giovedì 1 ottobre 2020

I GIARDINI DI MARZO

                               


 

Il buio, raschiato dal pulsare di un moncone di candela posta al centro del tavolino rotondo a tre gambe. Mogano purissimo, legno massello in stile liberty spalmato di motivi floreali. Fuori la notte, sbattuta da un ponentino leggero, calata su una Roma accucciata di fianco al Tevere. Rumore di passi scanditi sulle scale di Palazzo Poli, palmi che scivolano sul corrimano barocco; il marmo trionfante della fontana di Trevi sull’altro lato della residenza, da un taxi scendono un paio di persone incappottate, il crepitìo del cuoio sui sanpietrini umidi. Nella sala Dante di Palazzo Poli ci sono tutti, mancano dieci minuti alla mezzanotte del 2 marzo 1991, la seduta spiritica può avere inizio proprio mentre nelle case di tutta Italia un impeccabile Andrea Occhipinti dichiara Riccardo Cocciante e la sua “Se stiamo insieme” vincitori del cinquantunesimo Festival di Sanremo. Tre uomini e una donna, anzi, tre uomini e una medium. Le mani unite nella catena, stato alterato di tensione mentale ed emotiva, la trance, l’evocazione, il contatto con l’aldilà. 

 

Il silenzio, gli occhi fissi sulla candela che drizza impercettibilmente la fiamma come ravvivata da un’energia sopraggiunta dal basso. La donna getta la testa all’indietro, i capelli raccolti dentro un turbante impreziosito da una piccola gemma, le orbite bianche, le labbra, appena solcate da un rossetto leggero, si schiudono emettendo dapprima un insondabile suono gutturale, poi lentamente la voce si fa più nitida, una voce antropomorfa ma comprensibile: “perché, perché, mi volete?”. Lo spirito del sottufficiale dei Bersaglieri Luigi Bigiarelli, reduce di Adua, fondatore della Società Sportiva Lazio, apre un portale malfermo fra il mondo dei vivi e quello dei morti. 

 

“Ti ha cercato Damiano”. Mia mamma affaccendata nella preparazione del pranzo domenicale non mi guarda nemmeno in faccia. Arriveranno ospiti e tutto deve essere perfetto, non deve pendere un capello, mattonelle cerate e centrini di lana sopra qualsiasi gingillo, sopra qualsiasi soprammobile, un’invasione di centrini. La bottiglia del Vin Santo “secco” da amatore poggiata su un lucidissimo vassoio in alpacca circondata da uno stuolo di bicchierini bombati alla base; Quotidiani politici strimpellanti occultati in un porta riviste fra TV Sorrisi e Canzoni e la Settimana Enigmistica. Damiano è un mio compagno di classe, un tipo allampanato pieno di furiosi ricci biondastri, “romano de Roma”, trasferitosi in Toscana per esigenze lavorative del padre Aurelio impiegato presso gli uffici della prefettura. 

 

Prendo il cordless e vado in camera mia, il poster di Roberto Baggio con la maglia della nazionale si è staccato di lato e il giocatore adesso sembra guardare con petulanza il libro di Joseph Conrad che ho lasciato sul comodino accanto alla dozzinale abat-jour in plastica. Dovrò rimettere dritto il "divin codino" e sperare che nelle ultime pagine quel giovane neo capitano di marina riesca a mettere in salvo il suo veliero nel porto di Singapore.

 

Compongo a memoria il numero di casa De Santis e c’è subito Damiano all’altro capo del telefono con il suo tono allegro, acume dei vent’anni, shakerato dal marcato accento di un Rugantino in trasferta, un tipino destrorso, Damiano, pericoloso come un souvenir di Predappio. “A bello, mì padre sabato prossimo torna a Roma, vieni con noi che io e te s’annamo a vede Lazio-Juve, ho già sentito n’amico pe’ biglietti in Curva Nord, quelli grigi, vedrai che se divertimo, tu dillo ai tuoi che tanto mica te fanno problemi“.

 

Rimpasto un attimo la lingua e accetto, aggiungendo, “magari meglio se gli dico che ci accompagna tuo babbo, no?” Ride. “Vabbè famo così, domani a scuola definiamo tutto, oh interroga la Bucci, io in latino mica sto ferrato, me dai nà mano al solito modo vero?” – “Si, come no, ciao, a domani.” – “A domani, ciao bello”. Con la b raddoppiata sistematicamente da prassi fonetica. Riattacco. Ah, al solito modo era un codice comunicativo tutto particolare che ci eravamo inventati io e lui per intenderci su cosa rispondere quando, angustiati in piedi nella terra di nessuno locata fra la cattedra e la lavagna, non sapevamo più a quale santo votarci. Devo dire che funzionava piuttosto bene. 

