sabato 8 maggio 2021

TANTO SI VINCE, NO?



Tanto si vince, no? La riunione in redazione è finita. Cosimo pedala verso casa nel tepore della prima mattina di metà maggio, supera il mercato centrale, il suo cortile di cartacce e liquami, s’infila in San Lorenzo, attraversa una Piazza fitta di uomini agitati che trascinano carretti avvolti in teli di plastica verde, sono i proprietari dei banchi del mercatino che iniziano a prepararsi per la giornata. Cosimo macina strade, vicoli e passaggi e ripensa agli anni di militanza politica, dalla consulta ai collettivi delle superiori, a quelli di facoltà, ai giorni delle occupazioni. Trapassa via Faenza, la bici sfreccia e sferraglia sulla pavimentazione nuova, prende via dei Conti, salta sul marciapiede di via Tornabuoni, la bicicletta ha un tremito, sente allentarsi un pedale, prima o poi comincerà a perdere pezzi, pensa, mentre scorre sul camminamento ben lastricato. Via Tornabuoni è tutta un brillare di vetrine, di camice, di accessori, gemelli, scarpe di cuoio ocra su appositi podi, su dozzinali capitelli, su are laiche. Forse avrebbe fatto meglio a continuare con la politica? La politica come mezzo e non come fine? Erano passati oltre 10 anni. Adesso si ritrovava a fare il giornalista per La Nazione, in genere cronaca cittadina, che poi in quel momento non era tanto male, c’erano i casi del “mostro” e in febbraio, durante una conferenza sindacale, Luigi Scricciolo, membro del Comitato centrale della Uil, era stato arrestato per le pesanti parole rivoltagli da parte di un pentito di appartenenza alle Brigate Rosse che lo accusava di spionaggio a favore della Bulgaria. Ecco, vedete, meglio lasciar stare la politica attiva, soprattutto quella extraparlamentare, al limite alle prossime elezioni pensò seriamente di votare radicale facendo una bella crocetta su Marco Pannella e vai col valzer dei diritti. Alla “Nazione” almeno a fine mese due lire in tasca gliele facevano cascare sicure e pulite. Si alza dal sellino, Cosimo, si prepara a spingere per affrontare la cunetta del ponte di Santa Trinita, la statua di Primavera si staglia netta, già immagina la festa, e non riesce a credere al silenzio di quel momento sui Lungarni, su Ponte Vecchio. Osserva le mensole, le persiane, le tinte, il corridoio Vasariano, le finestrelle, i fregi, osserva l’acqua dell' Arno scorrere mogia, osserva il Campanile, la Cupola, il lanternone, osserva Firenze, anzi no, la ascolta, perché domani, ebbè, domani, questa città potrebbe essere travolta, ribaltata su se stessa, in una cacofonia di trombette e cori, in un accendersi di bandiere ed enormi cartoni tricolori a forma di scudetto al punto da renderla irriconoscibile. Si ricordava bene della festa del 1969, ma questa volta tutti avevano la sensazione di un esplosione maggiore, più completa e più affamata di baldoria, perché gli anni settanta non erano stati poi così felici per la Viola nonostante una Coppa Italia. Si era rischiato pure di retrocedere, ma adesso sembrava essere vicini al successo più ambito, seppure il testa a testa con la Juventus non era affatto concluso, domani noi a Cagliari loro a Catanzaro, a pari punti sarà spareggio. In quel 1982 zeppo di Baglioni e di Albano e Romina, Cosimo è un uomo di quarant’anni, con il naso grosso, ciclista quanto basta per provare ad evitare la pancetta, comincia a ingrigirsi sulle tempie, e da quando ha comprato un borsalino di lana per l’inverno, in redazione gli dicono che assomiglia al Perozzi di “Amici Miei”. Adesso abita nei pressi di Via Beccheria al secondo