domenica 21 febbraio 2021

I DIECI ANNI CHE SCONVOLSERO AMBURGO


Si era alzato un filo di nebbia quella mattina nei pressi del porto. Un umidità fredda, un innaturale silenzio, punzecchiato dalla luce ormai quasi diafana dei lampioni sul molo ancora accesi, come volessero restare vivi più a lungo e godersela, rifulgendo oltre il programmato spegnimento per continuare una festa che si era protratta fino all’alba. Eppure ad Amburgo non tutti se ne erano andati a dormire cercando felicità onirica anche nel riposo dopo quel primo storico titolo di campione della Germania previa plastica facciale annessa alla formulazione della Bundesliga nel 1963. Scivolavano silenziosi i cigni di Alster, eleganti, incantevoli, sinuosi, sulle acque di un laghetto artificiale. A Rathausmark sotto i loggiati bianchi vi arrivavano persino i loro “brutti anatroccoli” smangiucchiando gli avanzi di poderose colazioni, mentre la Chilehaus, dell’architetto Fritz Höger, complesso edilizio accatastato su dieci piani di stile, con il suo angolo acuto faceva immediatamente pensare alla prua di una nave trastullata dalle acque schiumose dell’Elba, circondata da palazzi appuntiti, rossi e austeri, spennellati, lassù in alto, da tetti d’ardesia. Suonò le otto il campanile di Sankt Michaelis e Branko Zebec sonnecchiava, stremato su una panchina in ghisa. Indossava un impermeabile sgualcito, sbottonato, vi si poteva intravedere la tuta dell’Amburgo. I capelli lasciati in perenne stato di abbandono, si erano rintuzzati, sporchi e avvizziti al pari della pelle, sul dietro della testa lasciando libera la sempre più inclemente calvizie. In una mano stentava a tenere salda una bottiglia vuota di champagne, la sua fedele compagna di quella notte. Branko Zebec non mascherava più i suoi problemi di alcolismo, la sua vita stava piegando verso una disfatta di corpo e mente, ciò nonostante nelle visioni da crepuscolo degli dei, in quel livido albore primaverile, sapeva di aver vinto e, ad un certo punto, appagato, crollò addormentandosi. Fu un poliziotto a rianimarlo dal torpore indotto, lo riconobbe, e allertò la società. Zebec era nato a Zagabria e in quel 1979, nel pieno del decennio d’oro dei “Rothosen”, fu chiamato a dirigere la più antica squadra di Germania, nata per fusione di due enti sportivi dai quali aveva ereditato il profondo blu listato di bianconero della vecchia Germania Guglielmina mantenendolo sui calzettoni e finanche sullo stemma grazie alla perizia di un grafico, Otto Sommer ispirato dall’atmosfera del porto mercantile e dal rombo di una bandiera (la Blue Peter) del codice nautico. Tutti, dalle parti del Volksparkstadion, incastrato nel verde del distretto cittadino di Altona, sapevano dei problemi di Zebec, un dramma consumato in frequenti ritiri della patente e in trasferte zoppicanti condite dalla morbosità dei fotografi che in più di un occasione lo immortalarono durante tragicomici sonnellini in panchina. A nulla valsero specialisti e visite mediche. Bruno Zebec, nascosto dai suoi occhiali spessi perennemente in bilico sul naso adunco, non ebbe mai, o non volle mai avere, il controllo del problema. A chi lo riprendeva, lui rispondeva che beveva contro il dolore, contro il mal di vivere: meglio non desiderare una vita lunga perché ciò non avrebbe fatto altro che aumentare le sofferenze. Già, il mondo come volontà e rappresentazione alla stregua di chi quello scoraggiamento esistenziale lo aveva incarnato nel pensiero filosofico, colui che solitario, pessimista, misogino, lasciò tutti i suoi beni ai soldati prussiani rimasti invalidi dopo la rivoluzione del 1848 ed al suo amato cane: Arthur Schopenhauer. Tuttavia, Zebec, lontano dalla tentazione della bottiglia un minimo di patto faustiano lo aveva stretto con il calcio. Allenatore intransigente, al confine col dittatoriale, aveva