lunedì 26 aprile 2021

LA QUESTIONE RUSSA




Pilade era un tipo canuto, magro, dal sorriso accorto, ma era stato un combattente, un militante e uno zio presente. Ti squadrava con i suoi occhi chiari, accentuando sul volto uno zigzagante cifrario di rughe accompagnato dal disincanto tipico degli anziani di una volta, che avevano visto tutto e il contrario di tutto al ritmo del destino. Lui a Mosca c’era stato. Due volte. In entrambe le occasioni al seguito delle celeberrime gite politico-culturali indette dalla locale sezione del Partito Comunista. Ci teneva a rimarcarlo, anche se nell’ultima occasione tornò perplesso poichè pareva che qualcosa stesse incominciando a sfaldarsi, lassù come quaggù. Nel giugno del 1988, in concomitanza con l’apertura degli europei di calcio in Germania, venne nominato segretario del PCI italiano Achille Occhetto, un torinese rapito emotivamente in adolescenza dai comizi di Umberto Terracini, portava un paio di occhiali spessi, un pinzetto da congresso emendato e una voce un po’ in falsetto. Nel frattempo Mikhail Gorbaciov aveva sostituito Konstantin Černenko a capo di un Unione Sovietica attraversata da una crisi senza precedenti. Durante la complessa segreteria di Occhetto iniziò un grande dibattito interno al partito sul rinnovamento, iniziando dal nome e dalla parola “comunista”. Eppure, nelle stanze del nostro Circolo ARCI tutto sembrava invariato, i tavolini in formica colorata, le sedie di plastica dura, i mazzi di carte da briscola disposti su un piccolo alloggiamento di legno sistemato nei pressi del bancone, le corse domenicali per accaparrarsi almeno uno dei due biliardi disponibili, il caffè corretto con la sambuca, il quadretto di Antonio Gramsci alla parete protetta da un tremendo cartone pressato, la saletta da lettura con l’Unità aperta su una pagina a caso, e infine nell’angolo controluce, il mobiletto rustico con la televisione a colori, che dopo la diretta dei funerali di Berlinguer, quasi a rimarcare la disillusione indotta dalla dipartita dell’amatissimo Enrico, veniva accesa soltanto per Novantesimo Minuto, i Mondiali di calcio, e qualche tappone di ciclismo, in un vorticare di fumo, qualche bestemmia di troppo insieme a gare di lancio degli incarti Sammontana nei cestini. Certo, schioccava anche il calciobalilla, (anzi il "biliardino", perchè balilla diciamo era termine bandito dal vocabolario) onestamente preda dei ragazzi, una palestra per muscoli, riflessi e fitto di contestazioni continue, al punto che venne stabilito un regolamento per evitare il minimo accenno di zuffa. Ecco, nei paesi toscani degli anni ottanta il mondo gravitava intorno al suo monolite ricreativo, ignaro che dopo quarant’anni tutto si stava per spezzare, per trasfigurarsi in qualcosa di non comprensibile ai più anziani, e quando l’Italia allenata da Azeglio Vicini conquistò le semifinali degli Europei, il giro di destino gli accoppiò beffardamente l’Unione Sovietica del pallone, quella griffata dalla scritta in cirillico CCCP sulle maglie, la falce e il martello cucite sul cuore, in un refolo di vento, dannatamente sciroccato dalla perestroika. Pilade, fu uno che ci aveva creduto. Alla Rivoluzione dico, lui e Sergio, un uomo dai tratti morbidi, puliti, sui settanta, serioso quanto basta, con la canottiera bianca fissa in nei lunghi pomeriggi d'estate e alla sera una camiciola leggera aperta sul davanti a non nascondere affatto una discreta pancetta esposta con totale noncuranza dello stile, poichè lo stile, diceva lui, è essere come siamo e non nasconderci dietro le mille ipocrite maschere di questa insensata società odierna dell’apparire. Loro stavano con Pietro Secchia, mica con Togliatti, e quando nemmeno dopo l’attentato “il migliore” non dette il via libera all’insurrezione armata, ebbero molto da ridire, poi malcelatamente delusi si adeguarono alle cose affinché le stesse andassero alla maniera