Verona la devi ascoltare nei suoi silenzi. È una strana tristezza quella che si diffonde sulle sue pietre. Una tristezza così lontana dalla disperazione esistenziale di altre città, che guarisce chiunque l’avvicini. Te ne accorgi nelle lunghe sere
d’inverno quando sembra avvinghiarsi ancora di più alle anse dell’Adige, e ogni
passo sull’acciottolato umido pare mosso dal richiamo di quell’epigrafe appesa
sulle mura di Piazza Brà, dove William Shakespeare plasma la città,
annodandola a un enunciato estrapolato da quell’amore giovane e puro che volle
sfidare la morte: “non esiste mondo fuor dalle mura di Verona”. Ma se si può
rinnegare una famiglia, a Verona nessuno può tradire la "pearà". Dicono sia una
salsa povera o, più propriamente, una salsa semplice in genere accompagnata al
bollito misto della domenica o del Natale. Non affannatevi, non troverete un piatto che rappresenti la veronesità più della pearà. E per questo si fa solo qui.
Ne andava pazzo anche Lord Byron (toh un altro inglese) durante le sue uscite
serali in una taverna vicino Piazza delle Erbe, cardo e decumano di vie ortogonali
impresse nella geometria del centro. Verona si attanaglia sulle sue unicità, in
un plebiscito del buongusto, anche quando si trovò suo malgrado rannicchiata
nell’indolenza e nello sgobbare apparentemente inoperoso di serie minori, e non
si capiva perché si dovessero accendere le luci sul rettangolo del "Bentegodi",
lo avessero lasciato al buio come si fa al Cinema, anzi come all’Arena, anfiteatro romano di
pietra calcarea rosata, durante una musica di Rossini, nel precipitato
di non eventi, di non fatti, o, in quella, soprattutto di Verdi, in cui tutto e
già contenuto nello spartito e non ha bisogno di ulteriori sviluppi. Lo sanno bene i veronesi che per primi assistettero all’Aida
nel 1913, giusto dieci anni dopo che un professore di greco del liceo classico
Scipione Maffei con 32 lire in tasca e una manciata di studenti fondò un club di calcio
battezzandolo naturalmente Hellas. Una A gustata come un ghiacciolo d’estate,
buona ma troppo rapida nello sciogliersi, ed eccole le serie minori citate, il
declassamento, la tragedia sfiorata in quel maledetto 15 aprile 1978. Il Verona per poco, rischiò di eguagliare il dramma del Torino o del Manchester
United. La squadra viaggiava su un treno, la “Freccia della Laguna”. A Murazze di
Vadeo, a causa dello smottamento di una collina, il locomotore dell’Espresso
572 bis, Bari-Trieste, proveniente da sud, deragliò finendo di traverso sui
binari. In pochi attimi si consumerà la sciagura: uscito da una galleria, bucando
la pioggia a oltre cento chilometri orari, il rapido con quattrocento persone a
bordo, incocciò sul suo tragitto l’altro treno riverso sui binari. L’impatto, devastante.
I resti disintegrati delle motrici e delle prime carrozze volarono nel vuoto, le altre
retrostanti scivolarono lungo una scarpata. L’Espresso Bari-Trieste rimase sui
binari, immobile, sderenato, col suo carico di passeggeri traumatizzati ma
illesi. Solo la locomotiva sarà dilaniata dall’urto e con lei i quattro
macchinisti moriranno sul colpo. Il Verona avrebbe dovuto raggiungere la capitale
in aereo per disputare l’incontro di campionato con la Roma ma il volo da Villafranca
era stato cancellato per le avverse condizioni meteo e la società decise di optare per il
treno. C’erano Superchi, Negrisolo, Maddè, Spinozzi, Logozzo, c’era il
capitano Emiliano Mascetti, 11 campionati con i gialloblu, 232 presenze e la
rete dell’anno, proprio in quel 1978, segnata a Genova e premiata alla Domenica
Sportiva. Giocavano a carte, leggevano i giornali si scambiavano qualche parola, finché arrivò l’annuncio dell’altoparlante, la salvezza a posteriori: “I
passeggeri prenotati al primo turno sono pregati di raggiungere il vagone
ristorante”. Poi l’impatto. Tutto intorno andò in frantumi, si sgretolava, la
carrozza, impazzita, si sollevò dai binari, cominciò ad oscillare. Il fragore
dei rottami si mescolò alle grida strazianti dei viaggiatori. Attimi
interminabili. Il vagone si posò su un lato, continuò a sdrucciolare in basso, lentamente.
