E' vero, strappo immagini di bambino, di gite scolastiche, di visite a vecchi parenti perduti, ma i ricordi restano nitidi, talmente nitidi da apparire ghiaccio, ghiacchio pronto a farti slittare su foto strapazzate da album nascosti in cassetti del comò. Eppure, a guardarle bene, le foto di quegli
anni sembrano scattate ieri, quasi che poco o nulla sia cambiato nel paesaggio urbano, almeno in un ipotetico abbraccio fra passato e presente dove Roma resta una città i cui
luoghi sono “fissati”. La folla sulla scalinata di Piazza di Spagna, i tavolini
dei bar di Piazza del Popolo, le botticelle "der" Colosseo e l’atavico problema
della spazzatura. Vi ricordate? lo rammentava uno dei simboli della Roma di
quegli anni, Nino Manfredi, in una pubblicità divertentissima del 1982 in cui
tentava di “educare” i romani a tenere la città pulita. Ma no, invece no, caspita, il mondo cambia e Roma pure. Nel 1982 i romani
andavano al cinema a vedere i film di Dino Risi, di Alberto Sordi, del giovane Verdone, andavano al teatro Argentina, al Quirino, per Gassman e Proietti, mica guardavano le serie crime
americane su Netflix chiusi in casa sul divano. Gli adolescenti li vedevi sulle vespe,
sugli "sfilatini" della Piaggio, sui Benelli, ancora senza casco obbligatorio, o a passeggio sui sanpietrini con stivaletti
e jeans d'ordinanza, i “pischelletti” della “terza C” che compravano di nascosto le
sigarette dal tabaccaio conseziente, e le discoteche, dall’immortale Much More
dei Parioli, dove dalle 4 di domenica mattina c’era un solo nome da spendere: Faber Cucchetti. Oppure il Piper, certamente meno borghese, in cui impazzava
la strobo e la “dance”. Ah, nel 1982 non c’erano le manifestazioni di “Roma fa schifo” a denunciare i mercatini
abusivi, poichè tutto era un mercatino abusivo, per strada potevi comprare qualsiasi cosa. Abusivo
ma tollerato, i ristoranti in centro ti facevano mangiare all’aperto dove
volevi, il bagno alla fontana di Trevi lo facevi senza troppi problemi, mentre
le auto stavano parcheggiate in seconda fila,
e non ti diceva niente nessuno, al limite arrivava un vigile assonnato a fischiare,
faceva una mezza battuta e te la faceva spostare, come fosse un amico. Non c’era Enjoy e Car to go, tuttavia il car sharing
dell’epoca c’era già, perchè se avevi bisogno di un passaggio qualcuno disposto
a dartelo lo trovavi in cinque minuti. E se "magnava", pochi vegetariani,
nessun vegano, biologico, o macrobiotico, c’era la cucina romana, quella delle
nonne nate nei primi del secolo. Carbonara "fijo mio", amatriciana, gricia, cacio e
pepe ma anche pajata, coda alla vaccinara, puntarelle e trippa. E se non
andavi da nonna potevi andare da Cesare, da Pierluigi, da Gino, da Nino, da
Piperno, insomma sembrava di andare a casa di conoscenti
già leggendo il nome. Il papa polacco era stato colpito da poco dal colpo di pistola
di Ali Agca, c’era stato l’attentato alla Sinagoga, c’era ovviamente l'inossidabile Giulio Andreotti e i suoi occhiali da fondo di bottiglia a nascondere veleni e merletti, c'erano storie brutte per carità, e c'erano luoghi ignorati
dai turisti dei grandi monumenti, oscurati dai pini quando Roma d’estate dorme e intanto s’inonda di luce e
brilla negli schizzi delle sue fontane. C’era Antonello Venditti a
preparare una canzone da brividi, una preghiera che accompagnerà per sempre Roma con quel suo "Grazie" affettuoso e fraterno, ritornello su sei accordi, pronto a circondarla e custodirla. Sarà un pò il secondo raccordo anulare, senza scomodare Corrado Guzzanti e quel suo capolavoro
di imitazione, musica e toponomastica. Dimenticavo, la Roma giallorossa s’intende,
la Roma del “Testaccio”, quartiere verace, popolare, operaio, dove la Roma nel pallone tifa Roma, quella Roma che nel 1983 si apprestava a
vincere il secondo scudetto. E
fu un evento, quell’Olimpico smisurato, bellissimo e festante, con Pertini
accanto a Viola, dentro un delirio di folla, terribilmente innamorata e autentica che, dopo la festa di Genova, al triplice fischio
di un Roma- Torino 3-1 non tracimò sul prato, restando sulle tribune, osservando la
squadra correre intorno alla pista d’atletica issando un lungo striscione tricolore. I
volti, i sorrisi, le pacche sulle spalle, quelle maglie di un rosso quasi
cremisi, da lettera scarlatta, come quando sulle pareti di un affresco si accendono le luci delle
candele e i colori si smorzano nella loro interiorità più languida. A compiere
l’impresa fu il “barone”, Nils Liedholm e una filastrocca da leggere d’un fiato. Undici giocatori in ordine rigorosamente numerico: Tancredi,
Nela, Vierchowod, Ancelotti, Falcão, Maldera, Conti, Prohaska, Pruzzo, Di
Bartolomei, Iorio. Una formazione a cui aggiungere i nomi di Superchi, Nappi,
Righetti, Faccini, Valigi, Giovannelli e Chierico, preziosissime riserve. Tra
scaramanzie da napoletano e un’invidiabile flemma da stratega nordico, Niels Liedholm fu magnifico nel disporre i suoi uomini in campo e
nel gestirli fuori dal rettangolo verde, sia nei momenti di euforia sia nelle
difficoltà. C’era da rivincere uno scudetto dopo quasi quarant’anni, c’era da
vendicare la rete annullata a Maurizio Turone al comunale di Torino. Tancredi fra i pali fu protagonista
di una stagione straordinaria, il rimpianto capitano Agostino Di
Bartolomei (quanto duole ripensarlo) l’implacabile stopper Pietro Vierchowod, i
terzini Nela e Maldera, il divino, riccioluto, (nonché ottavo re di Roma e anche qualcos’altro
ma cosa vuoi tutto gli fu concesso...) Paulo Roberto Falcão con la sua la sua esultanza inimitabile sotto la "Sud", il metronomo austriaco
Herbert Prohaska, il "regazzino" Carlo Ancelotti , il funambolico, imprendibile,
Bruno Conti (anima e core alla pari di Ago), poi Maurizio Iorio, e il bomber
Roberto Pruzzo da Crocefieschi. Si, forse fu l’11 maggio più magico nella storia della “Magica”, perché magici
erano quei giorni, disincantati e genuini, e a rivederlo sulle teche RAI, quel concerto gratuito al Circo Massimo
la sera del 15 maggio 1983 è lacrima da far rispuntare, o, se volete, da seguire come una
stella, una stella che cammina, nello spazio senza fine…
lunedì 18 gennaio 2021
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