La piazza era ancora deserta,
ma il sole già lambiva i tetti cremisi di Lisbona, una brezza leggera che
sapeva di sale si attorcigliava sulle narici, una congettura di merletti in
pietra rendeva delicato e gradevole tutto il maestoso complesso di Praça do
Comércio. L'uomo dei giornali sfaccendava davanti alla sua edicola, poi mi fece segno di
avvicinarmi e mentre, lentamente, raggiungevo il suo chiosco lo vidi sorridere.
“Il Benfica ha superato il turno”,
disse raggiante, -"ha saputo?". Feci
segno di no, che non avevo saputo niente, e l'uomo allora aggiunse: "il ritorno della semifinale in notturna a Londra, la partita di
Coppa dei Campioni..". Comprai "A Bola" e scelsi una panchina
per sedermi. Stavo leggendo come si era svolta l'azione che aveva portato il
Benfica al goal contro il Tottenham quando sentii arrivare il Tram numero 28 che qui
non è un cifrato qualsiasi ma la linea tranviaria simbolo della città: il
tracciato attraversa tutto il centro e sembra essere stato studiato
espressamente sia per il turista sia per il locale. Partendo dal capolinea di
Prazeres, nella parte alta, oltre la Basilica della Estrela, il tram (o eléctrico)
scende verso la Baixa nella parte compresa tra "Rossio" e la piazza dove mi
trovo adesso, in seguito taglia le vie parallele e quindi si inerpica di nuovo verso il
quartiere di Alfama, passando davanti alla chiesa di Sant’Antonio. Ripiegai con
cura il quotidiano e salì sul mezzo color giallo canarino. Non avevo fatto colazione e mi venne voglia di bere
un caffè e di mangiarmi un paio di torradas alla pasticceria Suiça. Il tram
sferraglio agevolmente e si mise in movimento. Riaprì il giornale, c’erano
delle foto della partita. Il Benfica era nuovamente in finale della Coppa dei
Campioni dopo aver sofferto sul campo terribile di quegli inglesi reso un autentico
pantano a causa della pioggia, scrive l’inviato, ma nonostante le difficoltà ambientali,
la squadra allenata dal serioso ungherese d'origine ebraica Béla
Guttmann, che ritengo possieda ogni foggia di cappello, l’aveva spuntata pur
cedendo di misura. La vittoria per 3-1 ottenuta al Da Luz, un paio di settimane prima,
concedeva quindi al Benfica di andare a Amsterdam a giocarsi un'altra finale dopo il
successo della stagione precedente ottenuto sconfiggendo il Barcellona. Scesi alla fermata di Rua da Prata, e avvertì
il classico odore di sardine fritte, si percepiva un notevole entusiasmo per questo
successo sportivo, soprattutto tra i vicoli colorati di Alfama, il quartiere
popolare che da São Jorge digrada verso il serpeggiare placido del fiume Tago. Spiccavano tante bandiere del Benfica ai balconi, insieme agli umili panni stesi ad
asciugare. Nella pasticceria la radio gracchiò qualche notizia su delle
iniziative della giunta di Salazar, poi partì una nenia, oggettivamente più
rilassante, fatta di chitarre di Coimbra e mi venne in mente di andare più spesso
alle sue salutari Terme. Insegno musica e q uella sera avrei
dovuto tenere un piccola lezione all’Università, solo che la situazione politica
è complicata, pochi gironi fa la polizia ha dovuto disperdere una dimostrazione
di studenti che chiedevano il rilascio degli amici arrestati durante delle contestazioni. Tuttavia la vittoria del Benfica potrebbe aver calmato temporaneamente
gli animi e allora, beh ve la dico tutta, a me questa giunta non è mai piaciuta
ma con il Benfica qualcosa c’entro. Mi chiamo Paulino Gomes Junior, abito a Alcántara
che non sarebbe nemmeno uno dei quartieri della città, ma la gente del posto lo ha
sempre considerato tale. Si gode di un ottimo panorama anche
quando comincia a cadere quella tipica pioggia obliqua portata dall’Oceano. Lassù Lisbona non
si nasconde completamente, appare occidua, fatta solo di se stessa, assoluta,
ogni spazio dichiara la sua presenza seppure assomigli a un enorme fantasma avvolto
in un sudario che sai che è lì di fronte a te, dappertutto, perfino alle
spalle, come un mare che circonda il tuo piccolo faro, la mia, nostra, gracile vita. Nel 1953 decisi di comporre una canzone per la squadra, “Ser
Benfiquistas”, ed ebbe un successo inaspettato al punto da diventare l’inno