piano di una palazzina sfumata dai colori chiari, ha avuto qualche storia con donne complicate- dice lui-, o forse era lui stesso a pretendere troppo, va da se che per adesso non si è mai voluto sposare per la disperazione di mamma Irma e anche di babbo Gino, pensionato delle ferrovie, però quelle due volte la settimana che va a trovarli gli preparano sempre una sorta di pranzo di Natale e la "schiacciata" da portare via. Ha trovato un appartamentino abbastanza confortevole, sul tavolino del soggiorno ha sistemato la sua Olivetti lettera 22 insieme a una discreta catasta di fogli e libri vari, tutti con piccoli o grandi orecchi agonizzanti su pagine sparse. Qui scrive molti dei pezzi che poi porta al giornale, qui sta per scrivere in anticipo sui tempi quello che succederà domani, così – crede- basterà aggiungere solo il risultato e i marcatori e alé, pronti. Perché domani lui vuole fare festa con gli altri. Sulla parete sopra al divanetto damascato vigila un poster di Giancarlo Antognoni mentre dalle gambe del bracciolo spunta un posacenere un po’ bizantino dal gambo sottile, in vetro, quasi a ridosso dell’impianto stereo e della sua collezione di dischi dei Rolling Stones. C’è pure l’ultimo album, Tattoo You, e lui poche storie andrà al concerto di Torino il prossimo 11 luglio, toh, sarà la sera della finale della Coppa del Mondo, ma mica gli azzurri ci arrivano in finale, stiamo scherzando. Cosimo si accende una Muratti, impregna la stanza di fumo, comincia a rimuginare sul pezzo, dovrà essere qualcosa di sociale, un minimo di antropologia locale, perché le pagine sportive non sono di sua competenza, tuttavia è inevitabile spelacchiare sui protagonisti di quello scudetto. Tanto si vince no? No, perché se non si vince qui bisogna trovare un alternativa, un secco elogio funebre, qualcosa da lacrima e rimpianto. No, no, si vince. Alla TV danno una replica di “Fantastico”, c’è Claudio Cecchetto, Heather Parisi, Memo Remigi, Gigi Sabani, e Walter Chiari, la verità è che siamo il popolo del varietà, altro che anarchia, rivoluzioni e reazioni, è solo la brezza della gioventù che ti fa bollire idee e pulsioni, poi il tempo sistema tutto, o quasi. Dunque Firenze. Per lui Firenze restava quella dei Guelfi e dei Ghibellini, angusta, buia, con le case l’una addossata alle altre, con i ponticelli a collegare lo stesso caseggiato da un vicolo all’altro, non certo la città delle sfolgoranti prospettive architettoniche rinascimentali. E il carattere dei fiorentini era rimasto quello, mica quello mediceo, nonostante lui si chiamasse Cosimo ma il nome glielo avevano messo perché suo nonno paterno, artigliere sul Piave, si chiamava così non certo per tributo al Duca. Ora, va detto che la Fiorentina dei Pontello, raggomitolata negli uffici liberty di Piazza Girolamo Savonarola, aveva allestito una squadra di tutto rispetto per la stagione 1981-82, consegnandola nelle mani di Picchio De Sisti ( che aveva sostituito l'anno precedente a metà stagione Beppe Carosi) con malcelate ambizioni. Arrivarono Cuccureddu, Vierchowod, Pecci e Graziani a puntellare la base che comprendeva Galli, Galbiati, Antognoni e Bertoni. La corsa con la Juve è stata durissima, De Sisti ha dovuto fare a meno per mesi di Antognoni, gravemente infortunato in uno scontro con il portiere genoano Martina, tuttavia sostituito egregiamente da Miani. Gli scontri diretti erano entrambi terminati a reti bianche. E quindi eccoci alla giornata numero 30: Fiorentina e Juventus in vetta con 44 punti. Entrambe impegnate in trasferta. Ma la Fiorentina aveva obiettivamente il compito più arduo, impegnata a Cagliari contro una squadra alla ricerca di un punto decisivo per la salvezza. I rivali bianconeri dovevano invece recarsi in casa del Catanzaro già tranquillo. Tanto si vince no? Eh, vediamo. Le prime battute sulla Olivetti iniziano a scoppiettare sul foglio vergine: “la città è una fiumana di gente, si cammina senza camminare, trasportati da una gioia infantile e priva di gravità...”