idee tatticamente eccelse e il merito di quel primo Meisterschale datato 1979 fu indubbiamente suo. Ma rimettiamo la puntina un po’ indietro, ascoltando canzonette alla Lili Marleen, perché l’Amburgo, l’Amburgo borghese e reazionaria, lontana dagli strepiti anarco punkettari dei vicini del Sankt Pauli, incomincerà a fare discreta incetta di trofei nel 1973 battendo quei cavalloni del Borussia Mönchengladbach per 4-0 nella finale del DFB-Pokal sotto la guida di Klaus-Dieter Ochs con una squadra di onesti mestieranti contro i vari Netzer, Stielike, Bonhof e compagnia. Ma sarà il successo ottenuto ancora una volta nella coppa nazionale tre anni più tardi a portare definitivamente l’Amburgo sul palcoscenico continentale e giocarsi la finale di Coppe delle Coppe a Amsterdam. Il cappottone e il berretto di Kuno Klötzer impastarono un’impressionante miscela di caparbietà tipicamente tedesca. Ne fu un perfetto esempio il ritorno della semifinale ai danni dell’Atletico Madrid: sotto 3-1 dopo l’andata, gli anseatici non si dettero affatto per vinti (qualcuno lo sospettava?) imponendosi in casa 3-0. Fin dal calcio d’inizio apparve chiaro che la formazione tedesca con Manfred Kaltz in difesa, Felix Magath, Caspar Memering a centrocampo, l’esperto Georg Volkert sull’ala ed in porta il funambolico Rudolph Kargus, possedesse quello che serviva per respingere l’assalto dei belgi, guidati da Arie Haan. Il goal del vantaggio arrivò a 12 minuti dalla fine realizzato su un calcio di rigore trasformato da Volkert, poi Magath troverà un buco fra le maglie biancomalva e a due minuti dal fischio di chiusura siglò in contropiede il raddoppio. Peter Krohn, eletto presidente e direttore generale giusto in quella stagione aveva adesso le basi per vincere il campionato e qualcos’altro anche se Klötzer finirà a Berlino a dirigere l’Hertha e dopo un paio di accantomenti arrivò Zebec e molto altro. Intanto occorre spendere una parola per Manfred Kaltz, nato in un posticino messo a guardia del ponte sul Reno di fronte a Mannheim, un terzino biondo da guerra dei trent’anni, che sulle spalle portava per puro caso il numero 2 ma poteva tranquillamente essere impiegato come regista a tutti gli effetti. Un fedelissimo, Kaltz, una vita spesa per l’Amburgo e per quell’orologio incassato sulle tribune del Volkparkstadion che per 54 anni, 261 ore, 36 minuti, e 2 secondi ha accompagnato le gesta del club nella Bundesliga prima del reset dovuto alla recente, bruciante, retrocessione. Ecco, dicevamo di Kaltz. Hermann Hesse lo avrebbe senz’altro amato, perfino il gelido Ernst Junger, insomma un lupo e un ribelle, ordinato in direzione ostinata e contraria. Contraria a chi lo sommerse di risolini quando sfoggiava i suoi “piedi a banana” in cortile: "faccia altro, è scarso, vada a cercar lavoro dagli scaricatori o in qualche ditta di camionisti", ventilavano caustiche ombre dalle finestre opache del suo villaggio di Ludwigshafen ancora spaurito dalle bombe alleate. “Nein”: il ragazzino detto “Manni”, se ne farà un segno distintivo, nonostante, sia chiaro, il difetto restò tale, ma quel difetto paradossalmente diventerà il passe-partout del suo genio. Se non fosse stato storpio certe finte non gli sarebbero mai riuscite. Stranezze, ovvio. Essenziale, senza fronzoli o sbavature, e lui, Manfred, pur senza essere musicato dalla solenne partitura di Schumann, si metterà di piglio buono ad alzare cross a rientrare con i suoi piedi a banana diventando padrone incontrastato della propria fascia di competenza, sia nell’Amburgo, sia nel Die-Mannschaft, la nazionale dell’Ovest con l’aquila nera spiegata sul cuore in campo bianco. Branko Zebec invece, dopo quel pareggio interno per 0-0 contro l’Arminia Bielefeld che valse il campionato sarà allontanato nel dicembre del 1980, morirà otto anni dopo. Al suo posto arriverà