lunedì 26 ottobre 2020

LO SPARTA DEI PASSI PERDUTI


Dusan ha la faccia pulita di un pastore all’alba. E’ nato in Slovacchia, nel bel mezzo della guerra, in un paesino alle pendici del monte Zobor, lungo la valle solcata dal fiume Nitra che alle casupole presta il nome. Ma adesso c’è altra acqua che scorre davanti a lui e sull’acqua si trasfigurano i riflessi gotici di Praga perché Dusan a 16 anni seguì la sua famiglia alla ricerca di un lavoro migliore e di una vita diversa. La Moldava è una cintura che avvolge lenta la città, è la chiave di tutto, è il fiume che qui nessuno può ignorare, il poema sinfonico di Bedrich Smetana, una cornice, un confine e, nello stesso tempo, un punto d’unione. Dusan Uhrin cammina sull’acciottolato del centro, è ancora giovane, non ha nemmeno cinquant’anni, si ravviva un po’ i capelli di un fulvo raschiato, si passa il dorso della mano sulla guancia fresca di rasatura, prima di entrare nella sua birreria preferita, e affogare la delusione in un boccale o due di birra. Si dice che all'osteria “Casa della Tigre”, nel quartiere di Staré Město, la Pilsner venga spillata nella maniera migliore al mondo e forse non è un caso che lo scrittore Bohumil Hrabal, grande intenditore, era un cliente abituale; ci passava diverse ore al giorno, considerava le birrerie uno dei posti più confortevoli al punto che nel suo testamento scrisse di voler essere seppellito non solo sotto un albero di quercia ma sulla sua bara volle far incidere il nome della fabbrica di birra dove sua madre e suo padre adottivo s'incontrarono per poi innamorarsi. A 26 anni Dusan Uhrin giocava da queste parti per il Bohemians, nel delizioso Dolicek, ma un brutto infortunio gli fermò la carriera e da allora si gettò a capofitto nel ruolo di allenatore, solo che in quella primavera inoltrata fatta di ciliegi in fiore e di grano quasi maturo, stava per toccare un sogno e il sogno è sfumato, torbido e malinconico, per dirla con le parole di Friedrich Nietzsche, con un alone di lugubre sfacelo, con una smorfia di eterna disillusione. Il suo Sparta Praga era arrivato a un passo dalla finale dell'edizione di partenza, un po’ empirica a dire il vero, della nuova Champions League, e quella sera, la sera del 20 maggio 1992 non aveva nessuna voglia di vedere in TV la partita fra la Sampdoria e quel Barcellona che lui immaginava ancora tremante per lo spavento preso durante il girone di semifinale dagli undici in maglia granata del Letná. La collina di Letná è quella con il metronomo in cima. Lo si vede chiaramente stando su via Pařížská o, semplicemente, dal molo di Dvořákovo Nábřeží. La vista di Praga è magnifica e lo stadio alla fine sembra un ponte, uno dei tanti, forse non bello come il San Carlo con le sue statue misteriose di nebbia o cocenti di sole che qualcuno racconta si muovano, parlino, si mettano comode. E che, quando sull’isola di Kampa, nel mezzo al fiume, nasce un bambino, le statue si animino per festeggiarlo e promettergli protezione. Ma il suo Sparta non era stato protetto a sufficienza e la Praga avvolta nella bandiera rossa, blu e gialla aveva pianto lacrime amare. Dusan ordinò una birra e appoggiò i gomiti al bancone. Ripensò alla sua formazione: Petr Kouba in porta, in difesa Michal Hornak, Jiri Novotny, Jan Sopko, e Petr Vrabec, a centrocampo Martin Frydek, Lumir Mistr, Jiri Nemec, e Vaclav Nemecek, e infine in attacco la coppia Pavel Cerny, Horst Siegl. Una bella squadra e due sorteggi iniziali complicati. In pochi ci credevano, la gente sfogliava i quotidiani sportivi nei pressi della stazione di Hlavní Nádraží nel cuore della città nuova e non dette troppa enfasi alla partita contro i Rangers di Glasgow, seppure l’urlo della rete della vittoria segnato da Jiri Nemec mosse qualcosa nello spirito, uscendo di fatto dallo stadio e percorrendo Via Zatleca fino all'antico cimitero di Praga, che s'innalza di qualche metro rispetto all'altezza della strada e le lapidi sono ammassate l'una sull'altra, e fra le centinaia una appartiene a Judah Low, il Maharal praghese, rabbino, filosofo, cabalista e matematico. C’era una partita di ritorno in Scozia dove non bastarono novanta minuti per decidere. Ai supplementari i Rangers erano avanti 2-0 poi ecco la salvifica autorete di Scott Nisbet che promosse lo Sparta Praga. Fu complicato uscire con il biglietto del secondo turno da Ibrox ma in fondo cosa vuoi, a essere complicata è la stessa Praga e non parlo dei pinnacoli di San Vito ma di un ometto iroso e impenetrabile, paradossale e tragico: Franz Kafka. Si perché Praga è Kafka. In ogni sua riga noi possiamo ancora assaporarla, magari partendo da Hradčanské, attraversando Loretánské, e salendo su fino alla collina di Petřín. Invece lo Sparta Praga scese fino a Marsiglia e fu battaglia, una sconfitta limata dalle reti di Vrabec e Kukleta quando ogni ormeggio sembrava perduto sul 3-0 per i francesi. A Letná ci fu un esaurito memorabile. Frydek e Siegl fecero impazzire gli oltre 30000 sugli spalti anche se nei minuti conclusivi ci sarà parecchio da soffrire per il goal di Abedì Pelè ma lo Sparta in trincea, richiamato dai sui fondatori alla tenacia della città greca, superò il turno e ora il girone di semifinale avrebbe sentenziò secco: la prima classificata va a giocarsi la Coppa a Wembley, mica a Teplice o a Olomouc. Dusan uscì dalla birreria, c’èra una brezza leggera, e tram bianchi e rossi che sferragliavano. Sapeva che la partita lassù a Londra doveva essere incominciata ma non volle pensarci. Ripensò invece a quella partita del Camp Nou che risultò decisiva, quella maledetta partita. A girone concluso, dopo che a Praga lo Sparta si era imposto 1-0 in casa sul Barcellona con una memorabile rete del solito infallibile Horst Siegl, in Spagna un pari avrebbe sbilanciato la classifica a favore dei cechi e a quel punto a giocarsi il trofeo dalle grandi orecchie con la Sampdoria, ci sarebbe andato lui, Dusan Uhrin dalla pietrosa Nitra. Invece in quella notte catalana, sballottati dal “miedo escenico” dei 100000, nonostante un Barca in inferiorità numerica per l’espulsione di Guillermo Amor, lo “Železná Sparta” si piegherà 3-2 e la grande rincorsa successiva non servì a niente, se non ad aumentare il rammarico. Ci sono treni che passano una volta sola, anche in una città di maghi, alchimisti, restauratori di libri rari e cliniche di vecchie bambole. Questo sapeva il buon Dusan mentre stravaganti ombre color granata sembravano seguirlo. Tuttavia non ebbe paura, erano i suoi giocatori, il suo capitano Vaclav Nemecek, biondo come una schiumosa birra appena spillata, pronto ad abbracciarlo, affinchè nessun passo sia perduto per sempre.

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