Héctor Cúper è un uomo
insondabile. Un abisso imperscrutabile al pari di certi fondali marini. Hector
Cuper è un “Hombre Vertical”: una persona che non scende a compromessi, capace
di sostenere le sue opinioni, un "individuo tutto d'un pezzo”, coerente,
in odore di dispotismo. E’ nato a Chabás, una cittadina del dipartimento di
Caseros, provincia di Santa Fe, in Argentina, incrocio di uomini e mondi.
Annusa il Potrero, ha il calcio in testa fin da piccolo e da calciatore
diventerà celebre con il soprannome di Cabezòn per l’abilità nei colpi di
testa, poi da allenatore si guadagna l’appellativo di Fabio Capello d’Argentina
per via dell’atteggiamento pragmatico del suo calcio. Huracán e Lanus girano
bene, lo chiamano in Spagna a Maiorca, e l’isola che non c’era sale nella Liga
dei grandi ma da quel momento incomincia una strana, perpetua, maledizione da
finale. Perde la Coppa del Re e una Coppa delle Coppe all’atto conclusivo.
Eppure i fantasmi che aleggiano sopra il suo operato non sono ancora così
funesti dall’impedire di apprezzare il suo gioco. Anzi, con quella squadra in
fondo ha fatto pure troppo. Si merita una piazza più ambiziosa e alla sua porta
suonerà il Valencia. La città del pipistrello. Si perché fra un horchata e una
chufa, la leggenda che vuole questo animale sugli scudi valenciani corre di
bocca in bocca portata dal vento della storia. Re Jaime I di Aragona, che
governò tra il 1213 e il 1227, combattè contro gli arabi i quali stavano
preparando un attacco a col favore delle tenebre. A svegliare l’esercito fu un
forte rumore che permise di rendersi conto del pericolo e di evitare di essere
colti di sorpresa. Quel rumore era dovuto a un pipistrello che durante la notte
entrò in una tenda sbattendo le ali involontariamente su un tamburo. Come ringraziamento
Re Jaime I fece mettere l’immagine dell’animale nella parte superiore dello
stemma locale che in breve divenne simbolo di città e regione. A Plaza
Ayuntamiento, all’ Oficina de Correos, due degli edifici più belli della città,
lo potete notare in rilievo sulle facciate dei palazzi profumati di barocco. In
ogni bar a la Reina il pipistrello è accompagnato dai quadretti della squadra,
un autentica fede laica che si riversa ogni fine settimana sulle gradinate
vertiginose del Mestalla. Quando arrivò Cuper, nell’estate del 1999, le uniche
foto sul comodino restavano quelle dei tempi di Mario Kempes e Miguel Tendillo,
del successo in Coppa delle Coppe contro l’Arsenal, ma erano passati vent’anni
esatti, un era geologica. Il tecnico argentino capì che spodestare Barcellona e
Real Madrid sarebbe stata impresa titanica, per cui gettò più di uno sguardo
alla Champions League, competizione a cui il Valencia si era qualificato grazie
al quarto posto dell’anno precedente con Claudio Ranieri. La squadra era competitiva.
In difesa i terzini Angloma e Carboni, centrocampo c’è l’eclettico Farinos,
l’elegante Gerard, ma soprattutto lui, Gaizka Mendieta, autentico faro della
squadra, tecnica, visione, marce ridotte ma argenteo a livello mentale,
bellissimo nella sua chioma bionda da cavaliere errante con la fascia di
capitano al braccio intersecata da striscioline giallorosse. In attacco, la
freccia Claudio Lopez, il guizzante rumeno Ilie e Angulo, tipetto scaltro dai
piedi buonissimi. Inserito in un gruppo complicato da digerire, come una paella
scotta, il Valencia vincerà a sorpresa il girone davanti a Bayern, al PSV e ai
Rangers, conquistando 12 punti e destando sincera ammirazione. Nella seconda
parte di torneo si mette dietro Bordeaux e Fiorentina guadagnando i quarti di
finali contro quella Lazio che di cui Cuper conservava un pessimo ricordo dalla
stagione precedente. Ma sarà una fiesta. Travolgente 5-2 in casa e sconfitta di
misura senza patemi all’Olimpico. In semifinale la pesca porterà i connazionali
del Barcellona e tutti si sbilanciarono su un pronostico che vedeva fuori il
Valencia e il Barca a Parigi magari in un super classico europeo davanti al
Real. Eppure sottovalutare quel Valencia fu un errore imperdonabile. Il Barça,
al Mestalla, dopo 10 minuti si ritrovò sotto di un goal grazie a una prodezza
di Angulo. Il pari dei catalani arrivato su una autorete di Mauricio Pellegrino
non smorzò affatto l’entusiasmo del Valencia che prima dell’intervallo si
riporterà in vantaggio segnando ancora con Angulo e poi con Mendieta abilissimo
a trasformare un calcio di rigore. I blaugrana si trovano alle corde e il pugno
del KO lo assesterà Claudio Lopez al 90′: al Camp Nou non servì a niente la
sterile rimonta del Barcellona dopo il vantaggio valenciano.