Ernst Happel con le sue carneadi. Ma nel 1977 il ticchettio, beninteso già digitale, del Uhr batteva per Rudi Gutendorf e stava mostrando altri geniacci sputati casualmente dal destino. Fu il caso di Horst Hrubesch che a 23 anni compiuti di mestiere risistemava tegole e comignoli dalle morse dell’inverno di Hamm, la sua città natale, e tirava calci a un pallone nel fango di provincia con il SC Westtunnen. Qui lo noterà Werner Lorant, che oltre ad essere il suo allenatore per passione giocava nel Rot Weiss Essen in Bundesliga. Lo segnalò al calcio professionistico e Hrubesch, baldanzoso “panzer stauffer” dal ghigno burbero, dopo 80 reti in 83 incontri con l'RWE, nel 1977 accetterà la chiamata dell’Amburgo. Insieme a Horst, al Volkparkstadium fu tempo di gran balli perché dalle brume albioniche dei docks di Liverpool scese (ben remunerato in marchi) a vestire la maglia dell’HSV “Mickey Mouse” nientemeno che sua maestà Keevin Keegan. Si trattò di una decisione abbastanza bizzarra per il periodo, strana e controversa. E i primi mesi furono decisamente complicati per il ricciolone di Scunthorpe, scoperto calciatore dall’occhio perspicace di tal Suor Mary della scuola saveriana di Bally Bridge a Doncaster. Un periodo duro l'approccio con Amburgo dove la non conoscenza della lingua si faceva sentire e dove non c’era stato subito un rapporto idilliaco con i compagni di squadra. L’angoscia e la rabbia fuoriuscirono nel dicembre 1977 quando durante un amichevole contro il Lubecca prese a pugni un difensore avversario rimediando ben otto settimane di squalifica. Ma i tifosi impazzivano per KK, idolatrato al punto che fecero una raccolta inondandolo di cereali britannici quando dopo un’intervista disse che in Germania non riusciva a trovarli. Questo servì forse a schiarirsi le idee e a riappacificarsi col mondo. Il girone d’andata era stato disastroso, ma con il “nuovo” Keegan e una squadra ora al suo servizio, l’Amburgo otterrà una comoda salvezza e il trampolino di lancio per la vittoria della Bundes 1978/79 griffata dai suoi 17 centri, 5 in meno di Klaus Allofs. Dirompente Keegan, come in quella splendida serata della rimonta con il Real, un clamoroso 5-1 che mandò in finale di Coppa dei Campioni gli amburghesi, poi sconfitti soltanto di misura dal Nottingham Forest di Clough e dalla perfida rasoiata di “Occam” Roberston. Per Keegan fu tempo di ritornare in patria ma lasciamolo pure andare, abbiamo già fatto un nome, stava arrivando Happel, appena terminato il breve interregno di Aleksandar Ristic. Nei cabaret di Vienna, Happel, lo chiamavano Ozti come il soprannome dato alla mummia scoperta da Reinhold Messner sulla montagna del Similaun in Alto Adige. Notevole ex difensore, venerato come un mahatma dal sorriso torvo, temuto come uno stregone, fu sposato, separato, convivente, fu maledizione e tabagista forsennato. Uomo totale alla pari del suo stile di calcio riassumibile, fosse fisica, ma forse lo era, nella teoria della relatività e nella meccanica quantistica, implicazioni dal sapore fantascientifico da spogliatoio, ma del tutto coerenti attorno alle quali fu effettivamente possibile ragionare (se non altro in via speculativa) senza scadere in un trip privo di fondamenta. Il calcio di Happel assomigliava a una sorta di warmhole ossia le soluzioni all’equazione del campo gravitazionale di Einstein: scorciatoie nello spazio-tempo. L’Amburgo tornerà così rapidamente sul trono di Germania e nel 1983, grazie alla metrica tutta teutonica di Felix Magath, regista dai piedi raffinati, infilzò sullo spiedo di Atene la favorita Juventus di Trapattoni. Cantarono i cigni di Alster, mentre Horst Hrubesch alzava al cielo la Coppa dei Campioni, perché i dieci anni d’oro dei “Rothosen” erano scaduti. L’orologio invece scadrà molto più tardi, in ogni caso, "danke Hamburg SV. "


