lunedì 21 giugno 2021

IL SENSO DEL CAFFE'


La grandezza perduta della vecchia Vienna giace sepolta sotto le pietre di piazza Neur Markt vicino al palazzo imperiale. Si avvertono i fremiti, nonostante tanta sia stata l’accumulazione di marmi, polvere e secoli. Ancora negli anni ’30 la gente impallidiva a visitare quei sepolcri; le labbra sbiancavano, gli occhi lucevano di qualche umidore, laggiù in quella cripta. Viennesi di ogni ceto, ogni età, facevano la coda, pazienti, pur di vedere, pur di sentire quell'odore e quel soffio. Compunti e vestiti di scuro, nei giorni della Settimana Santa, alla "ricerca proustiana" delle tombe dei regnanti. Forse rintracciavano presagi nei santi tumuli, oppure anelavano solamente di nostalgia dopo l'inguaribile tramonto. Candele e ceri, un muro nudo e pieno di sé, felicemente solenne: Kapuzinergruft, la cripta alla chiesa dei Cappuccini, ("Ja" proprio quella del romanzo dell'inarrivabile Joseph Roth) dove si trova la tomba di Francesco Giuseppe e degli altri Absburgo. Le messe a suffragio le celebrava un frate del citato ordine che sembrava intagliato nel legno, colorito chiaro e barbetta biondastra. Come mai egli si aggirasse vivo fra grigie pareti e lapidi fastose, pareva quasi un paradosso. Un tipo così andava perlopiù cercato in prati in fiore, ondeggianti sotto un velo di cicute, il sole smeraldino, cime rocciose e innevate, al crocicchio di sentieri alpestri ch'egli avrebbe dovuto vegliare per la pietà dei montanari tirolesi, di sopra una croce erta sotto una breve grondaia spiovente. Dicevano sgranasse il rosario, e ogni volta non faceva grazia di un iscrizione o epitaffio, ma recitava con tecnica meccanizzata quasi estraneo al contesto, tuttavia ad un certo punto l'ondata di commozione lo sopraffaceva costringendolo a lunghe pause. Maria Teresa giace, coniugalmente scolpita in marmo, sull'altissimo doppio catafalco, accanto al marito Francesco di Lorena, come due buoni sposi borghesi su letti gemelli di provincia pudicamente separati e vicini poiché così ella volle attendere insieme con lui il risveglio, commentava il fraticello di legno, ignorando chiaroscuri politici e intimi della coppia. Pareva proprio che l'imperatrice dovesse sollevare il capo, affondato sui grossi cuscini marmorei, rivolgendosi al signor consorte: “Guten morgen”, caro, hai dormito bene?”. Chissà se vi erano già gli Chiffel, le dorate mezzelune croccanti compagni indefettibili di caffelatte e cioccolate. Hugo Meisl, allenatore della nazionale austriaca di calcio, era un assiduo frequentatore dei Kaffeehaus di Vienna, autentico ricettacolo di artisti, scrittori, architetti, e intellettuali, dove lavoravano, discutevano, giocavano a scacchi, e leggevano i quotidiani bloccati dalle bacchette di supporto. Hugo Meisl, uomo robusto, dallo sguardo incantatore da antico veggente moravo, elegante dentro il suo soprabito, e agghindato di bastone e bombetta. Pare passasse tanto tempo nei caffè da ricevere lì telefonate private e la posta. Spesso, davanti allo stesso Einspänner o Melange, che sorseggiava per ore. E molta corrispondenza al "Central" di Herrengasse arrivava dall’Italia, il mittente portava il nome di Vittorio Pozzo. I due si conobbero nel 1912 alle Olimpiadi di Stoccolma e siccome le loro idee di calcio collimavano si tennero sempre in contatto, per di più in quella primavera del 1934 su cui incombeva il campionato del mondo da disputarsi in Italia, e il Wunderteam rappresentava sicuramente l’avversario più ostico per gli azzurri. Davanti al portiere Platzer, due terzini “larghi”, Cisar e Sesta, al centro Smistik e Zischeck pronti a porsi in verticale per schiacciare l’avversario nella sua metà campo sotto la spada di Damocle del fuorigioco; due mediani forti anche nel rilancio, Wagner e Urbanek, adibiti al controllo delle ali avversarie, il regista