venerdì 11 dicembre 2020

LEZIONI DI HELLAS



Verona la devi ascoltare nei suoi silenzi. È una strana tristezza quella che si diffonde sulle sue pietre. Una tristezza così lontana dalla disperazione esistenziale di altre città, che guarisce chiunque l’avvicini. Te ne accorgi nelle lunghe sere d’inverno quando sembra avvinghiarsi ancora di più alle anse dell’Adige, e ogni passo sull’acciottolato umido pare mosso dal richiamo di quell’epigrafe appesa sulle mura di Piazza Brà, dove William Shakespeare plasma la città, annodandola a un enunciato estrapolato da quell’amore giovane e puro che volle sfidare la morte: “non esiste mondo fuor dalle mura di Verona”. Ma se si può rinnegare una famiglia, a Verona nessuno può tradire la "pearà". Dicono sia una salsa povera o, più propriamente, una salsa semplice in genere accompagnata al bollito misto della domenica o del Natale. Non affannatevi, non troverete un piatto che rappresenti la veronesità più della pearà. E per questo si fa solo qui. Ne andava pazzo anche Lord Byron (toh un altro inglese) durante le sue uscite serali in una taverna vicino Piazza delle Erbe, cardo e decumano di vie ortogonali impresse nella geometria del centro. Verona si attanaglia sulle sue unicità, in un plebiscito del buongusto, anche quando si trovò suo malgrado rannicchiata nell’indolenza e nello sgobbare apparentemente inoperoso di serie minori, e non si capiva perché si dovessero accendere le luci sul rettangolo del "Bentegodi", lo avessero lasciato al buio come si fa al Cinema, anzi come all’Arena, anfiteatro romano di pietra calcarea rosata, durante una musica di Rossini, nel precipitato di non eventi, di non fatti, o, in quella, soprattutto di Verdi, in cui tutto e già contenuto nello spartito e non ha bisogno di ulteriori sviluppi. Lo sanno bene i veronesi che per primi assistettero all’Aida nel 1913, giusto dieci anni dopo che un professore di greco del liceo classico Scipione Maffei con 32 lire in tasca e una manciata di studenti fondò un club di calcio battezzandolo naturalmente Hellas. Una A gustata come un ghiacciolo d’estate, buona ma troppo rapida nello sciogliersi, ed eccole le serie minori citate, il declassamento, la tragedia sfiorata in quel maledetto 15 aprile 1978. Il Verona per poco, rischiò di eguagliare il dramma del Torino o del Manchester United. La squadra viaggiava su un treno, la “Freccia della Laguna”. A Murazze di Vadeo, a causa dello smottamento di una collina, il locomotore dell’Espresso 572 bis, Bari-Trieste, proveniente da sud, deragliò finendo di traverso sui binari. In pochi attimi si consumerà la sciagura: uscito da una galleria, bucando la pioggia a oltre cento chilometri orari, il rapido con quattrocento persone a bordo, incocciò sul suo tragitto l’altro treno riverso sui binari. L’impatto, devastante. I resti disintegrati delle motrici e delle prime carrozze volarono nel vuoto, le altre retrostanti scivolarono lungo una scarpata. L’Espresso Bari-Trieste rimase sui binari, immobile, sderenato, col suo carico di passeggeri traumatizzati ma illesi. Solo la locomotiva sarà dilaniata dall’urto e con lei i quattro macchinisti moriranno sul colpo. Il Verona avrebbe dovuto raggiungere la capitale in aereo per disputare l’incontro di campionato con la Roma ma il volo da Villafranca era stato cancellato per le avverse condizioni meteo e la società decise di optare per il treno. C’erano Superchi, Negrisolo, Maddè, Spinozzi, Logozzo, c’era il capitano Emiliano Mascetti, 11 campionati con i gialloblu, 232 presenze e la rete dell’anno, proprio in quel 1978, segnata a Genova e premiata alla Domenica Sportiva. Giocavano a carte, leggevano i giornali si scambiavano qualche parola, finché arrivò l’annuncio dell’altoparlante, la salvezza a posteriori: “I passeggeri prenotati al primo turno sono pregati di raggiungere il vagone ristorante”. Poi l’impatto. Tutto intorno andò in frantumi, si sgretolava, la carrozza, impazzita, si sollevò dai binari, cominciò ad oscillare. Il fragore dei rottami si mescolò alle grida strazianti dei viaggiatori. Attimi interminabili. Il vagone si posò su un lato, continuò a sdrucciolare in basso, lentamente. Ad un tratto si fermò, sembrava l’immagine di un film bloccata sul fotogramma più drammatico.  