Ad un tratto si fermò, sembrava l’immagine di un film bloccata sul fotogramma
più drammatico. Fuori, nel fango, corpi
smembrati, schiacciati da tonnellate di ferro, attraversati da rivoli di melma,
assorbiti dalla terra, un borsone sportivo con la scaletta scaligera macchiato
di sangue incastrato sui vetri rotti di un finestrino. All’appello mancavano dei
giocatori ma, alla fine, al di là di qualcuno rimasto leggermente ferito, erano
ancora tutti incredibilmente vivi. E in questa mestizia che si annida una
catarsi, una smarginatura della pagina, un improvviso controcampo, puro
solfeggio e pura follia, un omaggio al bello privo d’elezione schopenhaueriana
perché in fondo la volontà non è mai buona se non depensata. Arriverà un uomo conosciuto sul campo, un uomo nato fra i labari del "ventennio", imbronciato, figura
incappottata e taciturna, naso adunco e berretto di lana, un “antimago” dall’animo
proletario: Osvaldo Bagnoli. La quintessenza della semplicità, questo meneghino
della Bovisa, sulla soglia dei 50 anni che riporterà l’Hellas in Serie A e, nel
settembre del 1984, mentre l’Italia balla "Fotoromanza" di Gianna Nannini e Tommaso
Buscetta, il pentito dei pentiti, inizierà a collaborare con la giustizia, dipanerà il suo anno perfetto. La
politica degli scarti, risultò mossa cruciale. Nessuna spesa folle, solamente disegni
tattici rigorosi e tanti stimoli da distribuire tra i giocatori con la giusta
voglia di riscatto e di affermazione. Il gioco assomigliava a un ibrido che onorava la
tradizione rifiutandone i postulati più sciocchi. Parola d’ordine, “il terzino
faccia il terzino”. Coraggio, cuore, sfrontatezza, ecco l’ideale Manifesto di
Bagnoli, dalla scorza lucida, senza "ombra de vin", solo acqua minerale. La palla
circolava con sentimento al pari delle dichiarazioni di Romeo sotto al balcone, meta
perpetua di pellegrinaggi in cerca del sospiro dello specie nietzschiano o
delle cristallizzazioni di Stendhal. Solo che Garella faceva di tutto a parte
arrotolarsi le trecce, e a sua insaputa diventerà “Garellik” il più
furbo portiere del mondo, con quella chioma da paggetto di palcoscenico parava certamente
con le mani e con i piedi, ma si arrangiava con qualsiasi imprevista parte del corpo.
Ferroni poteva perdere l’autobus ma in marcatura non perdeva mai l'uomo,
Marangon correva sulla sinistra, Briegel, tedesco da linea gotica, sembrava un pezzo di mura cittadine buttate
in mezzo al campo, abilissimo nell'inserimento offensivo sui calci piazzati, Fontolan edotto mastino della difesa, Tricella svolse il compito di libero con
innato talento da fioretto, Fanna fu un instancabile spina nel fianco per ogni
avversario, Volpati chiuse gli sganciamenti dei compagni e sorprese in avanti
con la giusta furbizia, “nanu” Galderisi, genio del breve, in ogni senso, fiutava
la porta con il suo metro e settanta di grinta e tecnica che gli permisero di timbrare il cartellino
undici volte, Di Gennaro faceva il geometra e da toscano irriverente ci provava
tirando da fuori, e Preben Elkjær Larsen? un danese finalmente concreto, di
quelli che non parlano da soli, che non vestivano di nero, e che si divertiva nelle
contese, sia pure insulari e rusticane
fatte di colpi proibiti, dove non solo segnava, ma dava manforte al lavoro di
gruppo, e quella scarpa persa da novello Cenerentolo durante l’azione del goal
alla Juventus in casa sotto la curva dei “butei” delle Brigate, resterà icona
scanzonata a beffare i potenti di sempre. E senza saperlo centrarono lo scudetto
in un pomeriggio uggioso di maggio a Bergamo con indosso quella splendida maglia
gialla da trasferta listata di blu. Uno scudetto vissuto con serietà e dignità,
dopo una stagione giocata allo scoperto, in testa dalla prima all'ultima
giornata. Un scudetto cosi perentorio che non presterà il
fianco al minimo dubbio. Le lacrime del presidente Guidoni, che lascerà la
guida del club all'azionista di maggioranza Chiampan furono più che giustificate.
Verona disse grazie a Bagnoli, ai dirigenti, al direttore sportivo Mascetti. Tuttavia
rassegniamoci, i sogni finiscono anche in una città romantica come Verona. Bagnoli
non si smentì neppure nei palpiti del trionfo. Parlò con voce roca ma non per
commozione o per troppo gridare, solo per un colpo di fresco. Era riuscito a
infilarsi in casa intorno alle 2,30 del lunedì. II pullman fu dirottato su
Sommacampagna e ad attendere i giocatori allo stadio c'era solo un gruppetto di
nottambuli. E Verona, in breve, ritrovò la sua dimensione, fra i chiaroscuri dei
merletti a coda di rondine del Ponte di Castelvecchio o nel ribollio dei colli di San Zeno.
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