Viertl, e, infine, un attacco fornito dal centravanti “Cartavelina” Sindelar, eccelso nei fondamentali, Schall e Bican. Dopo un abbrivio drammatico legato alla partita contro la Spagna nei quarti l’Italia si scontrerà effettivamente con l’Austria, beccandosi nella semifinale del Mondiale, a Milano, domenica 3 giugno 1934 alle ore 15,00. Anche Milano poteva dichiararsi città da caffè, su tutti, raccolto nel modaiolo stile liberty, (dagli intagli d’ebano ai mosaici) il “Camparino” aperto come ristorante e bottiglieria nel 1867 da Gaspare Campari che nel 1915 diventerà, appunto, il Bar Camparino. Sarà il luogo simbolo della cultura milanese tra i pinnacoli del Duomo e la Galleria, dove Verdi e Boito, Puccini, Illica e Giacosa sostavano dopo le rappresentazioni alla Scala. Qui Re Umberto I ed Edoardo VII d’Inghilterra bevevano al banco il Bitter, che ispirò i celebri manifesti-réclame di Cappiello e Nizzoli, fino ai Futuristi Marinetti e Boccioni. E il commissario tecnico Pozzo, durante i suoi frequenti soggiorni meneghini vi andava perchè un caffè corretto all'anice non si poteva rifiutare. Milano era, e in parte lo è ancora, una città d'acqua, acqua dolce. Nel 1930, con la copertura dei Navigli, il centro urbano ricordava vagamente Amsterdam o, in certi scorci, Venezia. Alla domenica gli operai vestiti con l’abito buono passeggiavano sulle sponde dell'Idroscalo dove si incontravano, per le principali manifestazioni, la testa coronata di Vittorio Emanuele III, il “re piccolo” e l'esuberante personalità di Italo Balbo, aviatore e ministro dell'Aeronautica. Ragazzine ventenni che pescavano le rane e giovanotti con i calzoni lunghi, simbolo dell'ingresso nella vita adulta che suonavano la chitarra sotto i pergolati o sulle rive dei canali. Facce pulite come era pulita quell'acqua. Gite romantiche in barca sul Lambro. E poi il primo San Siro, lo stadio costruito nelle vicinanze dell’Ippodromo per il Trotto, ispirato agli stadi inglesi, quattro tribune rettilinee avente capienza fino a 35.000 spettatori, completato in 13 mesi con un costo di 5 milioni di lire ed inaugurato nel 1926 con il derby Milan-Inter (o Ambrosiana). Ancora un mondo antico, ma non piccolo, che nemmeno avrebbe saputo immaginare l'obbrobrio e la stortura ecologica odierna. Una capsula del tempo forse troppo lontana per suscitare malinconia, ma qualche brivido di una misteriosa invidia, quello magari sì. Nella squadra italiana, di un paese apparentemente del “consenso” ormai irreggimentato dal Duce, giocavano diversi oriundi naturalizzati in tutta fretta per aumentare la competitività della squadra. Oltre a Orsi e Guaita, anche il forte centromediano metodista Monti, già finalista quattro anni prima tra le fila dell’Argentina (e non particolarmente simpatico ad alcuni azzurri, tra cui Schiavio, al quale anni prima aveva rotto una gamba), e Guaita. In rosa, e in campo nella partita inaugurale contro gli Stati Uniti, andò pure tale Amphilogino “Filò” Guarisi, un oriundo brasiliano, il primo, per la statistica, a laurearsi campione del mondo. La partita tra Italia e Austria si giocò dopo un furioso temporale e la repentina ricomparsa del sereno, su uno scenario terso e assai combattuto sul campo. Gli azzurri non si risparmiarono nella marcatura di Sindelar. Vittorio Pozzo è ombra lunga,  epica, la mano destra alla fronte, memoria del saluto al copricapo, un uomo che frequentava cinque lingue, che aveva giocato negli svizzeri del Grasshopers, che aveva studiato l'inglese e il football a Manchester, che non aveva abbandonato definitivamente l'impiego dirigenziale alla Pirelli, che viaggiava in seconda classe e scriveva per le pagine di sport de La Stampa, la sola, con la Pirelli, che gli garantisse il salario, perché Pozzo mai volle compensi dalla federcalcio, per essere indipendente, libero di scegliere, di