. Tanto si vince no?  A dirla tutta si alzò una vocina da portinaia, una chiacchera, una diffidenza, pepata al punto giusto come la trippa di Ponte di Mezzo. Durante la puntata dell’ultimo Processo del Lunedì venne annunciato il prossimo arrivo in bianconero di Michel Platini. La trasmissione faceva dieci milioni di telespettatori ed era la massima tribuna calcistica possibile. I presenti in studio erano tutti d’accordo: La Juventus ha preso l’asso che le permetterà finalmente di vincere la sua prima Coppa dei Campioni. Un momento, la classifica parlava chiaro: il campionato non era concluso, c’erano appaiate da mesi la Fiorentina e la squadra di Trapattoni, com’è possibile che Platini vinca il trofeo continentale se non è assolutamente detto che ci partecipi? E questo fu un indizio. Ma tanto si vince no? Cosimo spense la sigaretta e cominciò a pensare al secondo dubbio, un segnale arrivato al momento delle designazioni arbitrali. Tutti si aspettavano che a Cagliari e Catanzaro venissero mandati i due migliori fischietti del momento, Casarin e Agnolin. Vennero invece designati abbastanza a sorpresa Pieri per la Calabria e Mattei per la Sardegna. Scelte quantomeno curiose. Terzo elemento, (e qui Agatha Christie avrebbe sicuramente decretato il colpevole del giallo per bocca di Poirot) l’eventuale spareggio. Una prospettiva che faceva paura in particolar modo a Enzo Bearzot e alla Federazione che stava raccogliendo i cocci post calcio-scommesse confidando in un Mondiale senza ritardi sulla tabella di marcia e da indulgenza plenaria. E come fai a prepararti al meglio se una serie di titolari importanti ti arrivano stremati dopo una partita che vale lo scudetto? Cosimo rinuncia a scrivere, tanto si vince…? ora qualcosina lo induceva a riflettere, ad aspettare la sentenza reale data dai campi da gioco. Domenica 16 maggio, fa caldissimo. Cosimo fu svegliato dal clacson di una macchina, apre la persiana e vede un paio di ragazzi dentro una 127 con i finestrini aperti e una bandiera viola al vento andare probabilmente verso uno dei tanti punti di ritrovo, bar in genere, per ascoltare nel pomeriggio tutto il calcio minuto per minuto alla radio. Oddio, tanto si vince, no? Cosimo si fece la barba, si vestì e uscì fuori nell’aria tersa, ed ebbe la brutta impressione che l’età dell’innocenza della Firenze calcistica fosse finita quel giorno, diventando improvvisamente adulta, conscia degli intrighi di palazzo, abbruttita da una rete annullata chissà perché a Graziani e del solito rigorino pro Juve realizzato da un Brady in partenza, e hai un bel dire “meglio secondi che ladri”, uno sfregio così non lo dimentichi più. E infatti se ne parla ancora oggi con lo stesso dolore. Cosimo aggrottò la fronte, si passò una mano fra i capelli, decise di lasciare la pagina bianca, un segno di protesta, gli parve intellettualmente la cosa più corretta da fare, il direttore approvò, e allora prese su per Via del Canneto, uno dei luoghi più belli e intimi della città, per andare dalle parti di San Niccolò, strade che mettono pace, perché tanto non si vince, non si vince mai.

