domenica 21 febbraio 2021

I DIECI ANNI CHE SCONVOLSERO AMBURGO


Si era alzato un filo di nebbia quella mattina nei pressi del porto. Un umidità fredda, un innaturale silenzio, punzecchiato dalla luce ormai quasi diafana dei lampioni sul molo ancora accesi, come volessero restare vivi più a lungo e godersela, rifulgendo oltre il programmato spegnimento per continuare una festa che si era protratta fino all’alba. Eppure ad Amburgo non tutti se ne erano andati a dormire cercando felicità onirica anche nel riposo dopo quel primo storico titolo di campione della Germania previa plastica facciale annessa alla formulazione della Bundesliga nel 1963. Scivolavano silenziosi i cigni di Alster, eleganti, incantevoli, sinuosi, sulle acque di un laghetto artificiale. A Rathausmark sotto i loggiati bianchi vi arrivavano persino i loro “brutti anatroccoli” smangiucchiando gli avanzi di poderose colazioni, mentre la Chilehaus, dell’architetto Fritz Höger, complesso edilizio accatastato su dieci piani di stile, con il suo angolo acuto faceva immediatamente pensare alla prua di una nave trastullata dalle acque schiumose dell’Elba, circondata da palazzi appuntiti, rossi e austeri, spennellati, lassù in alto, da tetti d’ardesia. Suonò le otto il campanile di Sankt Michaelis e Branko Zebec sonnecchiava, stremato su una panchina in ghisa. Indossava un impermeabile sgualcito, sbottonato, vi si poteva intravedere la tuta dell’Amburgo. I capelli lasciati in perenne stato di abbandono, si erano rintuzzati, sporchi e avvizziti al pari della pelle, sul dietro della testa lasciando libera la sempre più inclemente calvizie. In una mano stentava a tenere salda una bottiglia vuota di champagne, la sua fedele compagna di quella notte. Branko Zebec non mascherava più i suoi problemi di alcolismo, la sua vita stava piegando verso una disfatta di corpo e mente, ciò nonostante nelle visioni da crepuscolo degli dei, in quel livido albore primaverile, sapeva di aver vinto e, ad un certo punto, appagato, crollò addormentandosi. Fu un poliziotto a rianimarlo dal torpore indotto, lo riconobbe, e allertò la società. Zebec era nato a Zagabria e in quel 1979, nel pieno del decennio d’oro dei “Rothosen”, fu chiamato a dirigere la più antica squadra di Germania, nata per fusione di due enti sportivi dai quali aveva ereditato il profondo blu listato di bianconero della vecchia Germania Guglielmina mantenendolo sui calzettoni e finanche sullo stemma grazie alla perizia di un grafico, Otto Sommer ispirato dall’atmosfera del porto mercantile e dal rombo di una bandiera (la Blue Peter) del codice nautico. Tutti, dalle parti del Volksparkstadion, incastrato nel verde del distretto cittadino di Altona, sapevano dei problemi di Zebec, un dramma consumato in frequenti ritiri della patente e in trasferte zoppicanti condite dalla morbosità dei fotografi che in più di un occasione lo immortalarono durante tragicomici sonnellini in panchina. A nulla valsero specialisti e visite mediche. Bruno Zebec, nascosto dai suoi occhiali spessi perennemente in bilico sul naso adunco, non ebbe mai, o non volle mai avere, il controllo del problema. A chi lo riprendeva, lui rispondeva che beveva contro il dolore, contro il mal di vivere: meglio non desiderare una vita lunga perché ciò non avrebbe fatto altro che aumentare le sofferenze. Già, il mondo come volontà e rappresentazione alla stregua di chi quello scoraggiamento esistenziale lo aveva incarnato nel pensiero filosofico, colui che solitario, pessimista, misogino, lasciò tutti i suoi beni ai soldati prussiani rimasti invalidi dopo la rivoluzione del 1848 ed al suo amato cane: Arthur Schopenhauer. Tuttavia, Zebec, lontano dalla tentazione della bottiglia un minimo di patto faustiano lo aveva stretto con il calcio. Allenatore intransigente, al confine col dittatoriale, aveva idee tatticamente