giovedì 1 ottobre 2020

IL CULTO DI DRAZEN



 

Avete presente quegli attimi infiniti quando il pallone ruota sul cerchio di ferro del canestro e non si decide ne ad entrare ne ad uscire? Sembra quasi una giostra da luna park, con la sua musica da orchestrina, perfino un po’ stucchevole, triste, con i cavalli bianchi smaltati e la signora della cassa perennemente afflitta dal ricordo di tempi migliori. Dentro o fuori? Comunque salite bambini c’è posto. E allora tu sali e all’inizio ti diverti pure nel movimento rotatorio offerto dal raggio del perno che ti permette di fendere l’aria riportandoti a quella filosofia, mica tanto sconclusionata, sulla circolarità stessa della vita, sul suo ineluttabile eterno ritorno. Quando poi la frenata cigolante degli ingranaggi ti avverte che il tuo giro sta per terminare ti assale una sensazione strana, quella che ti porta a non capire se è stato bello oppure no, chissà, dovresti pensarci un po’, magari risalire.

Comprendi, casomai, in un improvviso barlume di pensiero, che in fondo la giostra è metafora di vita e afferri per la prima volta un vago concetto di caducità, di limite, tentando, in astrazione, di scorrere con lo sguardo una scadenza scolorita e per tutti illeggibile. Ma poi quel tiro è entrato o il ferro lo ha sputato? Al campetto di Sibenik la giostra c’era davvero, circondata da transenne arrugginite, e poco distante c’era un bambino longilineo dai capelli ricci che teneva fra le mani un pallone da basket ormai grattugiato da mille partite, un bambino complicato, con negli occhi l’orizzonte frastagliato del mare Adriatico. Ha una malformazione congenita ad un anca, parla poco ed è piuttosto introverso. Corre sgraziato, non ha un buon palleggio e nemmeno un buon rilascio. Anzi tira talmente male che gli amici lo chiamano “Kamen”: pietra. La Croazia nazione è sogno lontano, a Belgrado governa il Maresciallo Tito, ma in fondo a Zagabria hanno il Cibona che vince i titoli a ripetizione nella pallacanestro jugoslava e per il momento può bastare. E nel Cibona ci gioca uno bravo, uno famoso, guarda caso è il fratello di “kamen”: Aleksander Petrovic. Perché “kamen” ovviamente ha anche un nome vero: Drazen Petrovic.

“Come scivola via veloce quest’autostrada tedesca, il torneo per le qualificazioni agli europei giocato in Polonia a Wroclaw era andato bene, nell’ultima partita “Petro” aveva segnato 30 punti. Petrovic però non è tornato a casa con i compagni; vuole passare qualche giorno di svago in Germania con la sua fidanzata. Sono in auto, sulla direttrice Norimberga-Monaco. Drazen è un po’ stanco, vuole riposarsi, si sistema sul sedile del passeggero e si addormenta. A guidare ci pensa la fidanzata. Fuori il cielo è plumbeo, scende qualche goccia di pioggia: la Golf rossa sfreccia sull’asfalto.”

Drazen resta tipo scontroso e taciturno, però crescendo il fisico migliora nettamente, cominciano ad emergere sontuose capacità che sembravano impensabili. A Sibenik Drazen ha addirittura le chiavi della palestra ed ogni mattina rimette la sveglia alle 6 in punto, si prepara, e prima di andare a scuola va ad esercitarsi. Drazen Petrovic è un perfezionista, ossessivo, compulsivo, sembra posseduto, lo chiamano il diavolo. Si allena 7-8 ore al giorno e alla fine lo prendono nella squadra locale. E lui, giorno dopo giorno, diventa sempre più dedito al gioco. Nel 1979 Zoran-Moka Slavnic, il suo allenatore, dopo una partita giocata a Belgrado disse ad un gruppo di giornalisti: “Ho un ragazzo di talento con una voglia matta di allenarsi e lavorare, ambizioso fino all’inverosimile. Si chiama Drazen Petrovic. Ricordatevi questo nome…”.

Alcuni mesi dopo, nel dicembre del 1979 a soli 15 anni durante la partita fra Sibenka e OKK Beograd, “Petro” che nessuno più apostrofa come “Kamen”, va a referto nella massima serie: arresto in mezzo all’area avversaria, scontrandosi con il gigantesco pivot avversario Rajko Zizic, e con una combinazione di coraggio e leggerezza mette dentro un gancio che assomiglia alla magia dell’arcobaleno sulla costa dopo un temporale. Il Mozart dei canestri aveva tenuto il primo concerto.