sbagliare, di decidere, di lasciare. Quel giorno schierò Combi in porta, i terzini Monzeglio e Allemandi, Ferraris, Monti e Bertolini in mediana, Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari e Orsi in attacco secondo il classico schieramento a W che proponeva il metodo. A decidere il match, una rete piuttosto contestata per un fallo di ostruzione di Giuseppe Meazza sul portiere austriaco Peter Platzer realizzata dal attaccante Enrico, o meglio "Enrique”, Guaita, detto il Corsaro Nero, un energico argentino che una sera scappò da Roma, accusato di traffico illecito di valuta, a bordo di una lussuosa “Dilambda” (l’ammiraglia del periodo di casa Lancia) arrivando fino a Santa Margherita Ligure dove salì su un treno per la Francia, sparendo all’orizzonte come un eroe rapito dal destino. Oh, il goal fu convalidato tra molte polemiche dall’arbitro svedese Eklind, mentre intanto il portiere italiano Gianpiero Combi salverà il risultato in un paio di occasioni nonostante le cronache coeve abbiano indugiato abbastanza sulla effettiva pericolosità degli attacchi avversari. Italia-Austria ha attraversato i decenni e i confronti, esclusivamente relativi ai Mondiali, ci sono stati con un predominio nemmeno tanto pregnante degli azzurri, ma quel sapore di Mitropa e Mitteleuropa, ovviamente,  è andato perduto. Ci restano, forse, i caffè.

 

 

 

venerdì 11 giugno 2021

I BASTIONI DI LUCCA


Quel giorno del 1905 a Lucca pioveva. Pioveva come Dio la mandava, o se non era Dio ad ogni modo il cielo si era comunque fatto nero, pareva adirato di brutto e nonostante fosse il 25 maggio pareva novembre, ma i poveri gerani sui balconi facevano la spia, tutti con il capino mogio, costretti a grondare acqua. Faceva anche freddo, un freddo da cappotto, con quel vento che entra dalle porte cittadine e che i lucchesi nel loro vernacolo agghindato da una bussola impazzita chiamano “drento”. Oh, cosa volete, mica siamo in Brasile qui, non è vero carissimi Felice, Vittorio ed Ernesto? Ecco, bisognava stare al riparo in quella grigia mattinata scandita dai rintocchi di bronzo del campanile di San Martino, magari mettersi a mangiare e bere di piglio buono che chissà può plasmarsi meglio un idea già accarezzata in mente. E problemi non c'erano bastava scegliere e avere due lire in tasca: Da Tista, con la sua biadina da sorbire rigorosamente con una manciata di pinoli, dal Taddeucci con il buccellato e la sua ricetta segreta al pari di quella della Coca Cola, dal Giusti in via Santa Lucia con gli scaffali traboccanti di pane e focaccia. Per tutto il resto non c’era Master Card ma c'era Marzetto, per essere esatti la Pizzicheria Sante Nieri detto Marzetto, un locale pittoresco in stile liberty che altrove avrebbe potuto essere ritenuto eccentrico e un pochino pretenzioso, ma non lì, dietro il coro di San Michele, in una posizione centrale ma allo stesso tempo riservata, orbata di inutile ostentazione. I tre citati andranno giusto lì, seduti davanti a un bel piatto di "tordelli". I fratelli Felice e Vittorio Menesini, oltre, appunto, a Ernesto Matteucci. Ora occorre dire che i tordelli vanno serviti con un sugo di carne, o al limite semplicemente al burro per apprezzarne meglio la struttura e la complessità del ripieno. I tre ne sentivano il bisogno in ambedue le modalità, dopo un periodo di lavoro in Brasile, e sentivano il bisogno anche di un'altra cosa, impellente, necessaria, alla moda, una cosa di cui nel paese sudamericano avevano scorto tutta la bellezza e la passione. E allora fra un tuono e un bicchiere di rosso fondano la Lucchese, la squadra di questa città dalle mura solenni, trasformate da cinta difensiva a passeggiata distensiva, dove, innalzando lo sguardo dal baluardo di San Salvatore, si adocchia lo stadio nudo, quasi ascetico, il "Porta Elisa" che nella sua semplice natura di