domenica 25 ottobre 2020

CAREZZE NEL VENTO


E’ terra dura intorno a Pozarevec, ciottoli sparuti nel vento, un belare di mucche in stalle imbottite di calce e paglia. I bambini si rincorrono da un capo all’altro del ricovero sotto una lampadina giallastra assediata da mosche danzanti. I fratelli Vasovic, figli di Zivojin, un impiegato del fisco incarcerato dai tedeschi durante la guerra, e di Jelka, instancabile donna di casa; figli soprattutto della Serbia più ruvida, delle sue nuvole basse a nascondere le porte di ferro e la punta smarginata del monte Deravica. Velibor Vasovic detto “Vaske” ha i capelli corti, cortissimi, esile ma risoluto negli scatti e nell’atteggiamento, lo sguardo acuto nella sensazione di un presagio che si dipana ogni qualvolta calcia quella palla di stracci destinata sempre laddove lui vuole debba andare a finire in una teofania sensibile a chi ha la consapevolezza della manifestazione. Poi sarà la brezza a sparigliare le sorti, quella corrente d'aria chiamata Kosava, raffiche fredde sibilate dai Carpazi che sbattono sugli infissi e fanno tremare anche i più coraggiosi, finché l’Adriatico compassionevole non né accoglie i refoli stemperandoli nella sua risacca. La carta di Velibor è carta vincente, asso pressato in una valigetta di pelle sistemata sui ripiani del treno diretto a Belgrado, verso il covo sportivo del Partizan dove altri ragazzi aspettano di diventare abbastanza grandi per indossare finalmente la maglia della prima squadra e provare ad estrarla da un anonimato fatto di Pivo e Pljeskavica. Lo stadio JNA ubicato sulla collina di Topcider, nel quartiere di Autokomanda, nel 1966 restava ancora il più grande della città bianca avvinghiata alle morbide rive della Sava e del Danubio, nicchia di poeti malinconici, di devozione ortodossa, di parchi occupati da canuti duellanti impegnati in snervanti partite a scacchi, e di caffè all'aperto dove sedersi davanti a un bicchiere di rakija. Lo JNA era uno stadio esposto, ovale come una bussola d’aurighi, privo di coperture se non quelle dovute all’etichetta, uno stadio dove il pubblico poteva apparire enorme ma lontano, quasi soffocato da se stesso, ed invece ad un certo punto ti inghiottiva e ti seppelliva facendo fede al suo atavico impegno di "grobaro". Oddio, il 1966. La squadra allenata da Gegic arriverà fino alla finale di Coppa dei Campioni. E’ un gruppo alimentato da un misto di talento e avidità in occhi fintamente spenti: guardiani di una corrente calcistica capricciosa dall’animo scafato, piedi educati e sfacciati al contempo, con la faccia di chi non teme una botta perché te ne restituisce due, in un bradisismo doveroso. Corpo e anima sono il portiere Milutin Soskic, la mezz’ala Milan Galic, il centravanti Vladica Kovacevic, il pilastro dall'indole biliosa Branko Rasovic da Podgorica, (autentica diga che nella semifinale di ritorno ad Old Trafford farà gettare sciarpe e berretti nello Ship Canal ai tifosi del Manchester United delusi dal non essere riusciti a veder ribaltare completamente lo 0-2 patito a Belgrado). Lo scozzesino Dennis Law gli darà uno schiaffo, lui si contiene con un sorrisetto, poi, al momento opportuno contraccambierà con gli interessi. E naturalmente Velibor Vasovic, autentico cervello che non aderisce in modo acefalo ai luoghi comuni, capace di frenare un metro prima degli altri, facendoli andare lunghi, fuori giri, talmente bello e anarchico da apparire umiliante. E il Partizan staccò il biglietto per l’Heysel, non prima di aver fatto incetta di dischi e stoffe per abiti nei negozi di Manchester. A Bruxelles la squadra giunse dopo essere stata dirottata su Parigi in quanto l’aeroporto della capitale belga soffriva di congestione, intasato dai servizi di sicurezza per la visita della Regina Elisabetta, e munita del salvacondotto concesso dal Maresciallo Tito a Rasovic, sospeso dalla federazione Jugoslava per un intervento da serial killer su un giocatore del Sarajevo durante una partita di campionato. Nell’attesa il Partizan fu ospitato in un castello a 20 chilometri da Bruxelles. “Circondati da un muro, -racconta il centrocampista Jovan "Zoki" Miladinovic,- guardavamo un po’ straniti quelle torri che squarciavano il cielo, i cigni che con eleganza nuotavano attraverso il lago, e salici enormi che ci fissavano dall’alto durante le brevi sedute di preparazione. Sinceramente non eravamo abituati a quel lusso”.  Galic non si era potuto allenare a dovere per prestare gli obblighi del servizio militare, Kovacevic scese in campo febbricitante. Ci penserà Vaske. Si, Vasovic segnerà di testa, da par suo, in avvio di ripresa, questa era l’aspettativa e questo accadde, e così, galleggiando su un utopia apparsa ideale raggiungibile, a venti minuti dal termine il Partizan parve in grado di sbeffeggiare anche il Real Madrid, ma Serena e Amancio trovarono la maniera di ribaltare il risultato, affinché quel giorno resti inutile come un altro, fissato in un tempo di sogni accarezzati dalla gioventù, orbato di gloria, ovattato della cenere di un fuoco spento, e non sia servito a forzare il cammino scorbutico della storia.

 


 

 

 

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