“C’è un Tir sulla corsia opposta, comincia a sbandare, il conducente perde completamente il controllo del mezzo che deraglia paurosamente andando a infilarsi di netto sulla carreggiata dove sta arrivando l’auto di Petrovic e della sua compagna. La ragazza pianta il piede sul freno ma la strada bagnata fa perdere molta aderenza e l’impatto contro l’enorme autotreno, che intanto si è spiaggiato completamente su ambedue le corsie di marcia, appare inevitabile. Petrovic sta ancora dormendo, forse sogna l’ennesimo tiro, non vede né si sta accorgendo di niente.”

Drazen diventerà il leader del Sibenik a soli 17 anni, nonostante i suoi compagni di squadra abbiano almeno 10 anni in più di lui. Lo guida il suo misticismo, la sua incrollabile forza di volontà. Nel 1982, quando la linea dei tre punti non era ancora stata disegnata sui parquet, guida il suo club ad una storica finale di Coppa Korac, persa contro i francesi del Limoges. Un anno più tardi si rifarà. Vince il titolo nazionale e quello di miglior giocatore slavo. A quel punto molte grandi squadre mettono gli occhi sul ragazzo e l’allenatore americano “Digger” Phelps gli propone di andare a giocare per l’università di Notre Dame. L’offerta NCCA viene accantonata ciò nonostante è chiaro che ormai Sibenik, la città del suo cuore, è diventata troppo angusta. “Petro” se ne andrà a Zagabria, al Cibona, da suo fratello “Aca”. Quattro stagioni esaltanti in canotta blu, in cui vince anche due Coppe dei Campioni e al terzo giro del Draft NBA, Drazen viene scelto dai Portland Trail Blazers. Personalmente, al di là del seguito, Drazen Petrovic riesco a vederlo solo con la maglia numero 10 del Cibona. Petrovic nel Cibona di Mirko Novosel non era non solo il riccio talentato esploso a Sibenik, il ragazzo delle finte, del dai e vai, delle penetrazioni, del tiro euclideo, ma era anche lentezza in sospensione, un illusione di stravizio, un giovane lupo nell’angolo di bosco meno educato, più propenso alla macchia, che scoraggia i passi e promette solitudine. Solo così né percepisco davvero un senso di eternità che non può esaurirsi nella carne e nel sangue di quel maledetto giorno di giugno. Il Cibona che vinse la Coppa dei Campioni il 3 aprile del 1985 ad Atene contro il Real Madrid includeva suo fratello Aca e altri giocatori croati come Zoran Čutura e Mihovil Nakić. E i Vukovi decisero di fare la storia in una manciata di anni, forse perché a loro piace giocarsi tutto in un tiro, in un lancio di dadi, in un giro di carte, più rischioso certo, eppure più vicino a dogmi da evangelizzazione; là nel grande salotto pavimentato di Zagabria, in piazza Josip Jelacic, in quell’immenso rettangolo, in quel brulichio incessante di generazioni, in quel confine urbano fra Gornij Grad e Donij Grad, tra la pianura Pannonica, la sponda alta del fiume Sava e le pendici del Medvednica, dove si sviluppa una dimensione corale, radicata nella terra, intrisa nell’acqua, e anelante al sacro, come quella splendida canotta blu del vecchio Cibona. Proseguiamo. Nonostante la scelta al draft evidentemente per lui non è ancora arrivato il momento di fare il viaggio oltreoceano. Dopo l’argento raccolto alle Olimpiadi di Seul con la Jugoslavia unita, Petrovic firma per il Real Madrid. Altro giro, altri concerti, altre vittorie e ancora sul tetto d’Europa. Nella finale contro la Snaidero Caserta ad Atene, città di divinità e oracoli, segna da solo 62 punti commettendo un solo errore in tutta la partita. Nel cammino continentale si era verificato un episodio particolare: con il Real affronta il suo passato tornando a Zagabria per disputare un match con il Cibona del fratello Aleksander. “Quando entrò in campo – ha raccontato Aca – tutto il pubblico non smetteva di applaudirlo. Nei secondi finali, Drazen si ritrovò in lunetta per due liberi che se fossero entrati avrebbero condannato alla sconfitta i suoi ex compagni. Per il Real Madrid la vittoria significava poco, mentre per noi era fondamentale, quindi quasi lo pregai di sbagliare entrambi i tiri. Lui mi sorrise e segnò: semplicemente non sapeva come fare a perdere”. A 25 anni è già una sorta di semidio, gli USA non possono attendere: Petrovic sale su un aereo direzione Stati Uniti.