 

 

mercoledì 10 febbraio 2021

DIE WALTER ELF


Friedrich sobbalzò sul letto per un colpo di tosse. Quella maledetta bronchite, lo stava mettendo troppo spesso in pessime condizioni e anche il cuore ne risentiva. La luce che filtrava attraverso le tende della camera si posava sui cimeli della sua gioventù, ricordi di un'altra epoca e di un'altra epica. Si alzò, e dopo qualche passo strascicato con le pantofole di pelle scura, appoggiò i palmi delle mani sul davanzale e distinse la sua faccia riflessa nel vetro della finestra prima di intravedere in lontananza la cupola d’ardesia della Chiesa di Alsenborn ormai libera dalla neve dell’inverno. Si riconobbe. Non era poco, in fondo. Riconobbe il naso grosso, le sue rughe e la sua malinconia. Avrebbe venduto l’anima al primo diavolo per poter salire quella sera la collina di Betze, scendere nella pancia dello stadio seminascosto dal verde dei boschi, rimettersi la maglia aderente, infilarsi le scarpette tirate a lucido e gettarsi in campo ancora una volta come lo aveva fatto per ventiquattro anni filati con il Kaiserslautern. Ja, Kaisersalutern. Città tipicamente tedesca della Renania. Industrie meccaniche, tessili, legno, odore di buoni sigari e, naturalmente, birra.

“Fritz non scendi a vedere la partita?” 

La voce è quella di sua moglie. Italia. Lei è italiana, e i genitori in uno slancio patriottico pensarono bene di chiamarla come la loro terra: Italia Walter quindi. Perché lui è Friedrich Walter. Anzi, Fritz Walter. Una volta in un tema di classe uno scolaro scrisse che la città di Kaiserslautern, settanta chilometri da Magonza, venne fondata da Fritz Walter. In fondo non aveva tutti i torti. Fritz Walter era una sorta di figura mitica, non solo in termini calcistici, un simbolo di rinascita e di rivendicazione della Germania sconfitta, ferita e umiliata dai bombardamenti. Ambasciatore sportivo, capitano della nazionale tedesca e luogotenente del leggendario allenatore Sepp Herberger, con il quale mise a punto la squadra del "Miracolo di Berna" del 1954, vincitrice della Coppa del Mondo. Nato all'ombra della "Grande Guerra" a Alsenborn, cittadina oggi riunificata con il villaggio di Enkenbach, venne battezzato con il nome di Friedrich Walter, anche se fin da piccolo tutti lo chiamarono naturalmente e semplicemente "Fritz". 

“No, non vengo, non me la sento, dopo mi dirai come è andata.”