 

NO ONE LIKES US..


“[...] Il mercoledì successivo giocavamo contro il Millwall al Den. Dei Lions si può dire quel che si vuole, ma di sicuro avevano un bel seguito a livello locale. In quasi tutte le città e le aree urbane d’Inghilterra ci si aspetta di vedere in giro ragazzi che indossano svariate maglie con i colori delle diverse squadre, con una certa prevalenza del club del posto. A Bermonsdey e in Old Kent Road non si vedono altro che maglie del Millwall. Prova evidente che la squadra è seguitissima dalla comunità locale. E che la paura fa novanta. Una volta – ci eravamo trasferiti da poco nella zona sud-est di Londra – stavo camminando lungo Leathermarket Street. C’era un bambino seduto sul muretto. Avrà avuto otto anni e portava una maglia del Millwall. Quando arrivai alla sua altezza mi fece: “Ehi, capo. Per che squadra tieni?”. “Per il Middlesbrough” risposi io, bello spavaldo. Era un piccoletto, di sicuro ce l’avrei fatta a evitarlo. Proseguii e quando l’ebbi superato di qualche metro lo sentii cantare: “Vai a firmare, vai a firmare, barbone. Tanto c’avete solo la disoccupazione”. Stupefatto, mi voltai. Quando vide che lo stavo guardando, il bambino si mise una mano in tasca e tirò fuori una monetina. Poi mi gridò: “Eccoti 10 pence, comprati una casa”. Non cito la fonte per maldestra dimenticanza. Ma insomma: “No one likes us, no one likes us, no one likes us, We don't care/ We are Millwall, super Millwall, We are Millwall from The Den”. Ho provato a mulinare intorno a questa asserzione ma non ci sono riuscito perché questa locuzione è la particella di Dio, il bosone di Higgs, perché se una delle domande principali che la fisica moderna si pone è quella da dove nasce la massa, la stessa cosa possiamo assumerla per tracciare i contorni del fenomeno MIllwall. Non ci sono austere lavagne d’Università, tantomeno prodigiosi computer su cui collocarla, nel profondo, scuoiato, cementificato  su est londinese dove rimonta l’eco dell’ansa del Tamigi, questa frase la trovi scritta sui muri anneriti di New Cross, sotto i ponti di South Bermonsdey, e nasce come urlo di culto, riecheggiando dagli spalti del Den con la sua forza primordiale di eco identitario, vibrando come un suono antico che stemperandosi nell’aria rarefatta accumuna l'odore dei docks, degli sfasciacarrozze, delle officine, dei depositi di gomme, e, soprattutto, la certezza di una vita: essere Millwall. Oh, Esattamente una squadra non la località. Il Millwall nasce più a nord di dove risiede attualmente. Nel 1885 vede la luce sulla Isle of Dogs, fondato da lavoratori scozzesi di una fabbrica di marmellata, La C&E Morton’s, creata da un certo James Thomas Morton ad Aberdeen nel 1849, per rifornire le navi di generi alimentari. Il blu come colore in onore della Scozia, terra d'origine. Dockers, diranno subito, Lions, grideranno alla fine del cammino nella F.A. Cup del 1900 dove la squadra fu eliminata solamente in semifinale dopo aver estromesso dalla competizione formazioni ben più blasonate, tanto da meritarsi l’accostamento con il felino. Il Millwall poi migrerà, anche se migrazione in questo caso assume toni un po’ troppo enfatici, decisamente più da passeggiata, visto che lo spostamento si poteva misurare arrangiandosi con un buon metro da sarta; insomma, qualche centinaia di metri in linea d'aria. Qui scelsero un appezzamento di terreno, stipato tra gli angoli delle case, fra un intreccio di linee ferroviarie, angusti capannoni e vicoli bui. Era il 1910, e spuntava la sagoma ossuta del vecchio "Den", firmato Archibald Leitch e inaugurato il 22 ottobre alla presenza del presidente della FA Arthur Kinnaird. Raro, trovare una squadra così legata al proprio quartiere d'appartenenza. E quando l’amministrazione della tua zona vuole occuparsi del bene del tuo club allora parve davvero che il cerchio si accenda di fiamme e il leone, superbo, ci