“Lo schianto è inevitabile. Scintille dei dischi. Impatto. L’auto si accartoccia, le lamiere si contorcono, i vetri vanno in frantumi. La parte anteriore è praticamente irriconoscibile. Poi solo un lungo residuo di pneumatici, il fumo e la pioggia battente, mentre si affannano i primi soccorritori e si odono le prime ambulanze a sirene spiegate.”

A Portland l’approccio è negativo. Il rapporto con coach Rick Adelman si rivela più complicato del previsto e Petrovic viene confinato, castigato, in fondo alla panchina dei Trail Blazers. L’esordio a stelle e strisce non è quel che si dice indimenticabile e nella successiva annata le cose iniziano anche peggio. Tuttavia, in inverno, lascia l’Oregon e l’ellittica Portland per andare ai Nets del New Jersey.

Boccuccia di rosa“ diventa un autentico talismano; nelle restanti partite della stagione 1990-91 migliora nettamente le sue statistiche, chiudendo a 20 di media con il 51% da oltre l’arco. In estate torna nella sua Croazia, riemersa da un conflitto cruento e pieno di strascichi. Gli scontri fra le varie etnie hanno frantumato la Jugoslavia insieme alle bombe occidentali: croati e serbi su tutti. Drazen è croato-cattolico mentre Vlade Divac, il suo compagno più stimato, e’ serbo- ortodosso. Divac all’epoca è il centro indiscusso dei Los Angeles Lakers ma è reo di aver gettato sgarbatamente a terra una bandiera croata con la “Šahovnica” biancorossa. In Serbia viene visto come un eroe nazionale, ma Drazen credeva nell’indipendenza del suo paese e non poteva accettare che il suo migliore amico avesse rigettato in maniera così sprezzante il simbolo della sua nazione e decide di tagliare completamente i ponti con Divac.

Vlade lo chiama di continuo al telefono per scusarsi, per fargli capire che quel gesto non era contro la Croazia, semplicemente non era il momento adeguato per mettere in mezzo la politica. Drazen non si degna nemmeno di rispondergli. Petrovic non vuole sentir più parlare di lui e darà una sola risposta: “Una volta eravamo buoni amici, ora non lo siamo più”. Divac non fu mai in grado di risanare il loro rapporto. Resterà una ferita aperta.

Ad ogni modo Petrovic trascina la Croazia alla finalissima per l’oro alle Olimpiadi di Barcellona del 1992. Si deve accontentare della piazza d’onore perché contro quel “Dream Team” c’era poco da fare nonostante la sua “4” s’infili fra i colossi segnando il possibile. Quando riparte l’NBA “Petro” si afferma per il fuoriclasse che è: viene eletto migliore guardia della lega davanti a un certo Micheal Jordan. Gli americani si innamorano del ragazzo di Sibenik. Istinto, passo d’incrocio, dai e vai, scarico, specialista nel tiro da 3. Un genio assoluto. Alla fine del campionato diventa free agent e prende in considerazione l’idea di cambiare squadra visto che Pat Riley preme per portarlo al Madison Square Garden a giocare per i New York Knicks. Ma prima di prendere qualsiasi decisione sul suo futuro, Drazen vola in Polonia: deve aiutare la Croazia nelle qualificazioni agli Europei.

“Drazen Petrovic, il miglior giocatore europeo di tutti di tempi, muore sul colpo senza rendersi conto di niente il 7 giugno del 1993 a 29 anni. La sua ragazza, che in seguito diventerà la signora Bierhoff, si salva per puro miracolo. La tragedia ha anche un corredo crudo, se vogliamo amarissimo. I funzionari di polizia tedesca non hanno una bara delle dimensioni adatte per un uomo delle sue dimensioni. Devono dissanguarlo e piegarlo in maniera straziante.”

A Sibenik, a pochi passi dalla casa dove abitava da ragazzo, c’era un canestro artigianale appeso a un muro in mezzo alla strada. Dopo il trasferimento al Cibona, ma anche quando tornava da Madrid e perfino dagli Stati Uniti, Drazen si fermava a tirare con gli amici in quel canestro. La gente guardava dalle finestre, dalle soglie dei portoni, e gli automobilisti scendevano dalle macchine, fermando il traffico solo per vedere giocare Petrovic. E in coda nessuno s’arrabbiava, nessuno imprecava e nessuno suonava il clacson.

Oggi quel canestro è stato ricollocato esattamente nel punto dov’era, con una lapide, diventando a tutti gli effetti un vero e proprio monumento.

“Requiem”, di Mozart, naturalmente.

 

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