Ho cercato insistentemente la maglia
originale di quella squadra senza mai riuscire nemmeno a sfiorarla, solo una
volta, attraverso una triangolazione telefonica, riuscì a mettermi in contatto
con un collezionista che ne aveva una; una con sul retro un numero di riserva,
il che francamente non mi importava poi molto, tuttavia il prezzo richiesto mi costrinse a recedere e allora, ogni tanto, se
mi capita di andare a Perugia, esco sempre all’uscita dello stadio Curi, parcheggio
la macchina e prima di prendere la teleferica che ti fa salire in centro vado a
vedere quelle appese nel piccolo museo del Grifo ricavato a pochi passi dall’impianto.
E onestamente ho sempre un tuffo al cuore perché il mio primo album
Panini, completato con indomita, certosina volontà, fu quello datato 1978/79 e
in un nitido frammento di memoria rivedo mio babbo, in una giornata di sole, impazzita di luce, in un
campetto sterrato di provincia a difendere la porta della sua squadra di dopolavoristi ferrotranvieri con indosso
una maglia grigia, e io, bambino, da dietro la rete gli dico: ”babbo assomigli
a Malizia”, e lui, per un attimo indefinito, si gira e mi sorride mentre gli anni settanta
finivano con la donna cantata da Alan Sorrenti, il singolo più venduto in
Italia quell’anno, anche se, a dirla tutta, la canzone più adatta incisa in quel periodo,
nel nostro caso sarebbe stata “C’è mancato poco” del capelluto Leano Morelli. Si, perché il
Perugia, che naturalmente aveva le mie simpatie per via di quella maglia
bellissima, perse uno scudetto che avrebbe potuto vincere. Eppure le lezioni da imparare, e tramandare a nostra volta ci dicono che, pur essendo il gioco o il tifo,
un elemento ineliminabile della vita, è possibile e doveroso impedirgli di
avvincere e soggiogare pensieri ed emozioni. Nel “Diario di
un curato di campagna” di George Bernanos (e la campagna umbra vi garantisco è splendida) si esprime
il concetto che tutto è grazia: tale è la visione del mondo di colui che ha
raggiunto la consapevolezza e sa vedere oltre le antinomie e le
contraddizioni, pur dolorose della vita, l'ordito mirabile sopra il quale
essa viene tessendo la propria tela. Di conseguenza, per
usare il linguaggio di San Francesco, (lui qui è abbastanza di casa..) la sconfitta è nostra sorella e dobbiamo amarla poichè ci fa degni di essere amati a nostra volta. Solo
che il peccato originale di quel Perugia, se leggiamo il mito di Narciso attraverso
una variazione sul tema di fondo, fu nascondere uno specchio.
Quello in cui ogni
domenica rifletteva la sua bellezza e restava assorto, rapito da un estasi
partorita da uno strano destino che sussurrava sensuale agli orecchi che erano talmente attraenti da non dover rischiare di cedere al passo audace della
gloria ma di limitarsi nella contemplazione dell’unicità del primato. Testardi quindi,
eppure, va da sè, seducenti. E così hanno perseguito, fino alla fine. Quello
specchio, ormai opaco, non si rotto nei meandri del menzionare,
nemmeno scheggiato dagli angoli duri del labirinto del tempo, basta una semplice passata di spugna e nel
riflesso soltanto la matematica del pallone ancora spregia un incedere senza rotte
ma anche senza il lustro decisivo, un esercito costretto a arrendersi per colpa di mera polvere
da clessidra e non da moschetto. Resterà, ad ogni modo, il primo caso di imbattibilità nella
storia del campionato, quello del Perugia guidato dagli occhi azzurri
di Ilario Castagner beninteso che lo scudetto finì al Milan di Nils Liedholm
e dell’ultimo, un po’ triste, Gianni Rivera che chiuse il suo ciclo regalando
ai rossoneri la stella sul petto. Ma adesso su, risalite via dei Filosofi,
sbirciate in Piazza Italia, dove qualcuno maledice ancora Papa Leone III, i
Farnese e quella Rocca due volte inflitta e due volte distrutta dall’orgoglio
grifagno, che dal 1277 traeva acqua di libertà dalla vena di Monte Pacciano e
l’elargiva nel marmo della Fontana Maggiore. Affacciatevi dal belvedere
Carducci, dove un corrucciato Pietro di Cristoforo sembra cercare nuovi spunti
d’arte. L’arte di non perdere per non vincere, paradosso di un Perugia gagliardo al pari delle sue superbe maglie rosse. Il Perugia che fu un pugno chiuso come
l’Umbria, politico, di protesta, alzato verso il cielo ma indirizzato verso lo
stomaco. Quello di Paolo Sollier, capelli lunghi, barba da filosofo e “L’Unità”
nella tasca dei jeans. Il Perugia che fu di anche di Renato Curi, cui la morte
impaziente non fece finire nemmeno la partita e se lo portò via sotto una vile
pioggia d’ottobre. Il Perugia del sogno sfumato parte dall’incipit Malizia,
Nappi, Ceccarini, Redenghieri e Frosio libero, il baffuto capitano da legname e cordami di prua, al timone di dieci
irripetibili stagioni. Il Perugia di Della Martira, Butti, Dal Fiume e Salvatore Bagni, dinamico moretto dal piglio tutto emiliano, che sputava
l’anima in continue corse di copertura, esibendo delle doti che ben presto gli
avrebbero modificato il ruolo. Il Perugia dell’implacabile Vannini, formidabile
metronomo del centrocampo, abilissimo nel gioco aereo, corsaro al Comunale di
Torino, quando una sua rete piegò la Juve, e spregiudicato nel catino del Meazza,
dove per poco il suo colpo di testa non risultò decisivo. Il Perugia di
Walter Speggiorin, eterna promessa che a Firenze si beccò del “grullo” e dello
scansafatiche, e che grazie alla fiducia di Castagner trovò la rete con una
continuità fino ad allora mai mostrata e in tanti hanno conservato il
poster di qualche suo goal; magari quello fatto all’Ascoli, realizzato con una
splendida acrobazia aerea, oppure quello messo a segno in trasferta a Napoli,
frutto di una brillante rovesciata. Il Perugia con là davanti l’elegante
Gianfranco Casarsa, che tirava i rigori da fermo, centravanti un po’ arretrato
e, a dire il vero un po’ naif, quasi volesse stare sulle sue, privo
della naturale voglia dell’attaccante di incunearsi in mischie fratricide,
bensì più portato a dettare l’ultimo, delicato, prezioso passaggio al compagno
smarcato, alla stregua di Hidegkuti, il faro della grande Ungheria degli anni
’50. E insieme a lui il giovane Marco Cacciatori, pescato direttamente dai
campi spelacchiati della serie D. Loro insomma, i ragazzi voluti dal trio
D’Attoma-Ramaccioni- Castagner, che volevano giocare come l’Ajax e per certi
aspetti ci riuscirono. Non arrivò il tricolore, piuttosto trenta partite senza
conoscere sconfitta. Trenta e lode grifo, perché si può essere ricordati lo
stesso. Alle volte l’importante non è vincere, ma superare i propri limiti.
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