 

Andare a vedere dal vivo una partita importante all’Olimpico mi stuzzicava parecchio. Dopo l’arrivo dei fratelli Calleri, che di fatto avevano salvato la società dal fallimento, la Lazio era ritornata in Serie A con il tecnico Eugenio Fascetti che però, a causa di un diverbio, sarà sostituito da Giuseppe Materazzi, uno a cui piace il gioco veloce e la palla a terra. Nella stagione 88/89 la squadra, pur mostrando volontà, ottiene un anonimo decimo posto e degli stranieri acquistati sul mercato, Dezotti, Gutierrez e Ruben Sosa, solo quest’ultimo si metterà in buona luce. 

 

Tra gli altri, spicca un ragazzino di cognome Di Canio uscito della primavera e che, in un derby giocato in un Olimpico ancora cantiere, aveva esploso un destro fra le gambe di Tancredi finendo la sua esultanza sotto la sud romanista. Celebre quasi quanto quello di Chinaglia il gesto provocatorio sotto la Sud gli costerà la macchina posteggiata al “Quarticciolo”. Incendiata. Voltando pagina, alla Lazio targata 89/90 arrivano Amarildo (“bono manco pe l’ammazzatora” – ossia il macello, dicono loro) e Troglio, ma i biancoazzurri non incantano riuscendo a stento a migliorare di una posizione la classifica rispetto al campionato precedente.

 

Tuttavia nell’estate delle notti mondiali il vulcanico Gianmarco Calleri prenderà per la panchina l’icona Dino Zoff che una Juventus in vena di apologie zoniste e modaiole cederà con troppa “nonchalance” per far posto al rampante Luigi Maifredi da Lograto. Sarà quest’ultimo a strappare proprio alla Lazio il promettente Paolo Di Canio. Con il ricavato, la Lazio acquisterà il bomber tedesco Karl Heinz Riedle, e “Kalle” non deluderà. Insomma, domenica 3 marzo 1991 la Lazio di Riedle, del portiere Valerio Fiori, del grintoso Angelo Gregucci, del “fluidificante” Raffaele Sergio, del compassato tuttofare Roberto Soldà e del solito ubriacante Ruben Sosa si ritrova a lottare per un posto in Uefa ospitando la Vecchia Signora.

 

La medium ottiene la fiducia dello spirito che aleggia sulle teste dei presenti. Il tavolino scricchiola, si alza impercettibilmente oscillando sul pavimento, un colpo di vento apre di schianto l’anta di un finestrone e una folata di freddo avvinghia la sala, la candela rischia di spegnersi ma la catena non può e non deve essere interrotta. La seduta è attraente, esaltante, fa provare emozioni, è sibillina, oscura, misteriosa, affascinante, ambigua, complicata, ampollosa, contorta e si può prestare a significati diversi dicendo tante parole fatte di niente.

 

Eppure, la domanda è una sola, semplice, banale, quasi grottesca e superflua al cospetto di una presenza richiamata da chissà quale altra dimensione: “Luigi Bigiarelli, quando vedremo la Lazio rivincere uno scudetto?”. Le campane di Roma scoccano all’unisono l’una di notte e il rintocco pare scuotere le pareti, indistintamente si ode il brontolio dell’acqua nella fontana, qualcuno da qualche parte sta chiudendo delle persiane, gatti e ladri sono ombre sui tetti di Roma e lo spirito del bersagliere pare disturbato, poi finalmente dalla bocca della donna esce un enigma di parole, sfinge assoluta nel precipizio del nulla esoterico:

 

“I miei commilitoni, i miei compagni d’arme e di gioco, quelli di Piazza della Libertà, su quella panchina, contateci, e non scordateci”. Tutto si placa, lo spirito se ne va, la donna riemerge e fa cenno di spezzare la catena, un uomo corre a chiudere la finestra, un altro si asciuga la fronte perlata con un fazzoletto, il terzo è ancora sbigottito e guarda la medium al pari di Orazio mentre Amleto contempla il teschio. Dunque “contateci” … “Nove erano in nove” – e l’ultimo guizzo di fiammella svanisce in un filo di fumo.

 

Un orecchio allenato alla poesia di Battisti riconoscerà subito su quali note viene cantato questo coro: “Questo è il tempo di vincere con te. Gireremo tutto il mondo insieme a te, e più forte grideremo Lazio alé”.

 

L’Auto. Un’Alfa 75 “Quadrifoglio Verde” con interno spigato e servosterzo di serie. Una gran bella macchina che mangia chilometri scivolando netta sull’autostrada rischiarata dal primo tiepido sole marzolino. Damiano è seduto davanti accanto al posto di guida occupato dal padre Aurelio, un uomo sulla cinquantina, brizzolato, con due baffi da ufficiale del risorgimento e una MS perennemente infilata in bocca. Io me ne sto bello largo sul sedile posteriore impattando lo sguardo sul gagliardetto triangolare con l’aquilotto e la dicitura SS Lazio 1900 che pende appeso allo specchietto retrovisore.

