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East Belfast il tempo sembra fermarsi. E nonostante sia una pia
illusione quella di bloccare le lancette, tuttavia, in questo spicchio
di città che si distende macchinosa verso lo schiumare della battigia,
ti rapisce la percezione del suo dilatarsi, di un rallentatore
invisibile agli occhi ma sensibile all’animo, pronto ad accogliere gli
effluvi del porto con il suo articolarsi di identità, il suo senso di
appartenenza, il suo condividere legami comuni, semantici e sintattici,
senza fretta, appunto, perché il fuso del Glentoran fila e torce a suo
piacimento scandendo un’ora ignota. La gente che abita le casette a
schiera (protagoniste dell'infanzia dell'autore delle Cronache di
Narnia..) puntellate su Mersey Street, è di norma gentile, estroversa,
apparentemente allegra ma basta uno sguardo un pò più intenso e capisci
che gli occhi nascondono tremori antichi. Belfast è stata, e per certi
versi lo è ancora, città in guerra con se stessa. Sotto un cielo piombo
gravido di pioggia, il vento fischia stridulo fra le pietre, e i bambini giocano a calcio in campetti poveri sulla collina, nello stesso pendio da
cui George Best vedeva ergersi i cantieri navali dove lavorava suo
padre, quelli della Harland&Wolff’s, quelli con le due enormi Gru
gialle ribattezzate Sansone e Golia. Al Westbourne Bar, si ritrovano i
tifosi dei “Glens” una scatoletta d’arenaria scura con le finestrine
verdi, ben protette da un inferriata. Dentro ti rischiara una luce
soffusa da presepe che pare essere quasi un lusso, uno sfarzo inutile
buono solo per sedersi su un treppiedi davanti al bancone di mescita
fornito di una discreta batteria di Harp Lager e Whiteever, mentre
annusi l’aria impregnata di una qualche essenza di fumo illegale accanto
a lupi di mare benedetti dal poster incorniciato del Glentoran di Roy
Coyle, e magari, in sottofondo gira “And The Healing Has Begun” di Van
Morrison, nativo di queste parti e dichiaratamente sostenitore della
causa dei “Cock and Hens”. Ah, nessun incerottato aneddoto, il galletto
simbolo del club nato nel 1882 era semplicemente il sigillo di famiglia
del suo primo presidente Victor Coates. Del resto appare poco complessa
anche la storia dei colori, finiti con l’essere mutuati da una squadra
di rugby di Dublino venuta qui in tournée. Abbiamo parlato di mare
eppure è il fiume Connswater ad accarezzare il gradiente dell’Oval, lo
stadio, scarnificato e asimmetrico del Glentoran, tondo, come il rumore
della bomba sganciata nel 1941 da un bombardiere tedesco che costrinse
la squadra ad emigrare per otto anni perché in mezzo al terreno si formò
un cratere che pareva voler risucchiare tutto il pianeta dei Glens.