cemento e fili d’erba nasconde una storia di vestigia oggi impensabili. Occorre riprendere in mano la storia e virarla a nostro piacimento partendo senza dubbio dagli anni ’30, nel fagotto di un Italia amministrata dalle direttive del governo fascista, uno stivale come sempre disilluso, pronto ad applaudire o fischiare a seconda dell'interesse del momento, nonostante punte di consenso e crescita sociale, presto coperte da un drappo di futuro nero e non tanto per il colore di alcune camice. L’uomo da segnarsi sull’taccuino non ha un nome eminentemente toscano, si chiama Giuseppe Della Santina, agiato imprenditore pugliese dedito al mattone, nonché proprietario della squadra. Della Santina ci vede lungo, capisce il successo nello sport più amato, insieme al ciclismo, potrebbe portare in alto la sua reputazione a livello nazionale. Va detto che il Della Santina è pungolo di partito, ha il sostegno di diversi gerarchi col fez sulla testa, ma senza dei buoni giocatori e un buon allenatore i rossoneri difficilmente sarebbero usciti dalle sacche locali della terza serie. Occorreva pescare un allenatore estroverso al punto giusto, latore di un idea di gioco intraprendente tale da poter catapultare il calcio a Lucca in egual maniera a quello che faceva impazzire le folle nelle grandi città, e da Bari arriverà Erno Egri Erbstein, ebreo errante dagli abiti eleganti e dagli occhi profondi, un talmud serrato nella sua ruminazione, fra i palazzi di una Budapest sorniona, ammaliante, incastonata di uno spirito mitteleuropeo ancora ghiotto di belle signore, sigari e teatri. Sarà un sodalizio colmo di successo; in sole tre stagioni la Lucchese dai lidi regionali si iscriverà alla Serie A. La città si imbandiera, abbandonando quel silenzio uggioso e scaramantico che infastidiva le stravaganze da artista di Giacomo Puccini rifugiatosi a Torre del Lago. Nel 1935 il compositore se ne era andato da un paio lustri circa, un vero peccato, perchè al bar Savoia, luogo di ritrovo del tifoso lucchese, i caffè raddoppiarono. Una scalata in cui Erbstein costruì un meccanismo perfetto, fatto di coesione d’intenti e di una serietà professionale unita a un amorevole e paterna relazione con i suoi calciatori. Tuttavia molti segreti di quella Lucchese erano purtroppo celati ai più attenti osservatori, proprio per la peculiare caratteristica di trovarsi in un ambiente provinciale sottostimato dalle alte dirigenze sportive nazionali. I ragazzi di Erbstein non possedevano il perfetto ritratto dell’atleta “fascista” come i due Bruno, Scher e Neri, che si erano palesemente dichiarati avversi al regime, o come l’anarchico Libero Marchini, e persino uno dei pilastri della nazionale dell’epoca, il portiere Aldo Olivieri, detto il gatto magico, seppure in un ordalia di ragionamenti e salvacondotti riuscì ad aggregarsi alla nazionale di Vittorio Pozzo evitando situazioni a dir poco spiacevoli. La Lucchese in Serie A non fu novella da caminetto, riuscì a competere con i maggiori club italiani prendendosi la soddisfazione di battere i vicini viola in entrambe le partite mantenendo nel complesso una posizione di classifica da capogiro per tutto il girone di andata, grazie ad un calcio propositivo ma mai scellerato, che alla fine di quella stagione così fischiettante di felicità indennizzò il nuovo stadio di Porta Elisa con il prezioso record dell’imbattibilità casalinga, concludendo il torneo in una soddisfacente, e direi imprevedibile, settima posizione a pari punti con la ben più stimata Ambrosiana-Inter. L’anno seguente però, oltre alle inevitabili cessioni dei calciatori migliori, si accrebbero le difficoltà di Erbstein, fra l’altro ammalatosi per quasi tutto il campionato, e poi ormai tutto faceva temere ciò che sarebbe accaduto anche qui, ossia l’emanazione delle leggi razziali, e quella Lucchese fin troppo