336 gol in 321 partite. Nella storia del Kaiserslautern il miglior goleador di tutti i tempi. Eppure insieme a lui c'è un' altro Walter a rimettere sulla mappa geografica la Germania senza più vergogna: suo fratello minore Ottmar. Ottmar Walter nel 1954 la Rimet l’ha vinta, giocando proprio al fianco di Fritz e segnando cinque reti. Classe 1924, da bambino aveva un sogno: quello di diventare pugile. Si innamorò di questo sport dopo aver visto stipato in un cinema, un incontro disputato da Max Schmeling, peso massimo tedesco, che nel 1936 aveva conquistato il titolo mondiale battendo al Madison Square Garden di New York un certo Joe Louis. Saranno solamente sogni di ring e guantoni, a nove anni, il fratello di Fritz Walter, entrò nelle giovanili del Kaiserslautern. Quella sarà la sua unica maglia, insieme a quella della Nationalmannschaft. Esordisce in prima squadra nel 1941 e già è protagonista della cavalcata dei “Diavoli Rossi” in Gauliga Westmark, uno dei gironi su base geografica in cui era articolato il torneo nazionale, che li porterà alla fase finale del campionato. Nel primo turno, nel derby con il Waldhof Mannheim Ottmar metterà a segno due reti, mentre nel 9-3 incassato dallo Schalke, la migliore formazione tedesca di quel periodo, il minore dei fratelli Walter realizza una delle reti di consolazione. Nel 1942 Ottmar si arruolerà volontario nella "Kriegsmarine", la Marina militare del Terzo Reich agli ordini del comandante Karl Dönitz. Ci rimarrà due anni, prima di essere catturato dagli Alleati e mandato in un campo di concentramento, da cui verrà liberato nell’ottobre del 1946. Ciò nonostante, Ottmar non smette di giocare. Essendo "Kriegsgastspieler", vale a dire uno status che permetteva ai calciatori di giocare nei luoghi in cui erano dislocati con i loro reparti, scenderà in campo per l’Holstein Kiel e per il Cuxhavener SV. Con le “Cicogne” addirittura raggiunge il terzo posto nel suono delle lugubre delle sirene del campionato 1943, realizzando sei centri. Un rendimento talmente soddisfacente, che il ct della Nazionale Sepp Herberger, gli promette di chiamarlo per uno “stage” a Breslavia. Una riunione che ovviamente non avrà mai luogo, a causa del precipitare degli eventi e il conseguente blocco delle attività sportiva. La guerra, come per suo fratello Fritz, rischia di incidere profondamente sulla sua carriera. Nell’estate 1944, mentre si trova su un battello di ricerca sulle coste atlantiche della Francia, il suo convoglio viene attaccato dagli inglesi. Dei 135 uomini a bordo, se ne salvano appena undici, tra cui Ottmar, un miracolato. Il calciatore resta comunque ferito a una gamba, tre schegge gli si sono conficcate nel ginocchio. I medici lo ritengono già un invalido. Si sbaglieranno, perché dal 1947, Ottmar fu nuovamente di fianco a suo fratello con la maglia del Kaiserslautern. Una squadra solida con Ernst Liebrich e Werner Kohlmeyer in difesa e dal 1950 Horst Eckel a centrocampo, dove giocava pure Werner Liebrich, il fratello di Ernst. Nel 1948 i "Rote Teufel", al termine di una stagione lunghissima in cui Ottmar Walter dice 51, vengono sconfitti in finale contro il Norimberga.  Sepp Herberger però manterrà la promessa, convocando Ottmar per la prima partita del dopoguerra della nazionale, dopo la riammissione nella FIFA. È il 22 novembre 1950 e i tedeschi vincono a Stoccarda 1-0 contro la Svizzera con Ottmar che entrerà al posto del fratello Fritz infortunato. Di seguito nel 1951 e nel ‘53 il cosiddetto "Walter-Elf", (la squadra dei Walter) si porterà a casa il "Meisterschale", lo scudo dei più forti. Nel 1951 a Berlino contro il Preußen Münster saranno due gol di Ottmar Walter a sancire in rimonta il 2-1 conclusivo. Il club gli regalerà un anello, che porterà fino alla morte. Dopo il successo del 1954 Ottmar giocherà ancora per quattro anni, fino al 1959, ritirandosi dopo una serie di operazioni al ginocchio lo stesso giorno del fratello, il 21 giugno, al termine di un match contro il Racing Club di Parigi. Con 295 reti Ottmar Walter è il miglior goleador di sempre della Oberliga Südwest e di tutti i gironi della Oberliga, quelli in cui era diviso il campionato tedesco prima della nascita della Bundesliga. A differenza di suo fratello, con cui ebbe sempre un rapporto ottimo e mai offuscato dalle gelosia. Dopo il ritiro prese in gestione un distributore di benzinaa ma le cose purtroppo non vanno bene al punto da sprofondare nell’alcol e nella depressione. Nel 1968 tentò, qualche mese dopo la moglie, di togliersi la vita. Lo salveranno in tempo e il comune di Kaiserslautern provvide ad assumerlo nel ruolo di impiegato Tuttavia le problematiche di salute lo tormenteranno ancora e nel 1984 dovrà andare in pensione anticipata. Se la godrà insieme al fratello guardando il “loro” Kaiserslautern, prima che l’Alzheimer lo pieghi senza pietà. Nel 2004 fu decorato con la "Bundesverdienstkreuz", importante onorificenza tedesca e nel 2005 l’entrata nord del Fritz-Walter-Stadion di Kaiserslautern, è stata ribattezzata con il suo nome. Una soddisfazione per un campione offuscato dal ricordo di essere soprattutto noto come il “fratello di..”