eccelse e il merito di quel primo Meisterschale datato 1979 fu indubbiamente suo. Ma rimettiamo la puntina un po’ indietro, ascoltando canzonette alla Lili Marleen, perché l’Amburgo, l’Amburgo borghese e reazionaria, lontana dagli strepiti anarco punkettari dei vicini del Sankt Pauli, incomincerà a fare discreta incetta di trofei nel 1973 battendo quei cavalloni del Borussia Mönchengladbach per 4-0 nella finale del DFB-Pokal sotto la guida di Klaus-Dieter Ochs con una squadra di onesti mestieranti contro i vari Netzer, Stielike, Bonhof e compagnia. Ma sarà il successo ottenuto ancora una volta nella coppa nazionale tre anni più tardi a portare definitivamente l’Amburgo sul palcoscenico continentale e giocarsi la finale di Coppe delle Coppe a Amsterdam. Il cappottone e il berretto di Kuno Klötzer impastarono un’impressionante miscela di caparbietà tipicamente tedesca. Ne fu un perfetto esempio il ritorno della semifinale ai danni dell’Atletico Madrid: sotto 3-1 dopo l’andata, gli anseatici non si dettero affatto per vinti (qualcuno lo sospettava?) imponendosi in casa 3-0. Fin dal calcio d’inizio apparve chiaro che la formazione tedesca con Manfred Kaltz in difesa, Felix Magath, Caspar Memering a centrocampo, l’esperto Georg Volkert sull’ala ed in porta il funambolico Rudolph Kargus, possedesse quello che serviva per respingere l’assalto dei belgi, guidati da Arie Haan. Il goal del vantaggio arrivò a 12 minuti dalla fine realizzato su un calcio di rigore trasformato da Volkert, poi Magath troverà un buco fra le maglie biancomalva e a due minuti dal fischio di chiusura siglò in contropiede il raddoppio. Peter Krohn, eletto presidente e direttore generale giusto in quella stagione aveva adesso le basi per vincere il campionato e qualcos’altro anche se Klötzer finirà a Berlino a dirigere l’Hertha e dopo un paio di accantomenti arrivò Zebec e molto altro. Intanto occorre spendere una parola per Manfred Kaltz, nato in un posticino messo a guardia del ponte sul Reno di fronte a Mannheim, un terzino biondo da guerra dei trent’anni, che sulle spalle portava per puro caso il numero 2 ma poteva tranquillamente essere impiegato come regista a tutti gli effetti. Un fedelissimo, Kaltz, una vita spesa per l’Amburgo e per quell’orologio incassato sulle tribune del Volkparkstadion che per 54 anni, 261 ore, 36 minuti, e 2 secondi ha accompagnato le gesta del club nella Bundesliga prima del reset dovuto alla recente, bruciante, retrocessione. Ecco, dicevamo di Kaltz. Hermann Hesse lo avrebbe senz’altro amato, perfino il gelido Ernst Junger, insomma un lupo e un ribelle, ordinato in direzione ostinata e contraria. Contraria a chi lo sommerse di risolini quando sfoggiava i suoi “piedi a banana” in cortile: "faccia altro, è scarso, vada a cercar lavoro dagli scaricatori o in qualche ditta di camionisti", ventilavano caustiche ombre dalle finestre opache del suo villaggio di Ludwigshafen ancora spaurito dalle bombe alleate. “Nein”: il ragazzino detto “Manni”, se ne farà un segno distintivo, nonostante, sia chiaro, il difetto restò tale, ma quel difetto paradossalmente diventerà il passe-partout del suo genio. Se non fosse stato storpio certe finte non gli sarebbero mai riuscite. Stranezze, ovvio. Essenziale, senza fronzoli o sbavature, e lui, Manfred, pur senza essere musicato dalla solenne partitura di Schumann, si metterà di piglio buono ad alzare cross a rientrare con i suoi piedi a banana diventando padrone incontrastato della propria fascia di competenza, sia nell’Amburgo, sia nel Die-Mannschaft, la nazionale dell’Ovest con l’aquila nera spiegata sul cuore in campo bianco. Branko Zebec invece, dopo quel pareggio interno per 0-0 contro l’Arminia Bielefeld che valse il campionato sarà allontanato nel dicembre del 1980, morirà otto anni dopo. Al suo posto arriverà Ernst Happel con le sue carneadi. Ma