Barrio Obrero è Quinta Avenida, oppure Quinta Avenida è Barrio Obrero?
Difficile
capire dove inizia il quartiere e dove finisce la sua strada
principale. Facile trovare il suo cuore. Perché il cuore del popolo del
Cerro Porteno batte forte, lo senti, ricava vigore anche dalla polvere
delle strade, dall’odore pregnante del cuoio, delle stoffe multicolori,
dal fumo del tabacco, e dal suono del fluato. Riceve linfa dai gesti
quotidiani delle classi più umili, quelle che di giorno si abbassano il
“garro” sulla fronte, e la sera scendono in piccoli bar a ballare la
“danza de la botella”.
Il
Cerro Porteno è la sintesi di una battaglia. Disco rosso del sole
sospeso sulla linea dell’orizzonte che stenta a tramontare per capire a
chi la nuova alba porterà un sorriso, nell’aria densa di vapori, dove le
ombre del passato si muovono tra le antiche rovine della missione
gesuitica di Trinidad. Fantasmi canuti, macilenti, magrissimi, in vesti
nere sdrucite, esiliati dal loro paese, che hanno insegnato a indigeni
laboriosi, amanti della musica e del canto ad amare una croce, ma anche a
impugnare un fucile per rivendicare i loro diritti.
E
per loro, soprattutto grazie a loro, ai ferrei principi degli uomini
della Compagnia del Gesù, che un giorno di gennaio del 1811 a pochi
passi dallo scorrere paludoso del Paranà, i figli del Paraguay si
immolarono per la loro terra guidati dal generale Manuel Belgrano.
Scacceranno i “Porteos” argentini e intorno alla cappella di San Juan il
Paraguay si fisserà saldo nel centro babelico dell’America Latina.
E
su quel luogo avito ribattezzato Cerro Porteno, un secolo e un anno
dopo i quattro figli di Dona Sabela Nunez, Nicanor, Antonio, Pastore e
Abelardo, cercano di ricompattare la paura di un ennesimo pericolo. Lo
faranno con i mezzi che possiedono, lo faranno con un pallone di cuoio e
una maglia che nella loro volontà avrebbe dovuto unire le discrepanze
politiche di un paese in tensione. Fare sintesi per arrivare agli esiti
non retorici di uguaglianza, fraternità, e passione. E allora fondono il
rosso del Partito “Colorado” con il blu del Partito “Liberal”. Nascerà
fra vagiti d’orgoglio, il club calcistico del Cerro Porteno, sapore di
quartiere, ma soprattutto di amicizia.
Era il primo ottobre del 1912.
Il
Cyclone. “El club del Pueblo” di Asuncion: L’antico promontorio sul Rio
dove la devozione va oltre la soglia, scorge la Vergine e china la
testa, fra mani giunte in preghiera, e crocefissi appesi dovunque.
Fede.
La Muy Noble y Leal Ciudad de Nuestra Senora Santa Marià de la Asuncìon.
La
cattedrale laica si chiama Estadio Pablo Rojas, architetto, ma
soprattutto presidente della società per quattordici anni. Tutti la
chiamano “La Olla Azulgrana”, la pentola a pressione dell’Hinchada che
bolle sbuffando verso Mariscal López, l’Olimpia, e la sua gente
maggiormente benestante.
L’anno scorso i “cerristos” hanno conquistato la terza stella, il trentesimo titolo nazionale. Il Barrio Obrero era un fiume di silenzio, rotto solo dai clamori dello stadio, dalle voci conclamate e appassionate di radio e televisioni. Anche la bottega del barbiere Alfonso era chiusa. Alle finestre delle case bandiere rosse e blu pronte per essere sventolate.
Cerro
Porteno è un folle amore di senso compiuto. Loro amano il calcio di un
sentimento vero, non mercanteggiato, irrequieto ma sincero, non
modaiolo.
Loro che indossano camice bianche, che camminano a piedi nudi, che hanno donne con camicette dalle maniche di pizzo e un garofano fra i capelli neri.
Cerro
Porteno- Libertad dunque. Con “l’estrella” in palio per i padroni di
casa. Adesso potrà essere tutto e il contrario di tutto. Passione,
cuore, tifo e qualche pugno, polvere mangiata e fatta mangiare, sarà
delirio, sarà estasi, sarà quel vivere il Barrio per difenderlo, saranno
lacrime e disperazione, sarà voragine, saranno viaggi dritti
all’inferno con biglietti d’ingresso mezzi consunti, saranno baci in
bocca ad angeli per gol all’ultimo minuto, sarà follia, fame, sete, sole
e pioggia, sarà sentirsi immortali ogni maledetta volta che gioca la
squadra del popolo di Asuncion. Sarà vita.
Francesco
Arce è impeccabile in panchina. El Chiquì, la vecchia gloria ed ex
capitano dell’Albirroja che si è rimesso in discussione ripartendo dai
club e diventando così uno degli allenatori più giovani di ogni epoca a
conquistare un titolo. Il suo Cerro gioca bene. Pragmatico e senza
orpelli. Una spina dorsale esperta, talentuosa e muscolare che parte
dall’estremo difensore Roberto Junior Fernandez, passa dal centrale
Carlos Bonet, dal mediano Julio Dos Santos, arrivando fino alla punta
Guillermo Beltran. Il corredo poi è di quelli importanti. Come Fidencio
Oviedo esterno sinistro pungentissimo, e Angèl Romero presente e futuro
del calcio paraguayano.
Basta
un pareggio per la certezza della vittoria del campionato. Servirà un
altro disperato assalto per trovare invece la via di almeno una finale
di Coppa Libertadores dopo una sfilza di semifinali sfortunate.
1973, 1978, 1993, 1998, 1999, 2011.
Romero
segna il suo personale quattordicesimo centro stagionale. I palloncini
volano in alto su nel cielo di Asuncion, e nelle cucine si incomincia a
sentire odore di carne arrosto e alla griglia. Di zuppe, di mais, riso,
verdure e fagioli. Stasera sarà festa. Il pareggio del Libertad con
Brian Montenegro non sminuisce la felicita'.
La
sera cala ed è troppo bella. E’ troppo bella per i tifosi del Cerro.
Questo è amore, vorrebbero morire adesso, nella gioia, e non soffrire
più.
Honor.
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