bella squadra e
due sorteggi iniziali complicati. In pochi ci credevano, la gente
sfogliava i quotidiani sportivi nei pressi della stazione di Hlavní
Nádraží nel cuore della città nuova e non dette troppa enfasi alla
partita contro i Rangers di Glasgow, seppure l’urlo della rete della
vittoria segnato da Jiri Nemec mosse qualcosa nello spirito, uscendo di
fatto dallo stadio e percorrendo Via Zatleca fino all'antico cimitero di
Praga, che s'innalza di qualche metro rispetto all'altezza della strada
e le lapidi sono ammassate l'una sull'altra, e fra le centinaia una
appartiene a Judah Low, il Maharal praghese,
rabbino, filosofo, cabalista e matematico. C’era una partita di ritorno
in Scozia dove non bastarono novanta minuti per decidere. Ai
supplementari i Rangers erano avanti 2-0 poi ecco la salvifica autorete
di Scott Nisbet che promosse lo Sparta Praga. Fu complicato uscire con
il biglietto del secondo turno da Ibrox ma in fondo cosa vuoi, a essere
complicata è la stessa Praga e non parlo dei pinnacoli di San Vito ma di
un ometto iroso e impenetrabile, paradossale e tragico: Franz Kafka. Si
perché Praga è Kafka. In ogni sua riga noi possiamo ancora assaporarla,
magari partendo da Hradčanské, attraversando Loretánské, e salendo su
fino alla collina di Petřín. Invece lo Sparta Praga scese fino a
Marsiglia e fu battaglia, una sconfitta limata dalle reti di Vrabec e
Kukleta quando ogni ormeggio sembrava perduto sul 3-0 per i francesi. A
Letná ci fu un esaurito memorabile. Frydek e Siegl fecero impazzire gli
oltre 30000 sugli spalti anche se nei minuti conclusivi ci sarà
parecchio da soffrire per il goal di Abedì Pelè ma lo Sparta in trincea,
richiamato dai sui fondatori alla tenacia della città greca, superò il
turno e ora il girone di semifinale avrebbe sentenziò secco: la prima
classificata va a giocarsi la Coppa a Wembley, mica a Teplice o a
Olomouc. Dusan uscì dalla birreria, c’èra una brezza leggera, e tram
bianchi e rossi che sferragliavano. Sapeva che la partita lassù a Londra
doveva essere incominciata ma non volle pensarci. Ripensò invece a
quella partita del Camp Nou che risultò decisiva, quella maledetta
partita. A girone concluso, dopo che a Praga lo Sparta si era imposto
1-0 in casa sul Barcellona con una memorabile rete del solito
infallibile Horst Siegl, in Spagna un pari avrebbe sbilanciato la
classifica a favore dei cechi e a quel punto a giocarsi il trofeo dalle
grandi orecchie con la Sampdoria, ci sarebbe andato lui, Dusan Uhrin
dalla pietrosa Nitra. Invece in quella notte catalana, sballottati dal “miedo escenico” dei 100000, nonostante un Barca in inferiorità numerica per l’espulsione di Guillermo Amor, lo “Železná Sparta”
si piegherà 3-2 e la grande rincorsa successiva non servì a niente, se
non ad aumentare il rammarico. Ci sono treni che passano una volta sola,
anche in una città di maghi, alchimisti, restauratori di libri rari e
cliniche di vecchie bambole. Questo sapeva il buon Dusan mentre
stravaganti ombre color granata sembravano seguirlo. Tuttavia non ebbe
paura, erano i suoi giocatori, il suo capitano Vaclav Nemecek, biondo
come una schiumosa birra appena spillata, pronto ad abbracciarlo,
affinchè nessun passo sia perduto per sempre.
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