spregiudicata e fin troppo piena di antifascisti o di pacati indifferenti, rimase a stento in A. Quelle possenti mura rinascimentali non potevano salvare le condizioni di vita che si stavano prospettando per Erbstein e famiglia, condizioni che lo portarono ad accettare la chiamata nel Torino, squadra che gli promise non solo di perseguire i suoi metodi di lavoro ma soprattutto la protezione da quel clima aspro che stava giungendo al suo culmine, finchè neanche Torino per lui bastò, seppure, a guerra finita il suo Toro diventò per nemesi la squadra più forte del mondo, eppure si sa, gli eroi muoiono tutti giovani e belli, e forse pure meno giovani e meno belli, perchè il tragico schianto sordo di Superga fu lutto frammisto a eterna luce votiva. E la Lucca del pallone diventò prisma di rifrazione del passato virato su un futuro pronto a scappare di carambola in un anonimato simile a coloro che passano le notti in un locale della Versilia seduti a bere e a guardare gli altri ballare e le coppiette impegnate in effusioni amorose. Quando decise di rientrare nel giro scendendo dalla sua mansarda di una casatorre dei vicoli del centro saranno sospiri da cadetti con qualche lampo di ambizione ma più che altro saranno lunghe passeggiate nel brulichio incessante della serie C, piano di sopra o piano di sotto che fosse. Discorso a parte meritano alcune memorie, maglie e giocatori. "Lucca Comics" impazzava già da una decina d'anni e nel 1978, per esempio, i rossoneri in una splendida divisa a righe ampie, senza sponsor, per un calcio ancora avulso da dogmi da usufrutto, allenati da Giovanni Meregalli furono abili a giocarsi la promozione in B correndo fino all’ultima giornata in un testa a testa drammatico con la Spal. Chiuderanno al secondo posto, e non sarà sufficiente. Indelebile nel cuore dei tifosi la trasferta di Ferrara del 12 marzo: un 2 – 2 da brividi decisamente forti. Il 1990 rappresenta plasticamente una delle stagioni più iconiche della pantera rampante. Maglia stavolta sponsorizzata “Bertolli” dal gusto retrò, e in campo il bomber Roberto Paci, autentico talismano da "mi ritorni in mente": 10 stagioni, condite da una caterva di reti. Accanto a lui un altro Roberto, Simonetta da Latina, detto Robbè, sinistro magico e rifinitore eccelso. Con loro Pascucci, Vignini, Russo, Monaco, Fiondella, e Gaetano "Tano" Salvi, baffi e capello tzigano dalla storia sportiva racchiusa nel pendolarismo yippie da autostop sulla bretella Livorno-Lucca con quel compleanno segnato in rosso nel calendario nella giornata della festa dei lavoratori, lui che con la sua flemma non sembrava davvero uno stakanovista, ma attraverso le sue giocate farà innamorare la gente del Porta Elisa. E la Lucchese targata Corrado Orrico (l'Omone sceso dal suo eremo di Volpara) che conquisterà la cadetteria al termine di un campionato eccitante aggiudicandosi nella rinnovata Favorita di Palermo anche la Coppa Italia di Serie C. Ve lo ricordate l'Anglo Italiano? Ebbene nell'edizione 92/93 la Lucchese fu inserita nel gruppo A pareggiando al Porta Elisa contro il Newcastle di Kevin Keegan, lo stadio non era pienissimo essendo una partita infrasettimanale ma dal Regno Unito si presentò comunque un nutrito gruppo di tifosi. Bruno Russo realizzerà il momentaneo 1 a 0 per i rossoneri poi raggiunti nel secondo tempo. Le due trasferte in terra inglese furono poco fortunate, prima la sconfitta a Londra di misura contro il Brentford e successivamente quella a Fratton Park contro il Portsmouth per 2 a 1 decretarono l’uscita dalla competizione con l'appendice del sonoro ma inutile successo interno nei confornti del Birmingham City. Nel 1996 la Lucchese rialloggiata in B costruisce una squadra dalle malcelate aspirazioni di alta classifica. Ad indossare le strisce rossonere con sponsor "Cremlat", c'è sempre l’indomito Paci al