sabato 1 maggio 2021

ENRICO


Siena era cambiata da quel giorno del 1973 quando già da campione affermato si era infilato la canotta verde della Mens Sana con il numero 12. Se l’aspettava. Tutto era cambiato. Il mondo intero. Perfino lui. Certo, era invecchiato abbastanza bene, si era tenuto in forma con un minimo di attività fisica, solo in viso mostrava più anni di quanti in realtà ne avesse veramente. Colpa di una piega infelice che gli distorceva la bocca. L’aveva continuamente nascosta sotto quella barba da rivoluzionario errante, così alto, così magro, eppure, andando avanti, si cominciava a notare fin troppo bene. Era depresso Enrico, piegato da una malinconia strana che gli impediva di valutare obiettivamente la piega degli eventi e pensare alle conseguenze di un gesto che lo mise di fronte a un nugolo di spettri, abili nel girare feroci intorno a lui, e lui nel vederli avrebbe voluto mostrare ai giovani che il tempo lavora duro i fianchi degli uomini, laggiù, solo, dentro la sua Fiat 600 solcata da deboli rivoli di pioggia, parcheggiata alle pendici di un bosco, fra i rumori smorzati di animali, lo stormire delle foglie e il cigolio dei rami scossi da un vento maleducato di primavera. Un bosco fatto apposta per pregare, puntellato di antichi conventi, laddove si poteva percepire l’eco di esortazioni al bisbiglio di Laudes sillabate. Sul sedile del passeggero c’era un foglio di quaderno su cui Enrico aveva scritto le sue ultime volontà, e, accanto al foglio, sopra un plaid ripiegato in quattro, una Beretta calibro 3.75. Enrico Bovone ormai viveva a Siena, alla periferia sud della città, di questa città spesso diffidente e refrattaria, ma evidentemente così intrigante da amare quella luna che affoga ogni sera dietro il profilo gotico del Duomo. Siena lo aveva rapito al punto tale da decidere di restarci per sempre. Enrico Bovone è il ritratto di un giocatore fuori dalle righe, antitesi di schemi preordinati da fabbriche d'etichetta, non fosse altro perché mandava a quel paese un bel po’ di luoghi comuni sui campioni – o presunti tali – dello sport. Bovone rappresentava plasticamente uno di quei tipi che tutti frequentano per anni ma che tuttavia in realtà nessuno conosce veramente a fondo. E pare quasi strano a dirsi per un uomo di due metri e dieci, inconfondibile ombra di uno spicchio di piazza che poteva ambire a rivaleggiavare con la sua torre infinita e snella. L’impressione era quella di trovarsi davanti a una sorta di colosso invisibile, quantomeno tentato dal nascondersi, nonostante sia stato sotto le luci dei palasport rendendosi protagonista del basket italiano per oltre quindici anni. La sua è una storia senza lieto fine, una storia partita da Novi Ligure, in Piemonte, dove nacque nel 1946. Un ragazzo e un atleta problematico, di difficile collocazione. Arduo ogni tentativo di piazzarlo, quel lungagnone strampalato, che sorrideva di rado e poco di gusto, affatto portato ai teatrini, ai proclami, chiuso, rinserrato, in una bolla d’aria perennemente annoiata. Eppure, ripeto, Bovone ha marcato un’epoca, fosse solo per il fatto di essere stato il primo pivot moderno della nostra pallacanestro amabilmente raccontata da Aldo Giordani che ebbe il guizzo giornalistico di definirlo il “Gigantissimo” in un assonanza goliardica con il titolo della sua rivista. Bovone appariva un tranquillo studente quattordicenne che tale Nico Messina, insegnante di educazione fisica, scoprì indirizzandolo al basket, destinazione Tortona, in cui restò al centro di una singolare sfida automobilistica tra i dirigenti di Simmenthal Milano e della Ignis Varese, accorsi alla svelta per accaparrarsi la brillante promessa. Le narrazioni riferiscono che Cesare Rubini rimase bloccato in un ingorgo autostradale e così Bovone finì a Varese dove vinse una Coppa delle Coppe nel 1967. Enrico Bovone pareva davvero destinato a diventare il giocatore faro anche della nazionale, il leader, l’uomo simbolo di un movimento sportivo ormai esploso alla pari dei Beatles e dei Rolling Stones. Invece Bovone si limitò al compitino senza mai assurgere a quel fenomeno che molti auspicavano, seppure dal punto di vista tecnico migliorò notevolmente con il passare delle stagioni, costruendosi un movimento tutto suo, un gancio sotto canestro di singolare bellezza e precisione. Dopo Varese, il passaggio a Milano, sponda "All’Onestà", poi Udine dove nella stagione 1971-72 risulterà il miglior marcatore e rimbalzista del campionato. E nel 1973 l’approdo a Siena nella “Sapori” Mens Sana guidata in panchina dal totem Ezio Cardaioli, per formare con l’americano Carl Johnson una coppia di lunghi fenomenale. Una volta conclusa la carriera di giocatore, nel 1979, vestirà per qualche mese il ruolo di direttore sportivo della società senese, quanto bastò per rendersi conto che di pallacanestro ne aveva ormai abbastanza. Il fatto è, che a lui, per sua stessa ammissione, di fare sfracelli non importava proprio un bel niente. Anzi, a dirla tutta, senza quei duecentodieci centimetri che si portava appresso, Enrico Bovone non avrebbe mai messo piede dentro in un palazzetto, né da atleta, né tantomeno da spettatore. Dinoccolato, introverso, vagamente assente, dava l’idea di trovarsi in mezzo a un campo da gioco più per caso che per volontà. Era accaduto, non voluto, un po’ come quei figli concepiti senza desiderio di procreare. Che segnasse un canestro o che gli venisse fischiato un fallo, contro o a favore, mostrava la solita faccia barbuta, languorosa e impenetrabile. Oppure, quando durante concitati time out se ne rimaneva fermo impalato ad ascoltare l’allenatore, le mani sui fianchi, una gamba leggermente piegata, con l’espressione di chi sa già dove andremo a finire ed è terribilmente stufo al punto da desiderare di essere da tutt’altra parte. Dove?.. a fare un lungo giro da solo in macchina, mentre fuori piove. Sì, così, visibilmente seccato, rispose alla domanda un pò pedante di un cronista su cosa gli piacesse fare una volta terminata la partita o gli allenamenti. Si sposerà, resterà a Siena, aprirà un’edicola in un paesino del circondario, dopodiché, poco a poco, l’oblio, il divorzio, le liti, l’allontanamento alla sua maniera, silente, senza farsi notare dagli amici, dal canto della Verbena, dal palazzetto. Qualcuno ricorda di averlo visto negli ultimi giorni rispondere al saluto dei conoscenti con aria distratta, la mente già rivolta all’ ultimo atto di un’esistenza recalcitrante. La mattina di martedì 1 maggio 2001 un automobilista di passaggio notò un auto con lo sportello aperto e a terra un uomo sdraiato su un telo al limitare della boscaglia. Enrico Bovone si era suicidato sparandosi un colpo alla testa, nei pressi di un monastero dove le candele friggono la cera della devozione ma dove, fuori, negli anfratti di lecci e querce secolari, torme di spregiudicati spiriti ti fanno rimpiangere di essere ancora vivo, di rincorrere Bacco e Venere, invitandoti a sottrarti al futuro.

 

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