L’Oval scricchiola e crepita, ma resta ancora al suo posto, un estratto
d’acciaio e gradinate di cemento con due stand coperte a imperlare di
sudore e passione i restanti, modesti, settori scoperti con la loro
personale dose di agopuntura fatta di crushbarriers dal sapore
d’arsenico e vecchi merletti. Il Glentoran è legato all'ambiente più
operaio e proletario della città e sebbene il nemico dichiarato si
chiami Linfield e la rivalità non solo sia solo sentita ma spesso
violenta e instabile si tratta esclusivamente di una picca sportiva e
non a sfondo settario come invece lo era quella fra Linfield e lo
scomparso (in circostanze cruente..) Belfast Celtic. Il Glentoran resta
club ruotato su orbite a maggioranza protestante al punto che un giorno
un tale David McIllen, di professione reverendo, portò diatribe da Venerdì Santo,
(l’anatema di un sacerdote di Limerick, o se volete Dio che tifa
Linfield) recando scompiglio, minacciando i tifosi che non avrebbero
seguito il suo sermone nella vicina chiesa Presbiteriana. Ma cosa volete
il religioso capitò nel momento più sbagliato visto che quel
fine settimana (era l’aprile 2005) Chris Morgan segnò al novantesimo la
rete del 2-1 contro il Linfield a Windsor Park nella semifinale della
coppa nazionale poi portata a casa. E fu evento a dir poco celebrato,
considerato che ogni anno da quel giorno il club di East Belfast, non
manca di ricordare gli eroi di quella partita iconica fra i cosiddetti
“Big Two”. Una sfida scandita dal calendario ogni 26 dicembre cascasse
il mondo. Va da se che il Glentoran o "Cluain Teorann" in gaelico (prato
di confine) ha almeno un altro match riposto nell’album dei ricordi e
fra le chincaglierie annesse sbuca un primato piuttosto odiato. Successe
che nella Coppa dei Campioni del 1967 quella conclusa a Wembley con il
successo del Manchester United fra gli abbracci commossi di Bobby
Charlton e Matt Busby, la finalista sconfitta, ossia il Benfica, venne
sorteggiata al primo turno proprio contro il Glentoran. Ok, c'erano una
manciata di nomi nella squadra di casa che avevano o avrebbero giocato
un calcio più retribuito attraversando il Mare d'Irlanda, per esempio il
centrocampista Tommy Jackson, il terzino Arthur Stewart, oltre al
player manager John Colrain ex Celtic. Il resto della compagnia dei
galletti non giocò mai a calcio se non part-time e alcuni sempre fra le
lamiere e gli sdruciti banner rosso verdi e neri del Glentoran.
Complicato avere ragione di Eusebio, Simoes e Coluna. Ad ogni modo quando
l’impiegato postale Tommy Morrow cadde in area e l’arbitro assegnò un
rigore al Glentoran realizzato da Colrain, un rapimento estatico rapì i
40000 presenti, facendo partire un applauso quasi senza soluzione di
continuità, almeno così riportano le cronache innegabilmente troppo
agiografiche del Belfast Telegraph, che non s’interruppe nemmeno dopo il
pareggio della perla nera. A Lisbona, nel catino vertiginoso del Da
Luz, i glens fecero un altro figurone pareggiando 0-0 ma ecco l’arcano,
quella sarà la prima partita, terminata in doppia parità, legiferata dal
regolamento delle reti in trasferta e in tal modo, senza perdere, il
Glentoran uscì dalla Coppa. Dieci anni dopo un'altra grande arrivò
all’Oval, la Juventus, solo che stavolta la squadra capitanata da Alex
Robson dopo un promettente avvio condito dalla traversa di Johnny
Jamison dovette cedere ai bianconeri seppure Claudio Gentile pare abbia
avuto meno problemi con Zico e Maradona che con lo scatenato Rab
McCreery, basettoni, pantaloni a zampa d’elefante ed eloquente sentore
di zolfo. Nella galleria delle leggende compare il bizzarro portiere
Ezekiel Johnson, capace di comparire improvvisamente nell’area
avversaria per cercare la rete, o di compiere atti di vera e propria
follia calcistica, l’ala Tom Morrison, estroso corridore di fascia dal
carattere non esattamente accomodante, oppure Fred Roberts, strepitoso
bomber anteguerra che mise a referto 332 reti,
uno talmente bravo a colpire di testa da procurarsi una sorta di tonsura
benedettina in mezzo alla capigliatura pare provocata dal continuo
contatto con la palla che, va detto, non era il palloncino coloratissimo
da luna park odierno. Insomma il Glentoran è una ottima medicina contro
le Superleghe, appurato il fatto che il depauperamento emozionale del
calcio ha iniziato comunque a intaccare anche questi muri da diversi
anni. E seppure in Irlanda le avvisaglie sono diventate occasione
per alterchi beckettiani, in generale si tende a pensare che la tv a
pagamento ti dia la possibilità di avere di più dello sport che ti
interessa finendo per averne di meno, come poco burro spalmato sul
pane, ma citando Tolkien: "finché i più piccoli ci saranno, ci sarà sempre
una bella storia da raccontare".
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