cui fianco sgomita Massimo Rastelli, moretto campano dalla faccia furba. Diventerano i gemelli del goal, tandem mistico del calcio di provincia, miscelati a un pò di peccati di gioventù: Stefano Bettarini, Ciccio Cozza e Beppe Cardone. In panchina il ghigno di Bruno Bolchi per poco non diventò sorriso quando i rossoneri chiuderanno sesti a quota 54 punti con diversi rimpianti. Delusioni e bizzarrie di una città di pietra e mattoni dove i diavoli provano a fare lo sgambetto ai santi all'ombra delle sue mura. Il 10 luglio del 2002 la Lucchese di Francesco D’Arrigo e del presidente Aldo Grassi, ricade dalla scala, prova a risalire, vestendosi “Errea” con la benedizione laicissima di “Lucca Bingo”, ma quel pomeriggio ci voleva la Porta di sant'Anna per andare in goal e un palo colpito da Toni Carruezzo oltre a una serie di sfortunate circostanze tolsero al popolo rossonero la gioia del successo nella finale play off disputata contro la Triestina. Saranno lacrime amare che preannunceranno un futuro incerto e periglioso fra prove tecniche di risalita e tanti scivoloni fra le solite, penose, carte bollate. Meglio pensare a qualche band musicale in arrivo al Summer Festival, o alla vecchia Pizzicheria e a una calda minestra di farro, perché a Lucca, almeno nel calcio, adesso fa abbastanza freddo nell’anima. 

 

sabato 5 giugno 2021

THE AULD ENEMY


Inghilterra- Scozia? Partiamo con la signora MacLeod. La donna sarebbe dovuta apparire in primo piano, sorridente e vestita con semplicità. Avrebbe dovuto dire che era la moglie di Ally, l'allenatore di quella invincibile armata del calcio e a quel punto tutte le casalinghe di Scozia, secondo i piani, si sarebbero precipitate a fare acquisti al supermercato. Non si conosce con esattezza la cifra spesa per l’iniziativa pubblicitaria, si sa solamente che quel contratto, dopo il crollo della nazionale ai campionati del Mondo, fu invalidato e la catena di grandi magazzini in questione si rivolse immediatamente ad altri mezzi di seduzione del consumatore. Nel giorno della partita contro l'Olanda valida per i mondiali del 1978 (ossia la resa dei conti del girone), i parsimoniosi scozzesi oltre ai calcoli sulla qualificazione si misero a fare anche un altro tipo di conti, quantificando quello che sarebbe costato l'eventuale mesto ritorno a casa della loro squadra. Secondo un computo che teneva presente diversi aspetti, il mancato passaggio del turno (nonostante l’epigrafe allucinogena del “Non mi sentivo così da quando Archie Gemmill segnò all'Olanda nel '78”) avrebbe comportato una perdita economica di oltre un milione di sterline. Dentro la bolla speculativa c’erano gli accordi con la casa automobilistica Chrysler (300 mila sterline per pubblicizzare un nuovo modello attraverso i 22 nazionali), con l'industria discografica capeggiata da Rod Stewart e Andy Cameron (lancio di dischi commemorativi inneggianti al successo nella Coppa del Mondo), e con il settore tessile per via di magliette, camicie e bandiere incensate di vittoria. Qualcuno, probabilmente in malafede, dirà che la privazione finanziaria superò perfino la delusione dei tifosi. Insomma parve che la sconfitta sul campo dovesse passare in secondo piano davanti alla quantità enorme di soldi che velocemente scivolarono via come un ruscello nelle Highlands. Una vignetta di fine ottocento mostra un ministro della Chiesa di Scozia che incontra un compaesano mentre si prende cura del camposanto: “Mi fa piacere che lavori nel giardino del Signore, Jock.” - “Grazie Reverendo ma avreste dovuto vedere in che stato lui lo aveva lasciato.” Irrispettosi dei ranghi, dissacranti, disincantati. Poco inclini ad andare d’accordo fra di loro, figuriamoci con quelli del piano di sotto. A sanare le divergenze non ci riuscì nemmeno Giacomo VI, primo sovrano a regnare su tutte le isole britanniche, successore