salti dentro varcando una sorta di futuro che potesse riservare emozioni nuove, diverse, non solo nell’adrenalina di una scazzottata o di una pinta di al Lord Nelson. Successe nel 1987. il Millwall annunciò un accordo di sponsorizzazione di quattro stagioni con il Borough di Lewisham del valore annuo di 70000 sterline circa. David Sullivan, presidente del Consiglio comunale, si disse non solo orgoglioso di questa scelta ma anche convinto che ciò potesse migliorare la reputazione del luogo e diminuire le problematiche annesse alla frangia più accesa della tifoseria. A corredo dell’operazione, la benemerita proposta di regalare per ogni singola partita a venire 100 biglietti da dividere fra anziani e portatori di handicap. Non troppo convinto dell’intervento, si mostrò il leader locale del partito conservatore David Green, convinto assertore che tutti questi soldi erano uno spreco di risorse che non avrebbero risolto i problemi del posto. Tuttavia, cose volete, le speranze dei tifosi dei Lions di porre fine a 100 lunghi anni di attesa per una promozione in Prima Divisione, si dimostrarono argomento ben più convincente delle rare proteste. Il Millwall ai nastri di partenza del campionato di Seconda Divisione 1987/88 era allenato da John Docherty, toh, scozzese, ottimo suonatore di cornamusa a tre bocche, nato sotto le bombe del 1940. La svolta si nascondeva dietro il recesso, non quello fosco del Cold Blow Lane, ma in quello meno pericoloso delle trattative di mercato. Al Den si mosse artiglieria pesante. Per 85000 sterline arriverà dal Portsmouth il centrocampista irlandese Kevin O’Callaghan, dal Gillingham, Tony Cascarino anch'egli irlandese con frammenti italiani, 190 centimetri inizialmente avviati verso la professione di parrucchiere e istruttore di yoga part-time, poi entrò nel settore giovanile dei Gills nel 1982, proveniente dal Crockenhill, in cambio di alcune tute da ginnastica e di ferri da stiro semirovinati. Con loro, George Lawrence dal Southampton, che forse aveva giocato una delle migliori stagioni di sempre in riva alla Manica ma sul quale i dirigenti dei Saints stavano cercando l’affare economico visto che in scuderia al “Dell” ormai stavano scalpitando Matt Le Tissier e Alan Shearer. Le 160000 sterline dell’assegno di Reg Burr, presidente del Millwall, dissiparono ogni dubbio in proposito. Le altre pedine dello scacchiere di Docherty, erano Les Briley capitano e idolo grazie al suo stile coriaceo di centrocampista, in coppia con l’altra icona della linea mediana ossia Terry Hurlock detto “Gypo”, cespuglio di capelli ricci e orecchino d’oro, mancava la benda all’occhio ma sarebbe stato perfettamente a suo agio sulla prua di una nave pirata. Tutta gente da Millwall insomma. Concreti e con pochi fronzoli. Non solo. Là davanti zampettava istrionico un biondino di 22 anni, cresciuto dalle parti di Highams Park, che tanto aveva impressionato un osservatore del Millwall quando giocava per i dilettanti del Leytonstone & Ilford, e che a 15 anni era stato portato al Den: Teddy Sheringham, assoluto predatore della superficie racchiusa tra i lati di un rettangolo. In pochi dubitarono che quel Millwall non vincesse. Forse solamente il numero dei goal subiti rispetto alle altre dirette pretendenti poteva alimentare qualche dubbio. Ma la porta difesa da Brian Horne tenne sufficientemente bene. Il timbro sulla festa fu raggiunto alla penultima giornata in casa dell’Hull City e dopo oltre un secolo il Millwall finalmente se la poteva giocare anche con le grandi in campionato. E siccome nessuno lo prese sul serio, Teddy Sheringham cominciò a segnare sempre dentro la scatoletta del Den; segnò pure un giorno del 1988 quando il Millwall si prese troppo sul serio andando in testa alla classifica della Prima Divisione e il gommista all’angolo dello stadio cadde svenuto dopo aver bevuto 5 litri di birra.