 

Nello stereo gira Lucio Battisti e il padre di Damiano mi fa subito notare che lui è sicurissimo che Lucio sia laziale e aggiunge – “anche Trilussa lo era”. Eh già Battisti laziale, Enrico Montesano laziale, la famiglia De Sica laziale, Galeazzi laziale, Frajese laziale, perfino la Sora Lella, e poi dall’altra parte Sordi, Verdone, Amendola, Vittorio Gassman, Gigi Proietti, Venditti, artisti e personaggi divisi in una Roma (quella del 1991) per certi aspetti ancora adatta per il neorealismo felliniano.

 

“Un caleidoscopio dotato di coscienza” con i dialoghi rubati alla strada, smozzicati, biascicati, urlati, coperti da altre voci e dagli umori riflessi (i mortacci tirati a caso; le massime più grevi e bonarie allo stesso tempo: “Come magni, cachi”), e forse persino l’ultima versione cara a Pasolini, la Roma dei panni stesi ai balconi, delle borgate, i profumi delle botteghe, l’essenzialità e la durezza della vita in un groviglio di storie esistenziali di fatica e sopravvivenza, dove il pallone, fra sottane di sacerdoti, calzoni corti e canottiere, smaltisce i pensieri.

 

La casa dei nonni di Damiano è vicino alle zone di Ponte Milvio e Monte Mario, mi dicono fortini biancocelesti. In effetti, c’erano bandiere alle terrazze, adesivi, qualche garage verniciato di biancoazzurro, molte scritte spray sui muri, perfino troppe, e cariche di simboli politici, qualcuna residuo di quegli anni terribili pregni di violenza che hanno insanguinato la Capitale e fatto tremare l’Italia intera. Anni di mezzo incastrati fra il dopoguerra e il duemila in cui Lazio e Roma si sono cuciti sul petto uno scudetto a testa, entrambi goduti e entrambi dannati.

  

La Lazio più borghese, la Roma più proletaria? Io non so se esista la lazialità, come dicono alcuni: pensarla come sistema di valori o come identità mi pare sciocco e ridicolo; ma può darsi che invece ci sia un insieme di atteggiamenti, un approccio alle cose, che in un certo senso è tipico dei laziali, che tra di essi si ritrova più spesso. Non, chiaro, una conseguenza dell’essere laziali; ma forse un qualcosa che porta inevitabilmente a diventarlo.

 

La Lazio è da fascisti? Io dico non voler vedere nulla è da fascisti; una maglietta celeste con l’aquila non lo è affatto, per nessun motivo, e lo dico a ragion veduta, dopo aver frequentato per anni amici laziali che di fascismo blateravano anche troppo spesso. Solo che anche il fascismo era un loro fascismo di gruppetto, un marchio come un altro, un brand di quelli di nicchia che piacevano a loro perché esclusivi, ignoti alla massa, e che poi alla fine ritrovavi anche sui diciassettenni in sala giochi. Generalizzando possiamo pure dire di sì ma faremo un grave errore a spaccare semplicemente in due le appartenenze.

 

Intanto però l’Olimpico pieno ha un colpo d’occhio favoloso. Entriamo allo stadio un’oretta prima del fischio d’inizio non senza esserci sistemati lo stomaco con gli spaghetti alla carbonara e i carciofi di nonna Oriana (roba da 10 e lode, altro che prove del cuoco o master chef). La Lazio ha una Umbro favolosa con colletto elegante mentre la Juventus griffata Robe di Kappa si presenta con le classiche strisce e i pantaloncini neri al posto di quelli bianchi. Io e Damiano siamo sull’estremo settore della Curva Nord quasi addossati al muro di separazione con la tribuna centrale e la partita si vede un po’ in obliquo ma tutto sommato benino nonostante la distanza dal campo.

 

La Juve non gira un granché, Hassler, Baggio e Schillaci non mordono a sufficienza la partita, solo Casiraghi impegna severamente Fiori con due tiri ravvicinati quasi a botta sicura. E la Lazio ne approfitta con un’acrobazia di Riedle, più o meno all’altezza dell’area piccola, che batte Tacconi di testa e lo stadio viene giù: 1-0. Finirà così, fra i “Daje” di Damiano e un sacco di applausi che qualcuno vicino a noi ci dice non aver sentito per anni.

 

Risaliamo in macchina perché è ora di ripartire, ancora Battisti, questa volta a volume più alto: “Che anno è, che giorno è? Questo è il tempo di vivere con te.. Le mie mani, come vedi, non tremano più, e ho nell’anima, in fondo all’anima,.. cieli immensi e immenso amore. E poi ancora, ancora amore, amor per te.. Fiumi azzurri e colline e praterie, dove corrono dolcissime le mie malinconie…”.

 

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