di Elisabetta I. Il rapporto con il cosiddetto “Auld Enemy” (il vecchio nemico) è rimasto burrascoso, e se si vuole aprire perbene il pomo della discordia, va fatto a nord, sia di Edimburgo, sia di Glasgow, coinvolgendo un arco immaginario la cui estremità flessibile parte da Greenock, tocca nell'impugnatura Inverness e scende fino all'altro vertice di Dundee. E' in questo comprensorio, dove si allungano enormi laghi silenti e l’orizzonte si serra davanti a aspre vette cariche di erica, che il sentimento del “Tartan”, del “Bonnie Scotland”, caro all' orgogliosa rivolta Stuart, resiste, piegandosi senza spezzarsi come il cardo selvaggio di Stirling, sotto le raffiche di ovatta soffiate dal goffo conformismo contemporaneo. L’indole scozzese plasmata dal clima duro, da vigorosi sorsi di whisky e dall’etica presbiteriana ha potuto trovare ampie sacche di separazione da Londra attraverso una sostanziale separazione di poteri nel diritto pubblico e privato. In Scozia sin dai disordini del 1706 è sorto un sistema d’istruzione di alto livello accessibile da tutte le fasce sociali. Questo approccio verso la scuola, finanziato con i proventi del sistema fiscale, ha permesso alla popolazione di essere fra le più colte d’Europa, facendo sbocciare illustri scienziati nonché noti letterati. Esiste, è vero, un rovescio della medaglia dato dal ricordo di essere stati gli impavidi coraggiosi ma anche i fatalmente perdenti e oppressi. Questo corto circuito fa strisciare un ancestrale senso di sfiducia e una tendenza a sminuirsi, degna del miglior Freud in "Al di là dei principi di piacere", macerata nel continuo risentimento del predominio politico e culturale inglese. Nel calcio si comincia a darsele di santa ragione il 30 novembre del 1872 all’Hamilton Crescent di Glasgow in una empirica, trasandata, partita conclusasi 0-0. La Scozia, completamente formata da giocatori del Queen's Park, ebbe in prestito dalla nazionale di Rugby le divise blu e da allora blu resteranno. La carica del “Flower of Scotland” invece arriverà tardi, circa un secolo dopo. Nel frattempo incomincia a scatenarsi la furia dell’Old Firm e sulle placide sponde del Loch Ness, il 2o aprile 1934, Robert Kenneth Wilson scatterà una foto fatale che il giorno dopo farà impazzire il mondo stampata sulle pagine del Daily Mail: il mostro, nemmeno poi così mostro, esisteva davvero?  Oh, fu un grandioso falso, ma il buon scozzese deve credere nel dogma di "Nessie" a qualunque costo (altrimenti mettiamo in cattiva luce San Colombano e allora come si dice: scherza con i fanti ma lascia stare i santi..). Tornando in musica la canzone, divenuta inno, fu composta da Roy Williamson, componente del gruppo musicale folk "The Corries" nel 1967 e adottata negli anni settanta. Buckingham Palace ne permise l'uso nonostante fosse una canzone deliberatamente e profondamente anti-inglese ispirata alla battaglia di Bannockburn del 1314. Nel 1993 sostituì Scotland the Brave che nel 1980, vivaddio, a sua volta aveva preso il posto del fischiatissimo God Save The Queen, e qualcuno, dai finestroni rigati di pioggia del palazzo di Holyroodhouse, giurò di aver visto il fantasma della povera Regina Mary. Poche soddisfazioni e molte delusioni a dire il vero per il Leone rosso di Robert the Bruce. Nel 1961 la Scozia sprofondò a Londra sotto un clamoroso 9-3, il risultato peggiore nei confronti diretti con i bianchi di sua Maestà. Uno strepitoso Jimmy Greaves segnò una tripletta con l’imbarazzante difesa scozzese che riuscì nell’impresa di concedere 5 goal in 10 minuti. Il portiere della Scozia, Frank Haffey, per la vergogna, decise addirittura di abbandonare il paese ed emigrò in Australia. La rivincita, per fortuna, arrivò sei anni dopo quando il gruppo di Bobby Brown espugnò Wembley per 3-2 battendo i neo campioni del mondo in serie