disposta, e se Secchia, dopo la vana occupazione della prefettura milanese con la cosiddetta "Volante Rossa", si chiuse in un attico bolognese a dipingere quadri, Pilade e Sergio si consolarono con le bocce e con l’orto, perchè quando le stagioni facevano le stagioni, i carciofi ti arrivavano alle cintura, i pomodori spuntavano in quantità industriale e Maramao mica sarebbe morto per mancanza di insalata. La discussione, persino brusca, nacque intorno al bancone dopo il classico Campari mischiato alla dose esatta di vino bianco fermo o di un amaro Montenegro. Intanto giugno esplodeva di caldo, i tigli stampavano ombre lunghe sull'asfalto e qualcuno già se ne stava sotto l’ombrellone a Follonica oppure a Castiglione della Pescaia con la radiolina, appoggiata fra la Gazzetta dello Sport e la Lemonsoda, che elargiva a intervalli regolari la voce inconfondibile di Anna Oxa e quella profonda, spruzzata di partenopeo, di Massimo Ranieri fresco vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo con “Perdere l’Amore”. Il tema del contendere fu il seguente: Pilade e Sergio avrebbero tifato per la Russia, non c’era verso di convincerli sull'idea di patriottismo privo di socialismo o cose simili; sarà stata la nostalgia del fervore delle Internazionali perdute, di quando appendevano clandestinamente su muri le affissioni elettorali con l'insindacabile dicitura “Vota Comunista” (quelle col simbolo disegnato da Guttuso), o delle nottate trascorse nei boschi da partigiani durante la guerra con in tasca il libretto spiegazzato del “che fare” di Lenin e uno di preghiere con la "madonnina delle grazie" da indulgenza plenaria, ben nascosto all'interno degli stivali. Pilade e Sergio non avevano fatto una piega di fronte ai fatti d’Ungheria e di Praga, nemmeno si distanziarono dal cosiddetto dossier "Mitrokhin". Un affaruccio da circa ventitré milioni di dollari, corrisposti nel giardino della villa dell'ambasciata dell'URSS a Roma nelle mani di Anelito Barontini, funzionario del partito e uomo di fiducia di Armando Cossutta che sovraintendeva al flusso finanziario. E poi oh, nel 1976 il PCI raggiunse il suo massimo storico elettorale, roba grossa, un mezzo prodigio, risfiorato nel 1984 dopo la morte di Berlinguer in quell'atmosfera sospesa dalle lacrime, dai pugni chiusi, dai due milioni di persone arrivate in Piazza San Giovanni con le bandiere e i labari di sezione, che ispirarono il “Dolce Enrico” di Antonello Venditti. Chiaro, ai due, apparentemnte duri e puri, Berlinguer appariva uomo leale ma pure un mezzo burocrate con la fissa dell’eurocomunismo, del famoso ombrello NATO, dal quale il PCI ricevette una serie di mazzate mica da ridere, una sequela di sconfitte politiche e di fallimentari trovate, dalla disastrosa gestione della lotta alla FIAT nell’autunno del 1980, alla micidiale sconfitta nel testardamente voluto referendum in difesa della scala mobile, alla improvvisa scoperta della questione morale. Di sicuro c’era che il comunismo italiano nel dopoguerra divenne il cinema neorealista, la Costituzione, gli operai di Sesto San Giovanni, le maestrine di Reggio Emilia, i braccianti uccisi dalla mafia, gli intellettuali tormentati con gli occhialini, i cineforum e le goderecce feste dell’Unità, mica le parate militari sulla Piazza Rossa. Va da sé che il cordone ombelicale con Mosca esisteva e di conseguenza il Partito cominciò a risentirne, a stare male, e la base peggio. Ma se l’Unione Sovietica di quell’ingrugnito, strambo, incartapecorito, allenatore ucraino da colbacco avesse vinto l’Europeo forse sull'onda del successo sportivo si poteva recuperare, forse c’era ancora una superficie disegnata, sia pure su deboli coordinate cartesiane, utile per ritrovare coesione e tessere fresche, e, a quel punto, la stella issata sul Cremlino sarebbe ritornata a brillare, decretando nuovamente il suo primato come fece Jurij Gagarin, quel giorno