nel 1977 il ticchettio, beninteso già digitale, del Uhr batteva per Rudi Gutendorf e stava mostrando altri geniacci sputati casualmente dal destino. Fu il caso di Horst Hrubesch che a 23 anni compiuti di mestiere risistemava tegole e comignoli dalle morse dell’inverno di Hamm, la sua città natale, e tirava calci a un pallone nel fango di provincia con il SC Westtunnen. Qui lo noterà Werner Lorant, che oltre ad essere il suo allenatore per passione giocava nel Rot Weiss Essen in Bundesliga. Lo segnalò al calcio professionistico e Hrubesch, baldanzoso “panzer stauffer” dal ghigno burbero, dopo 80 reti in 83 incontri con l'RWE, nel 1977 accetterà la chiamata dell’Amburgo. Insieme a Horst, al Volkparkstadium fu tempo di gran balli perché dalle brume albioniche dei docks di Liverpool scese (ben remunerato in marchi) a vestire la maglia dell’HSV “Mickey Mouse” nientemeno che sua maestà Keevin Keegan. Si trattò di una decisione abbastanza bizzarra per il periodo, strana e controversa. E i primi mesi furono decisamente complicati per il ricciolone di Scunthorpe, scoperto calciatore dall’occhio perspicace di tal Suor Mary della scuola saveriana di Bally Bridge a Doncaster. Un periodo duro l'approccio con Amburgo dove la non conoscenza della lingua si faceva sentire e dove non c’era stato subito un rapporto idilliaco con i compagni di squadra. L’angoscia e la rabbia fuoriuscirono nel dicembre 1977 quando durante un amichevole contro il Lubecca prese a pugni un difensore avversario rimediando ben otto settimane di squalifica. Ma i tifosi impazzivano per KK, idolatrato al punto che fecero una raccolta inondandolo di cereali britannici quando dopo un’intervista disse che in Germania non riusciva a trovarli. Questo servì forse a schiarirsi le idee e a riappacificarsi col mondo. Il girone d’andata era stato disastroso, ma con il “nuovo” Keegan e una squadra ora al suo servizio, l’Amburgo otterrà una comoda salvezza e il trampolino di lancio per la vittoria della Bundes 1978/79 griffata dai suoi 17 centri, 5 in meno di Klaus Allofs. Dirompente Keegan, come in quella splendida serata della rimonta con il Real, un clamoroso 5-1 che mandò in finale di Coppa dei Campioni gli amburghesi, poi sconfitti soltanto di misura dal Nottingham Forest di Clough e dalla perfida rasoiata di “Occam” Roberston. Per Keegan fu tempo di ritornare in patria ma lasciamolo pure andare, abbiamo già fatto un nome, stava arrivando Happel, appena terminato il breve interregno di Aleksandar Ristic. Nei cabaret di Vienna, Happel, lo chiamavano Ozti come il soprannome dato alla mummia scoperta da Reinhold Messner sulla montagna del Similaun in Alto Adige. Notevole ex difensore, venerato come un mahatma dal sorriso torvo, temuto come uno stregone, fu sposato, separato, convivente, fu maledizione e tabagista forsennato. Uomo totale alla pari del suo stile di calcio riassumibile, fosse fisica, ma forse lo era, nella teoria della relatività e nella meccanica quantistica, implicazioni dal sapore fantascientifico da spogliatoio, ma del tutto coerenti attorno alle quali fu effettivamente possibile ragionare (se non altro in via speculativa) senza scadere in un trip privo di fondamenta. Il calcio di Happel assomigliava a una sorta di warmhole ossia le soluzioni all’equazione del campo gravitazionale di Einstein: scorciatoie nello spazio-tempo. L’Amburgo tornerà così rapidamente sul trono di Germania e nel 1983, grazie alla metrica tutta teutonica di Felix Magath, regista dai piedi raffinati, infilzò sullo spiedo di Atene la favorita Juventus di Trapattoni. Cantarono i cigni di Alster, mentre Horst Hrubesch alzava al cielo la Coppa dei Campioni, perché i dieci anni d’oro dei “Rothosen” erano scaduti. L’orologio invece scadrà molto più tardi, in ogni caso, "danke Hamburg SV. "


 

 

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