La pisanità. Si potrebbe toccare con mano quanto bruci ancora la sconfitta della Meloria sette secoli dopo. Sono poche le città come questa dove la storia ha lasciato un segno così marcato e condizionante. Diciamolo, Pisa ha troppa memoria e nelle acque del Tirreno nel 1284 ha perduto i suoi sogni, “un impero di vele”, sconfitto, deluso, molla di contrasto di una certa scontrosità trascinata nel tempo figlia dell'umiliazione bruciante patita contro Genova. Pisa diffidente, perché erede dell’orgoglio ferito e di presunti disgraziati tradimenti. Curzio Malaparte, nel disegnare i suoi maledetti toscani, glissò sui pisani: "Non li capisco, hanno un carattere sfuggente, sembra quasi che debbano farsi perdonare di aver perduto". Eppure Malaparte adorava Pisa, i suoi silenzi ma anche il vociare degli studenti, la bellezza dei marmi e l’Arno che fluiva al mare. Di quel fiume diceva di preferirlo nelle burrasche e nel gelo dell’inverno perché la “torba” significava l’ingresso in Arno delle cèe. E per un piatto di cèe consumato in piazza Garibaldi, nell’osteria di Nilo Montanari, Malaparte avrebbe dato l’anima. (Non sapete cosa sono le cèe? andate a Pisa e capirete). Nella Pisa sonnacchiosa del 1908, sul prato della piazza di San Paolo a Ripa d'Arno, alcuni ragazzi cominciarono a dare calci a una palla di stracci, tra due porte create con giacche e cappotti in mezzo all’erba e a pietre atte a delimitare un empirico rettangolo da gioco. E poi su verso Piazza dei Miracoli, confusa con quel Campo immaginario di Pinocchio, dove il burattino veniva invitato dal Gatto e dalla Volpe a piantare delle monete per ottenere un albero di zecchini d'oro. Il Pisa aveva conosciuto la Serie A nel 1969 sotto il presidente Giuseppe Donati; la squadra del portiere Antonio Annibale, della grinta da mediano di Fabrizio Barontini e del talento di Sandro Joan. Troppo breve per essere vero e dopo una sola stagione i nerazzurri ricadono in cadetteria. La svolta che sancì l’ingresso del Pisa nella cultura calcistica popolare italiana avviene nel 1978 e coincide con l’avvento alla presidenza di Romeo Anconetani. Nel 1982, con Aldo Agroppi in panchina, il Pisa del capitano Luigi Gozzoli riconquista la serie A ma nella stagione successiva, Anconetani affiderà la panchina al tecnico brasiliano Luís Vinício rafforzando la squadra con l'acquisto dell'ala destra della nazionale danese Klaus Berggreen e con il centravanti Guido Ugolotti uniti all'incognita uruguaiana Jorge Caraballo. Anconetani il “vescovo”, o il presidentissimo, vulcanico, lunatico, un intuito straordinario nell'ingaggiare giocatori seminterrati nelle penombre di periferia da trasformare in vere monete d’oro, altro che quelle del buon Collodi. Anconetani, grottesco e pittoresco, eppure amatissimo proprio perché umano. Umano come noi, forse solo più bizzarro, devoto ai suoi immancabili riti scaramantici; il sale cosparso sul terreno per evitare rocambolesche sconfitte interne (una volta per una gara delicatissima con il Cesena ne disseminò 26 chili), oppure la guasconata di prenotare tutte le camere dell’albergo che avrebbe occupato il Milan la sera prima dell'arrivo per condire adeguatamente tutti i pavimenti. E se non bastava bisognava bussare al cielo, e allora ecco l'intera squadra di corsa in pellegrinaggio al Santuario di Montenero. Berggreen pagato 270 milioni di lire fu rivenduto alla Roma per 4 miliardi, l’olandese Kieft preso a 760 milioni costò poi al Torino 5 miliardi. E Carlos Dunga? un affare, magari in tono minore con l’acquisto a 700 milioni e la rivendita alla Fiorentina ad un miliardo. Indimenticabili Mario Been e Beppe Incocciati ma indimenticabile pure lo statuario difensore di colore inglese Paul Elliott, probabilmente l'unico giocatore al mondo capace di gettare il pallone fuori dallo stadio colpendolo con la suola. Non sembrava male neanche Francis Severeyns, un fenomeno in Belgio, che affiancò Lamberto Piovanelli nel 1988-‘89. Piovanelli, goffo e legnoso tuttavia letale sotto porta, mentre il belga, aggraziato e veloce, in ventisei partite non la mise in rete nemmeno una volta. E infine Chamot e soprattutto Diego Pablo Simeone, si proprio lui, il Cholito: “Mi garba, si piglia, ha la faccia 'gnorante”. Furono sette le stagioni che il Pisa disputerà in serie A fra il 1982 e il 1991, un altalena di alti e bassi, cadute e risalite, fino al fallimento del 1994 dove per Romeo Anconetani inizierà una sorta di solitudine ascetica e per Pisa un nuovo ammaina bandiera della croce d'Occitania, nel solito, antico, rugginoso, declino per animi tormentati; una malinconia cara a Percy Shelley che qui poté trovare l’ispirazione per comporvi l’elegia a Keats, e allo stesso Giacomo Leopardi, che al lume di candela, dentro un appartamento sui lungarni, in una notte di primavera profumata di glicine, scrisse la poesia "A Silvia".
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