Si Señor, il Valencia era in
finale della Coppa dei Campioni, mai successo, traguardo inimmaginabile ma via
via naturale poichè frutto di un gioco e di un’idea di calcio assolutamente
compiuti. Ed eccolo però il primo fantasma, bianco, come tutti i fantasmi che
si rispettano. E’ la sera del 24 maggio del 2000 quando Real Madrid e Valencia
scendono in campo al Saint Denis per la finale; la squadra allenata da Del
Bosque in completo nero, quella di Cuper in arancione; Purtroppo quel Valencia
sembrò un parente lontanissimo della squadra contemplata nei turni precedenti,
i suoi interpreti apparirono in difficoltà, timorosi, incapaci di offendere. La
squadra di Cuper si mostrerà troppo timida e il Real Madrid più esperto di
certe faccende aspettò solo il momento giusto per colpire. E lo farà tre volte.
Fernando Morientes, McManaman, Raul. Una disfatta che nemmeno la lucidità di
Cuper saprà spiegare. La troppa tensione di giocare la più importante partita
della storia del club e della carriera della maggior parte dei suoi calciatori
ha giocato probabilmente un brutto scherzo. Tuttavia, l’anno seguente
l’ineluttabilità del destino ripresentò l’occasione in cui ci sarebbe stato da
rifarsi, da riprendersi il maltolto, di tornare sulle coste basse e sabbiose di
Valencia, finalmente cinti d’alloro. Il 23 maggio 2001 in uno strabocchevole
San Siro il Valencia cambiò abito e più che altro avversario: il Bayern Monaco.
Dopo appena due minuti, l’arbitro olandese Jol concederà agli spagnoli un
calcio di rigore: sul dischetto Mendieta battezzò lo spiraglio giusto battendo
Kahn. Una manciata di minuti ed il rigore lo otterranno anche i tedeschi: fallo
contestatissimo di Angloma su Effenberg. Tira Scholl che prenderà più la zolla
che il pallone e Canizares respinse in calcio d’angolo. Chissà, stavolta la
coppa non è stregata? Ancora non sanno a Valencia quanto di sconvolgente per
loro stia per consumarsi a San Siro in quella calda serata di primavera
inoltrata. Il proverbiale pragmatismo del Bayern riesce in apertura di ripresa
a procurarsi un altro rigore fischiato per un mani in area di Amedeo Carboni.
Stavolta a tirare va Effenberg e non sbaglierà: 1-1. Adesso nessuno vuole
esporsi, nessuna delle due squadre si prese il rischio di provarci. Decideranno
i rigori, per buona pace delle coronarie dei tifosi, ormai sempre più smunti e
arruffati dalla tensione, Cuper fumava nervosamente, dall’altra parte Hitzfeld
è una maschera. Paulo Sergio calcia alle stelle. Per il Valencia Mendieta
spiazzerà ancora Kahn portando in vantaggio i suoi. Salihamidzic infilò
l'ossigenatissimo Canizares, il bisonte Carew farà altrettanto, e oh il
Valencia è ancora avanti; poi Zickler supererà il portiere castigliano mentre
lo sloveno Zahovic calciò malissimo e Kahn salverà capra e cavoli: 2-2. Patrik
Andersson si fa parare la conclusione, ma Carboni non sfrutterà il vantaggio,
calciando forte, centrale, Kahn ci mise la manona deviando la palla sulla
traversa, poi tutto lo stadio osservò impietrito il rimbalzo nei pressi della
riga di porta. Fuori. Vincerà il Bayern e il Valencia di Cuper perse di nuovo.
I calciatori restarono inchiodati a terra, in lacrime, increduli per un altro
epilogo sfavorevole. Milano come Parigi, probabilmente anche peggio, perché se
contro il Real Madrid la sconfitta era stata netta, stavolta la coppa era lì ad
un passo. E’ stato ingiusto ma struggente al punto da apparire perfino bello.
(Ah, l'anno seguente vinsero la Liga ma Cuper aveva già salutato, stranezze.)
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