nello spazio. D'altro canto l’Unione Sovietica di Valery Lobanovsky aveva una visione per certi aspetti rivoluzionaria: “I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo”, scriveva Karl Marx nelle sue Tesi su Feuerbach. Il "calcio del futuro", del Colonnello, sbuffava nel becco bunsen da laboratorio, meno erboristico di quello olandese, ma altrettanto frizzante e veloce. Lobanovsky, che da ragazzo voleva fare l’idraulico, stabilì rapporti calcolati con il gruppo della nazionale, vedendo nel suo approccio distaccato, efficienza e pragmatismo utili a incutere il massimo rispetto da parte dello spogliatoio e, in definitiva, appariva l’aspetto più importante per lui. Una zona a tutto campo libera dalla schiavitù dei ruoli, permissiva nelle sortite offensive delegate a difensori efficaci, uniti a ottimi ripiegamenti degli uomini d’attacco al momento del bisogno. Un moto perpetuo che rese l’URSS la migliore formazione della prima fase del Mondiale 1986, forse la più seria candidata al titolo, più della Germania Ovest, dell’Argentina, troppo dipendente da Maradona, e della Francia di Platini incostante negli appuntamenti importanti. I nomi di quella squadra (in un travaso fisiologico con la Dinamo Kiev) iniziavano a diventare familiari, perché da oltre cortina filtravano voci insistenti sulla possibilità di mandarli a giocare all’estero. L’icona Rinat Dasaev fra i pali, Protassov, Zavarov, Belanov, Alejnikov, Litovchenko e il sontuoso regista difensivo Kuznetsov. I sovietici in Germania furono addirittura lasciati liberi di parlare e sembravano sinceramente contenti della politica della trasparenza di Gorbaciov. L’ufficio stampa faceva filtrare di buon grado notizie sugli hobby e le abitudini dei pomeriggi in ritiro, trascorsi a guardare videoclip di Michael Jackson sulla televisione tedesca. E così persino Sergio e Pilade scoprirono che Alexander Zavarov era un appassionato di scacchi e pensa te, ascoltava i "Ricchi e Poveri", mentre Belanov preferiva Adriano Celentano. La sera della partita in diretta rigorosa su RAI 1 con il commento strascicato di Bruno Pizzul da Cormons, al Circolo Arci si creò un effetto stranissimo da piccolo teatrino di provincia con la maggioranza intenta a cantare l’Inno di Mameli e la corrente minoritaria, capeggiata dai due pro-URSS, divisi dal resto dei presenti da un paio di quei tavolinetti bassi, superflui, che andavano tanto di moda in quei bizzarri anni ottanta da bere, un po’ paninari, un pochino da tempo delle mele, parecchio da inflazione ma chi se ne fregava. A Stoccarda l’Italia cedette il passo ai più esperti russi. A cavallo dell’ora di gioco Litovchenko infilerà Zenga e gli azzurri non ebbero nemmeno il tempo di metabolizzare il colpo che giunse inesorabile il raddoppio griffato Protasov. La polemica al Circolo finì a notte fonda, ben oltre l’orario di chiusura decretato da Statuto alla mezzanotte. Per carità, ci penserà l’Olanda a tirare giù il muro di Berlino, a chiudere il Circolo e il secolo breve, e ogni ideologia, di sinistra o di destra, tentò di arrampicarsi come onirica edera su macerie sbreccate. Ogni tanto Pilade e Sergio vado a trovarli al cimitero. Duri sì, ma c’era pure molta avanguardia, tanta sana commedia all’italiana, tanto Peppone e Don Camillo, e infatti, neanche tanto di nascosto, il prete del paese si vedeva recapitare in sagrestia qualche lepre e qualche bel sacchetto di baccelli e di formaggio. E ben sapeva chi era stato a metterglieli di volata sotto il quadretto di San Lorenzo in graticola, e alle esequie, in due puntuali pomeriggi grigi di pioggia, lui era più commosso del compagno issante il vecchio gagliardetto della sezione, perché nei piccoli paesi, in fondo, eravamo amici a prescindere e il sacro sempre, si sposava con il profano, nonostante le apparenze e le distanze dovute dalla rispettiva coccarda.

 

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