In Germania la mie simpatie calcistiche vanno al Monaco 1860. E naturalmente sono cascato male, anzi malissimo. Ma d’altro canto Martin Heidegger, che con "l’essere" qualcosa ci azzeccava, ripeteva che noi non giungiamo mai a delle scelte, casomai sono loro che vengono da noi. Nel 2017 il club tecnicamente sarebbe retrocesso nella terza divisione tedesca ma oltre al danno è arrivata la beffa. Intanto il danno è stato doppio. La sconfitta contro il Regensburg avrebbe dovuto significare solo terza serie (dove “solo” è un avverbio improprio per esorcizzare l’evento avverso). Invece mancò l'iscrizione perché il suo azionista principale, lo sceicco giordano Hasan Ismaik, non versò la somma dovuta (circa 5 milioni) subordinando il bonifico al desiderio di diventare tenutario di maggioranza del club (cosa che a quanto ne so in Germania, "Deo Gratias", è impossibile tranne per le società di diretta emanazione aziendale tipo il Bayer Leverkusen). Oh, il TSV perse anche lo stadio. Il Bayern Monaco, proprietario dell'Allianz Arena, infatti ufficializzò la rottura del contratto che permetteva ai cugini di disputare le partite casalinghe nella grande astronave colorata, rinunciando ai 3,5 milioni annui di affitto pagati dal Monaco 1860.
A dirla tutta il TSV si era sgravato già di molte quote di partecipazione dell'Allianz vendendole allo stesso Bayern a causa della difficoltà ad onorare l’impegno economico e a questo punto, vista la cacciata dall'Eden, ecco il ritorno nello storico Grunwalder Stadion. Eppure se partiamo dal concetto tutto teutonico del "è nata prima la birra o il boccale?", a Monaco di Baviera è nato sicuramente prima il TSV 1860. Il figlio maggiore, bello, ma ripudiato dal tempo che lo ha riempito di rughe e di sconfitte, lasciando spazio e fin troppa gloria alla seconda prole: rossa, vincente e piena di soldi.
“Papà, quando è stata l’ultima volta in cui il Monaco 1860 ha vinto il derby?”
“Non so figliolo, dovresti chiedere al nonno!”
Questa freddura è circolata in città per molti anni. Per la precisione il digiuno di vittorie nel derby è durato dal 12 novembre 1977 al 27 novembre del 1999, ventidue anni di sofferenza sportiva interrotti dalla bordata di Thomas Riedl all’Olympiastadion.
Eppure nei giorni delle partite di campionato a Marienplatz si vedono un mare di magliette biancocelesti indossate con composta fierezza da quei sostenitori che per tutta la settimana sembra restino nascosti nelle loro stanzette, soli, eclissati in un limbo di ricordi per non essere umiliati dalla vetrina dei vicini. Fanno perfino tenerezza quando invadono la metro che li porta al capolinea della U3. Un fiume di sciarpe e maglie con il leone rampante della famiglia reale Wittelsbach. I "Die Löwen", come si può facilmente dedurre, devono il suffisso numerico all’anno della loro fondazione anche se all’epoca erano soltanto una polisportiva di belle speranze. Per l’avvento del “fussball” si sarebbero dovuti aspettare una quarantina d’anni e un gruppetto di ragazzi della società di ginnastica Münchner TurnVerein che vollero aggiungere la sezione calcistica.
C’era stata un epoca d’oro nella storia del Monaco 1860. Durerà per tutto il decennio dei sessanta sotto la guida dell’allenatore austriaco Max Merkel, un musico dedito al pallone arrivato dopo qualche buon risultato ottenuto sulla panchina del Borussia Dortmund. Lo spartito ebbe poche stonature e la sua orchestra suonò come il miglior clavicembalo temperato di Baviera fino a diventare campione di Germania nel 1966, passando l’anno precedente una notte da finalista (o da leoni...) davanti ai centomila di Wembley dove venne fagocitato dalla bulimia dei martelli di Bobby Moore che si presero la Coppa delle Coppe con una doppietta di Alan Selay.
Il Monaco 1860 era pervenuto all'atto conclusivo dopo una durissima sfida di semifinale contro il Torino di Gigi Meroni, risolta addirittura con uno spareggio al Letziground di Zurigo. Una squadra caparbia e un po’ strampalata quel TSV; il portiere era yugoslavo, Petar Radenkovic, uno dei personaggi sicuramente più pittoreschi che abbiano mai calcato le scene del calcio tedesco. Registrò anche un disco ('Bin i Radi, bin i König') meravigliando le folle ben oltre i pali della porta di competenza. Il capitano Rudolf Brunnenmeier era sulla buona strada per diventare capocannoniere, Hans Küppers aveva grandi doti tecniche e tiro incisivo, Peter Grosser era un mezzo geniaccio e Hans Heiss Rebele un robusto centravanti di manovra dal sorriso caustico. Tuttavia la fortuna volgerà presto le spalle a quelli del 1860. Il bilancio societario cominciò a presentare le prime crepe con un’esposizione debitoria di oltre due milioni di marchi e nel 1970 ecco l’onta della retrocessione in seconda divisione. Gli anni settanta furono un periodo di difficoltà finanziarie per tutto il calcio tedesco, persino il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt era dovuto intercedere presso le banche per salvare dalla bancarotta l’Amburgo, la sua squadra del cuore. Il Monaco 1860 fu addirittura costretto a ripartire, e aggiungerei guarda caso, dai campionati regionali.
L'ombra del fallimento totale venne spazzata via dall’avvento di Karl Heinz Wildmoser, ambiziosissimo presidente, che riporterà la più antica squadra di Monaco in Bundesliga. La stagione di grazia fu quella che coincise con il quarto posto del 1999/00, raggiunto grazie ai lampi di classe di un ispirato Thomas Hassler a fine carriera, che valse la qualificazione alla moderna Champions League.
Evidentemente però la narrazione del Monaco 1860 presenta qualcosa di strano, di imponderabile. Ciò che per tutti all’alba del nuovo millennio è stata fonte di guadagni, per i leoni di Baviera è diventato paradossalmente la cagione della rovina. Quello stadio che per il Bayern con il suo strepitoso indotto e i suoi centocinquantamila soci è stato un investimento verso il futuro, per il situazionismo del Monaco 1860 è stato un salto finanziario nel buio. In ogni caso venendo alla stretta attualità il TSV, dopo l'allontanamento dalla panchina del portoghese Vitor Pereira, venne affidato al biondo ascetico, ex centrocampista, Daniel Bierofka. Una squadra formata interamente da baldi giovani e dalla loro temeraria incoscienza, bravi ad assimilare in fretta il blasone del marchio e imporsi in Regionalliga tornando a far ruggire il Grünwalder, che sarà pure vecchio, sverniciato e decadente ma resta comunque la vera tana del leone. Oggi dopo un paio d’anni di terza serie le cose stanno prendendo la giusta strada per il gruppo passato nelle mani di Michael Köllner e sospinto dalle reti dello scafato bomber da trincea Sascha Moelders, anche se il cammino resta lungo e periglioso, visto anche che un imprevedibile DNA rientra nelle caratteristiche congenite dei leoni. Alles Gute!
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