mercoledì 14 ottobre 2020

HONOR


Barrio Obrero è Quinta Avenida, oppure Quinta Avenida è Barrio Obrero?


Difficile capire dove inizia il quartiere e dove finisce la sua strada principale. Facile trovare il suo cuore. Perché il cuore del popolo del Cerro Porteno batte forte, lo senti, ricava vigore anche dalla polvere delle strade, dall’odore pregnante del cuoio, delle stoffe multicolori, dal fumo del tabacco, e dal suono del fluato. Riceve linfa dai gesti quotidiani delle classi più umili, quelle che di giorno si abbassano il “garro” sulla fronte, e la sera scendono in piccoli bar a ballare la “danza de la botella”.


Il Cerro Porteno è la sintesi di una battaglia. Disco rosso del sole sospeso sulla linea dell’orizzonte che stenta a tramontare per capire a chi la nuova alba porterà un sorriso, nell’aria densa di vapori, dove le ombre del passato si muovono tra le antiche rovine della missione gesuitica di Trinidad. Fantasmi canuti, macilenti, magrissimi, in vesti nere sdrucite, esiliati dal loro paese, che hanno insegnato a indigeni laboriosi, amanti della musica e del canto ad amare una croce, ma anche a impugnare un fucile per rivendicare i loro diritti.


E per loro, soprattutto grazie a loro, ai ferrei principi degli uomini della Compagnia del Gesù, che un giorno di gennaio del 1811 a pochi passi dallo scorrere paludoso del Paranà, i figli del Paraguay si immolarono per la loro terra guidati dal generale Manuel Belgrano. Scacceranno i “Porteos” argentini e intorno alla cappella di San Juan il Paraguay si fisserà saldo nel centro babelico dell’America Latina.


E su quel luogo avito ribattezzato Cerro Porteno, un secolo e un anno dopo i quattro figli di Dona Sabela Nunez, Nicanor, Antonio, Pastore e Abelardo, cercano di ricompattare la paura di un ennesimo pericolo. Lo faranno con i mezzi che possiedono, lo faranno con un pallone di cuoio e una maglia che nella loro volontà avrebbe dovuto unire le discrepanze politiche di un paese in tensione. Fare sintesi per arrivare agli esiti non retorici di uguaglianza, fraternità, e passione. E allora fondono il rosso del Partito “Colorado” con il blu del Partito “Liberal”. Nascerà fra vagiti d’orgoglio, il club calcistico del Cerro Porteno, sapore di quartiere, ma soprattutto di amicizia.


Era il primo ottobre del 1912.


Il Cyclone. “El club del Pueblo” di Asuncion: L’antico promontorio sul Rio dove la devozione va oltre la soglia, scorge la Vergine e china la testa, fra mani giunte in preghiera, e crocefissi appesi dovunque.
 

Fede.

La Muy Noble y Leal Ciudad de Nuestra Senora Santa Marià de la Asuncìon.


La cattedrale laica si chiama Estadio Pablo Rojas, architetto, ma soprattutto presidente della società per quattordici anni. Tutti la chiamano “La Olla Azulgrana”, la pentola a pressione dell’Hinchada che bolle sbuffando verso Mariscal López, l’Olimpia, e la sua gente maggiormente benestante.
 

L’anno scorso i “cerristos” hanno conquistato la terza stella, il trentesimo titolo nazionale. Il Barrio Obrero era un fiume di silenzio, rotto solo dai clamori dello stadio, dalle voci conclamate e appassionate di radio e televisioni. Anche la bottega del barbiere Alfonso era chiusa. Alle finestre delle case bandiere rosse e blu pronte per essere sventolate.


Cerro Porteno è un folle amore di senso compiuto. Loro amano il calcio di un sentimento vero, non mercanteggiato, irrequieto ma sincero, non modaiolo.
 

Loro che indossano camice bianche, che camminano a piedi nudi, che hanno donne con camicette dalle maniche di pizzo e un garofano fra i capelli neri.


Cerro Porteno- Libertad dunque. Con “l’estrella” in palio per i padroni di casa. Adesso potrà essere tutto e il contrario di tutto. Passione, cuore, tifo e qualche pugno, polvere mangiata e fatta mangiare, sarà delirio, sarà estasi, sarà quel vivere il Barrio per difenderlo, saranno lacrime e disperazione, sarà voragine, saranno viaggi dritti all’inferno con biglietti d’ingresso mezzi consunti, saranno baci in bocca ad angeli per gol all’ultimo minuto, sarà follia, fame, sete, sole e pioggia, sarà sentirsi immortali ogni maledetta volta che gioca la squadra del popolo di Asuncion. Sarà vita.


Francesco Arce è impeccabile in panchina. El Chiquì, la vecchia gloria ed ex capitano dell’Albirroja che si è rimesso in discussione ripartendo dai club e diventando così uno degli allenatori più giovani di ogni epoca a conquistare un titolo. Il suo Cerro gioca bene. Pragmatico e senza orpelli. Una spina dorsale esperta, talentuosa e muscolare che parte dall’estremo difensore Roberto Junior Fernandez, passa dal centrale Carlos Bonet, dal mediano Julio Dos Santos, arrivando fino alla punta Guillermo Beltran. Il corredo poi è di quelli importanti. Come Fidencio Oviedo esterno sinistro pungentissimo, e Angèl Romero presente e futuro del calcio paraguayano.


Basta un pareggio per la certezza della vittoria del campionato. Servirà un altro disperato assalto per trovare invece la via di almeno una finale di Coppa Libertadores dopo una sfilza di semifinali sfortunate.


1973, 1978, 1993, 1998, 1999, 2011.


Romero segna il suo personale quattordicesimo centro stagionale. I palloncini volano in alto su nel cielo di Asuncion, e nelle cucine si incomincia a sentire odore di carne arrosto e alla griglia. Di zuppe, di mais, riso, verdure e fagioli. Stasera sarà festa. Il pareggio del Libertad con Brian Montenegro non sminuisce la felicita'.


La sera cala ed è troppo bella. E’ troppo bella per i tifosi del Cerro. Questo è amore, vorrebbero morire adesso, nella gioia, e non soffrire più.


Honor.

 

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