Fuori, nel fango, corpi smembrati, schiacciati da tonnellate di ferro, attraversati da rivoli di melma, assorbiti dalla terra, un borsone sportivo con la scaletta scaligera macchiato di sangue incastrato sui vetri rotti di un finestrino. All’appello mancavano dei giocatori ma, alla fine, al di là di qualcuno rimasto leggermente ferito, erano ancora tutti incredibilmente vivi. E in questa mestizia che si annida una catarsi, una smarginatura della pagina, un improvviso controcampo, puro solfeggio e pura follia, un omaggio al bello privo d’elezione schopenhaueriana perché in fondo la volontà non è mai buona se non depensata. Arriverà un uomo conosciuto sul campo, un uomo nato fra i labari del "ventennio", imbronciato, figura incappottata e taciturna, naso adunco e berretto di lana, un “antimago” dall’animo proletario: Osvaldo Bagnoli. La quintessenza della semplicità, questo meneghino della Bovisa, sulla soglia dei 50 anni che riporterà l’Hellas in Serie A e, nel settembre del 1984, mentre l’Italia balla "Fotoromanza" di Gianna Nannini e Tommaso Buscetta, il pentito dei pentiti, inizierà a collaborare con la giustizia, dipanerà il suo anno perfetto. La politica degli scarti, risultò mossa cruciale. Nessuna spesa folle, solamente disegni tattici rigorosi e tanti stimoli da distribuire tra i giocatori con la giusta voglia di riscatto e di affermazione. Il gioco assomigliava a un ibrido che onorava la tradizione rifiutandone i postulati più sciocchi. Parola d’ordine, “il terzino faccia il terzino”. Coraggio, cuore, sfrontatezza, ecco l’ideale Manifesto di Bagnoli, dalla scorza lucida, senza "ombra de vin", solo acqua minerale. La palla circolava con sentimento al pari delle dichiarazioni di Romeo sotto al balcone, meta perpetua di pellegrinaggi in cerca del sospiro dello specie nietzschiano o delle cristallizzazioni di Stendhal. Solo che Garella faceva di tutto a parte arrotolarsi le trecce, e a sua insaputa diventerà “Garellik” il più furbo portiere del mondo, con quella chioma da paggetto di palcoscenico parava certamente con le mani e con i piedi, ma si arrangiava con qualsiasi imprevista parte del corpo. Ferroni poteva perdere l’autobus ma in marcatura non perdeva mai l'uomo, Marangon correva sulla sinistra, Briegel, tedesco da linea gotica, sembrava un pezzo di mura cittadine buttate in mezzo al campo, abilissimo nell'inserimento offensivo sui calci piazzati, Fontolan edotto mastino della difesa, Tricella svolse il compito di libero con innato talento da fioretto, Fanna fu un instancabile spina nel fianco per ogni avversario, Volpati chiuse gli sganciamenti dei compagni e sorprese in avanti con la giusta furbizia, “nanu” Galderisi, genio del breve, in ogni senso, fiutava la porta con il suo metro e settanta di grinta e tecnica che gli permisero di timbrare il cartellino undici volte, Di Gennaro faceva il geometra e da toscano irriverente ci provava tirando da fuori, e Preben Elkjær Larsen? un danese finalmente concreto, di quelli che non parlano da soli, che non vestivano di nero, e che si divertiva nelle contese, sia pure insulari e rusticane fatte di colpi proibiti, dove non solo segnava, ma dava manforte al lavoro di gruppo, e quella scarpa persa da novello Cenerentolo durante l’azione del goal alla Juventus in casa sotto la curva dei “butei” delle Brigate, resterà icona scanzonata a beffare i potenti di sempre. E senza saperlo centrarono lo scudetto in un pomeriggio uggioso di maggio a Bergamo con indosso quella splendida maglia gialla da trasferta listata di blu. Uno scudetto vissuto con serietà e dignità, dopo una stagione giocata allo scoperto, in testa dalla prima all'ultima giornata. Un scudetto cosi perentorio che non presterà il fianco al minimo dubbio. Le lacrime del presidente Guidoni, che lascerà la guida del club all'azionista di maggioranza Chiampan furono più che giustificate. Verona disse grazie a Bagnoli, ai dirigenti, al direttore sportivo Mascetti. Tuttavia rassegniamoci, i sogni finiscono anche in una città romantica come Verona. Bagnoli non si smentì neppure nei palpiti del trionfo. Parlò con voce roca ma non per commozione o per troppo gridare, solo per un colpo di fresco. Era riuscito a infilarsi in casa intorno alle 2,30 del lunedì. II pullman fu dirottato su Sommacampagna e ad attendere i giocatori allo stadio c'era solo un gruppetto di nottambuli. E Verona, in breve, ritrovò la sua dimensione, fra i chiaroscuri dei merletti a coda di rondine del Ponte di Castelvecchio o nel ribollio dei colli di San Zeno.

 



 

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