ufficiale cantato dal tenore Luis Picarra in un padiglione accanto allo stadio. Incominciai a pensarle tre anni prima quelle strofe, la sera del 3 maggio 1949, perché la
Lisbona Benfiquista stava facendo festa per un’amichevole. Già, che sarà mai un’amichevole
pensavo? Ma non si trattava di un’amichevole qualunque. Lo stadio schiumava di rosso, la folla inneggiava agli encarnados, ai campioni con
l’aquila sul petto, e al capitano di mille battaglie, Francisco Ferreira, che aveva
deciso di appendere le scarpe al chiodo e salutare nel migliore dei modi i suoi
tifosi sfidando la squadra più forte del mondo: il Torino. E lui poteva farlo,
perché Valentino Mazzola era suo amico e infatti non gli
negherà la cortesia. Ci furono strizzate d’occhio e pacche sulle spalle. Tuttavia, Francisco Ferreira resterà addolorato tutta la vita; il giorno seguente
l’aereo che riportava a casa gli avversari si schiantò contro una Basilica. In quel 1949 l’epopea del Benfica pareva ancora di là da venire, eppure quanto è strano il vento
che tira e sospira sopra le case di Lisbona. Forse in quella tragica giornata di maggio,
così calda da preannunciare l’estate ormai imminente, nascerà non solamente la
mistica del Toro ma anche quella che solo chi ha vissuto e amato il Benfica può
avvicinarsi a comprendere. D’altra parte ritengo l'inconscio roba da
borghesia viennese d'inizio secolo, qui siamo in Portogallo, e, volenti o
nolenti siamo roba del Sud, la civiltà greco-romana con qualcosina di celtico, non
abbiamo niente a che fare con la Mitteleuropa, scusate, noi abbiamo l'anima. E Béla
Guttmann lo riconoscerà. Quanti ungheresi nella storia del nostro club: Hertzka,
Biri e Guttmann. Il calcio imparato in riva al Danubio, tra le vie malinconiche
di Budapest. Un passato di lustrini asburgici, un presente di carri armati
sovietici parcheggiati agli angoli delle strade, un futuro che sa di oblio, di ricordo. Ad ogni maniera nel tepore della primavera del 1962 pareva ci fosse continuamente qualcosa da festeggiare: il Benfiquista aveva sempre di che gioire e adesso con l’arrivo di Eusebio, un giovane mozambicano
dalle possenti gambe d’ebano inizia a terrorizzare difese e infilare i portieri
avversari con estrema facilità. Eusebio ha una faccia da angelo nero, un cherubino, il suo piede destro è implacabile. Come Pelè. No,
Più di Pelé. Il Benfica, lo dicono i numeri, le presenze allo stadio, i giornali sportivi venduti, sta eguagliando il fascino e la
forza del Real Madrid, prossimi avversari. La finale del 1962 me la vidi nel
quartiere Chaido al caffè in stile Art Noveau tanto amato da Fernando Pessoa, “A
Brasiliera”, davanti a un acerba televisione appoggiata su uno scaffale di
liquori e davanti a un piatto
di baccalà. Certo, il Benfica mica era solo Eusebio. Non si può battere il Real Madrid
di Di Stefano, Puskas e Gento in quel buio umido di Amsterdam con il solo
Eusebio. C’era Mário Coluna, António Simões, Josè Aguas, e Domiciano Cavem.
Vinse il Benfica, vinse 5-3, in un'incontro rocambolesco e crudele, dove qualcosa stava
per cambiare, qualcosa di ineluttabile. La Cabbalah di Guttmann sarà Mishnah ruminante, stagione dopo stagione, una maledizione: “Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte
campione d’Europa e il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni”.
Da quel 1962 otto finali europee e nessun successo. Nemmeno quando sembrava
fatta, nemmeno quando a Vienna, nel 1990, Eusebio prima di Milan- Benfica al Prater andò da solo a pregare sulla tomba del suo allenatore. Nemmeno quando il contrario non sembrava possibile. Un anatema, e io
comunque non dovrei saperlo perché sostengo che durante una corta serata d’autunno, appoggiando
gli occhiali sul tavolo dello studio, mi sentì improvvisamente molto stanco e, sostengo, me
nè andai. Ma
tanto cosa credete facciano le persone in un cimitero? Dormono, dormono
uguale alle persone che non contarono niente. E tutti nella stessa posizione:
orizzontali. Perché l’eternità, o l’anima, è orizzontale non verticale. L'eternità è una strada infinita come quella intrapresa da ogni
“Benfiquistas” che si rispetti. Et pluribus Unum.
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