“No one likes us, no one likes us, no one likes us, We don't care/ We are Millwall, super Millwall, We are Millwall from The Den”..

 



 

martedì 4 maggio 2021

A RIGHT BUNCH OF DICKS


Vi ricordate il libro di Rodge Glass, quello che voleva la “testa” di Ryan Giggs? C’era una frase topica, diceva che nel calcio finisce male per tutti, con l’unica differenza di quanto tempo impiega ciascuno di noi ad arrivare a una sorta di giudizio, e, in quel caso, decidere se si vuole aspettare la cassazione o trasformarlo in un nuovo inizio. “Our kid” dicono a Manchester, fratello, qui piove sempre, allora possiamo fare due cose: giocare a calcio nel fango o metterci a suonare e in entrambi i casi ci si sporca perché pure le note imbrattano i muri rossicci e riempiono le fabbriche che incominciano a svuotarsi e quegli enormi spazi dalle grandi finestre, un tempo pullulanti di lavoratori, ora deserti, tristi, accolgono MadChester, una sorta di grande madre esoterica, perché è vero sono un po’ svitati i mancunians, si calano qualche ecstasy di troppo, ma cazzo, questa era una delle poche maniere per estrarre ancora linfa da una foglia morta. E’ un nugolo di delinquenti titolano i giornali conservatori (avremo libertà di stampa solo quando ci libereremo dalla stampa..), ma per la miseria sono giovani, i capelli lunghi, una merda di sussidio, e se non sputi un pochino sulle buone maniere non hai vent'anni neanche se te lo dice il sudaticcio impiegato dell'ufficio anagrafe. Si prenderanno la scena, i palchi, bei pacchi di sterline da spendere in statue bizantine e narghilè, ed è affare complicato metterli in una fila ordinata, non ci stanno, allora abbozziamo, anche perché non gradirebbero una cronologia da pentateuco: New Order, Joy Divison, Stone Roses, Inspiral Carpets. Tutta roba scartabellata da anni di "working class heroes", autentico spirito guida di questa città così fortemente votata a una delle squadre di calcio più titolate al mondo che ha partorito i Busby Babes, passando attraverso Bobby Charlton e George Best sino ad arrivare ad Alex Ferguson ed alla sua nidiata che insegue il peschereccio di Cantona. La squadra della "Lancashire and Yorkshire Railway" diventata in seguito Manchester United (l'ex gialloverde Newton Heath) che giocava le sue partite contro gli altri dipartimenti delle compagnie ferroviarie. Oh, poi nel 2005 si rompe qualcosa, la linea guida, il filo conduttore, l'elastico delle mutandine. L'acquisizione del club da parte dell'americano Malcom Glazer sarà la cuspide su cui non sedersi più, eppure quanto è bello l’Old Trafford con quei sessantamila seggiolini rossi, in quei pomeriggi umidi d’autunno quando i cori si mischiano con i vapori e il cielo staglia un arcobaleno sopra le incipienti brughiere. Già, la Premier aveva sniffato fin troppo denaro, le partite spostate con breve preavviso per la TV con nessuna considerazione per quei tifosi che avevano organizzato, che so, una trasferta a Southampton o un fine settimana a Brighton. Molte persone sono state costrette ad allontanarsi a causa dei costi crescenti, altre hanno scoperto sgomente che lo stadio era divenuto un contenitore senz'anima totalmente privo di atmosfera. Un sacco di ragioni per cui il football non si palesava più seducente, costringendoli alla solitudine, incappucciati come tanti monaci nell’ora solenne della Compieta. Un malcontento totalmente ignorato dalla proprietà. Qualcuno disse che poteva bastare, era abbastanza, addio vecchio caro Man Utd, non ti scorderemo ma vogliamo fondare un club diverso, nel registro e nell'etimo, un club nostro, un club con uno statuto spalmato su setti punti, antitesi dei peccati capitali del calcio moderno: 1. Il Consiglio sarà eletto democraticamente dai suoi membri. 2. Le decisioni sono decise sulla base di un membro uguale un voto. 3. Il club deve sviluppare forti legami con la comunità locale sforzandosi di essere accessibile a tutti, senza discriminare nessuno. 4. Il club si adopera per rendere i prezzi di ammissione il più convenienti possibile, per un collegio elettorale più ampio possibile. 5. Il club incoraggia la partecipazione giovanile e locale sostenendola quando possibile. 6. Il Consiglio si adopera, ove possibile, per evitare una "commercializzazione" della squadra. 7. Il club rimarrà un'organizzazione senza scopo di lucro. Eccola la squadra dei ribelli, eccolo il FC United of Manchester, data di nascita 12 maggio 2005, un giovedì. Finalmente si sarebbe potuto tornare a dire “abbiamo vinto” oppure “abbiamo perso” poiché è in quel pronome personale che si nasconde il nuovo diavolo rosso, senza più le corna e il forcone ma con solamente il veliero che taglia le acque limacciose dello Ship Canal. Perché i tifosi dell'FC United possono dire davvero “noi” dal momento che possiedono interamente il club. E attenzione, anche gli stessi giocatori sono soci e naturalmente possono, anzi devono, sentirsi parte integrante della squadra, della comunità. “A Right Bunch of Dicks”, gli sbeffeggiarono coloro che non avevano accolto con favore la diaspora. Ma cosa volete, imperturbabili, su questa offesa ci hanno giocato, di più l'hanno fatta diventare un motto, un battuta per identificarsi e identificare in tono goliardico, alla stregua di quando cantavano “He sells asparagus” celebrando il passato del manager Karl Marginson, garzone in un negozio di frutta e verdura. L’abbonamento è una figata: “Paga quanto puoi permetterti con il tuo portafoglio”, vediamo dove sistemarti. Tradotto in soldoni al massimo si arriva al prezzo artificioso di 150 sterline per 21 partite casalinghe. Reazione donchisciottesca, guevariana, al potere della Premier League che si è dimenticata in fretta di quando il pallone era lo sport del popolo, quando gruppi di amici di qualunque classe sociale potevano farsi una pinta il sabato della partita e stare insieme, quando, soprattutto, una famiglia intera poteva permettersi di andare allo stadio. Broadhurst Park è stato il paradigma di 10 anni di raccolta fondi, un sogno, archetipo rettangolare, una scatolina calorosa dai tettucci bassi incastonata a “prossima fermata Moston”, Lightbowne Road, ultimo anello della Greater Manchester, dove nessuno dimentica il passato, ma grazie al cielo, da sedici anni esiste un club da amare se ti senti tradito. "I'm on the top of the world”, "Sono in cima al mondo", cantavano, mutuando i Carpenters, guardando dall'alto in basso la loro creazione durante una partita a Rochdale, e l'unica spiegazione che possiamo trovare è l'amore che li accompagna perché vincere con il Rochdale è molto meglio che battere il Real Madrid. Bolle, isteria, delirio, anarchia.

 

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...