 


 

 

mercoledì 3 febbraio 2021

PERUGIA 30 E LODE


Ho cercato insistentemente la maglia originale di quella squadra senza mai riuscire nemmeno a sfiorarla, solo una volta, attraverso una triangolazione telefonica, riuscì a mettermi in contatto con un collezionista che ne aveva una; una con sul retro un numero di riserva, il che francamente non mi importava poi molto, tuttavia il prezzo richiesto mi costrinse a recedere e allora, ogni tanto, se mi capita di andare a Perugia, esco sempre all’uscita dello stadio Curi, parcheggio la macchina e prima di prendere la teleferica che ti fa salire in centro vado a vedere quelle appese nel piccolo museo del Grifo ricavato a pochi passi dall’impianto. E onestamente ho sempre un tuffo al cuore perché il mio primo album Panini, completato con indomita, certosina volontà, fu quello datato 1978/79 e in un nitido frammento di memoria rivedo mio babbo, in una giornata di sole, impazzita di luce, in un campetto sterrato di provincia a difendere la porta della sua squadra di dopolavoristi ferrotranvieri con indosso una maglia grigia, e io, bambino, da dietro la rete gli dico: ”babbo assomigli a Malizia”, e lui, per un attimo indefinito, si gira e mi sorride mentre gli anni settanta finivano con la donna cantata da Alan Sorrenti, il singolo più venduto in Italia quell’anno, anche se, a dirla tutta, la canzone più adatta incisa in quel periodo, nel nostro caso sarebbe stata “C’è mancato poco” del capelluto Leano Morelli. Si, perché il Perugia, che naturalmente aveva le mie simpatie per via di quella maglia bellissima, perse uno scudetto che avrebbe potuto vincere. Eppure le lezioni da imparare, e tramandare a nostra volta ci dicono che, pur essendo il gioco o il tifo, un elemento ineliminabile della vita, è possibile e doveroso impedirgli di avvincere e soggiogare pensieri ed emozioni. Nel “Diario di un curato di campagna” di George Bernanos (e la campagna umbra vi garantisco è splendida) si esprime il concetto che tutto è grazia: tale è la visione del mondo di colui che ha raggiunto la consapevolezza e sa vedere oltre le antinomie e le contraddizioni, pur dolorose della vita, l'ordito mirabile sopra il quale essa viene tessendo la propria tela. Di conseguenza, per usare il linguaggio di San Francesco, (lui qui è abbastanza di casa..) la sconfitta è nostra sorella e dobbiamo amarla poichè ci fa degni di essere amati a nostra volta. Solo che il peccato originale di quel Perugia, se leggiamo il mito di Narciso attraverso una variazione sul tema di fondo, fu nascondere uno specchio. 
 
 
Quello in cui ogni domenica rifletteva la sua bellezza e restava assorto, rapito da un estasi partorita da uno strano destino che sussurrava sensuale agli orecchi che erano talmente attraenti da non dover rischiare di cedere al passo audace della gloria ma di limitarsi nella contemplazione dell’unicità del primato. Testardi quindi, eppure, va da sè, seducenti. E così hanno perseguito, fino alla fine. Quello specchio, ormai opaco, non si rotto nei meandri del menzionare, nemmeno scheggiato dagli angoli duri del labirinto del tempo, basta una semplice passata di spugna e nel riflesso soltanto la matematica del pallone ancora spregia un incedere senza rotte ma anche senza il lustro decisivo, un esercito costretto a arrendersi per colpa di mera polvere da clessidra e non da moschetto. Resterà, ad ogni modo, il primo caso di imbattibilità nella storia del campionato, quello del Perugia guidato dagli occhi azzurri di Ilario Castagner beninteso che lo scudetto finì al Milan di Nils Liedholm e dell’ultimo, un po’ triste, Gianni Rivera che chiuse il suo ciclo regalando ai rossoneri la stella sul petto. Ma adesso su, risalite via dei Filosofi, sbirciate in Piazza Italia, dove qualcuno maledice ancora Papa Leone III, i Farnese e quella Rocca due volte inflitta e due volte distrutta dall’orgoglio grifagno, che dal 1277 traeva acqua di libertà dalla vena di Monte Pacciano e l’elargiva nel marmo della Fontana Maggiore. Affacciatevi dal belvedere Carducci, dove un corrucciato Pietro di Cristoforo sembra cercare nuovi spunti d’arte. L’arte di non perdere per non vincere, paradosso di un Perugia gagliardo al pari delle sue superbe maglie rosse. Il Perugia che fu un pugno chiuso come l’Umbria, politico, di protesta, alzato verso il cielo ma indirizzato verso lo stomaco. Quello di Paolo Sollier, capelli lunghi, barba da filosofo e “L’Unità” nella tasca dei jeans. Il Perugia che fu di anche di Renato Curi, cui la morte impaziente non fece finire nemmeno la partita e se lo portò via sotto una vile pioggia d’ottobre. Il Perugia del sogno sfumato parte dall’incipit Malizia, Nappi, Ceccarini, Redenghieri e Frosio libero, il baffuto capitano da legname e cordami di prua, al timone di dieci irripetibili stagioni. Il Perugia di Della Martira, Butti, Dal Fiume e Salvatore Bagni, dinamico moretto dal piglio tutto emiliano, che sputava l’anima in continue corse di copertura, esibendo delle doti che ben presto gli avrebbero modificato il ruolo. Il Perugia dell’implacabile Vannini, formidabile metronomo del centrocampo, abilissimo nel gioco aereo, corsaro al Comunale di Torino, quando una sua rete piegò la Juve, e spregiudicato nel catino del Meazza, dove per poco il suo colpo di testa non risultò decisivo. Il Perugia di Walter Speggiorin, eterna promessa che a Firenze si beccò del “grullo” e dello scansafatiche, e che grazie alla fiducia di Castagner trovò la rete con una continuità fino ad allora mai mostrata e in tanti hanno conservato il poster di qualche suo goal; magari quello fatto all’Ascoli, realizzato con una splendida acrobazia aerea, oppure quello messo a segno in trasferta a Napoli, frutto di una brillante rovesciata. Il Perugia con là davanti l’elegante Gianfranco Casarsa, che tirava i rigori da fermo, centravanti un po’ arretrato e, a dire il vero un po’ naif, quasi volesse stare sulle sue, privo della naturale voglia dell’attaccante di incunearsi in mischie fratricide, bensì più portato a dettare l’ultimo, delicato, prezioso passaggio al compagno smarcato, alla stregua di Hidegkuti, il faro della grande Ungheria degli anni ’50. E insieme a lui il giovane Marco Cacciatori, pescato direttamente dai campi spelacchiati della serie D. Loro insomma, i ragazzi voluti dal trio D’Attoma-Ramaccioni- Castagner, che volevano giocare come l’Ajax e per certi aspetti ci riuscirono. Non arrivò il tricolore, piuttosto trenta partite senza conoscere sconfitta. Trenta e lode grifo, perché si può essere ricordati lo stesso. Alle volte l’importante non è vincere, ma superare i propri limiti. 
 

 
 
 

 

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...