positiva da 19 incontri. La rete d'apertura la segnerà il leggendario Denis Law, Pallone d’Oro 1964, eccezionale attaccante che ha scritto pagine di storia del Manchester United, ma che a Manchester giocò anche con il City e proprio una sua marcatura, durante il drammatico derby del 1974 disputato a Old Trafford, paradossalmente condannerà alla retrocessione i red devils. Ripercorrendo Scozia- Inghilterra o Inghilterra- Scozia ci sarebbe da menzionare tutta la trafila del cosidetto Home British Championship, ossia il più antico torneo per nazionali e conseguentemente l'epopea dei vari Jimmy Johnstone, Sandy Jardine, Greame Souness, Joe Jordan e Kenny Dalglish, e ogni altra vecchia gloria, oblio di una manifestazione sicuramente importante purtroppo calata nel fetido, aspro, respiro condominiale con gli inglesi naturlamnete avanti nei conteggio dei successi. Alla partita di Londra del 1977 pare ci fossero 70.000 tartaners sui 98.000 spettatori presenti. L'atmosfera, quando le squadre uscirono dal tunnel di Wembley era indescrivibile; le reti di Gordon McQueen e Dalglish scatenarono l’invasione di campo più celebre della storia. Per vincere di nuovo a Wembley servì una rigore di John Robertson nel 1981 ma in quel caso, nonostante l’ennesima massiccia presenza scozzese, le nuove balaustre dello stadio bloccarono sul nascere ogni festeggiamento alimentato da un trip troppo esuberante. Invece tornando alle sfide a tenore internazionale si giunge a quella del giugno 1996, valevole per i campionati europei organizzati dall’ Inghilterra del “Football Coming Home”. Finì 2-0 per gli inglesi con le firme di Alan Shearer e Paul Gascoigne e con il portiere David Seaman sugli scudi per aver parato un tiro dal dischetto al capitano Gary McAllister a dodici minuti dal termine sul punteggio di 1-0. Resta famosa la frase rivolta da McAllister al suo compagno John Collins allorché gli sussurrò: “If I score, we win the game”. E invece non solo ci sarà l’errore dal dischetto ma pochi attimi dopo pure la beffa attraverso il pallonetto show di Gazza sopra la testa di Colin “Braveheart” Hendry, seguito dal colpo al volo di sinistro spedito alle spalle di Andy Goram. Un pomeriggio amarissimo quello e mai digerito, neppure vendicato nel play off del 1999 valido per la qualificazione agli Europei del 2000 in Belgio e Olanda. Uno spareggio sanguinoso che premiò ancora gli inglesi. Il primo dei due match si disputò il 13 novembre all’Hampden Park di Glasgow e la squadra allenata da Kevin Keegan si portò via il successo grazie ad una doppietta di Paul Scholes. Al ritorno, a Wembley, nonostante le minime possibilità di rimonta in mano agli scozzesi, ci fu la solita battaglia. La Scozia vincerà 1-0, (centro di Don Hutchison) sfiorando più volte il il raddoppio che le avrebbe consentito di disputare i tempi supplementari. Anche stavolta David Seaman sbarrò le porte della gloria ai blu parando un calcio di rigore, ironia della sorte, proprio all'autore della rete del vantaggio. Gli ultimi faccia a faccia sono stati quello dell’11 novembre 2017, Inghilterra- Scozia 3-0 e quei sei minuti di follia allo stato puro nella gara di Glasgow: la Scozia, sotto di una rete riversa in campo tutto il cuore e una magnifica doppietta di Griffiths ribalterà lo contesa mandando in visibilio l'intero paese. A riportare la partita sul definitivo 2-2 ci penserà Harry Kane. “It feels like a defeat” dirà dopo la partita Leigh Griffiths, l’unico nel girone ad essere riuscito ad abbattere il muro difensivo inglese: già, un pari amaro come una sconfitta perché per la nazionale allenata da Gordon Strachan i tre punti avrebbero significato sperare ancora nella qualificazione al Mondiale.  Sebbene i risultati negativi spesso siano stati meno netti di quelli mostrati dai referti, è oggettivo che per sperare di sconfiggere fra un paio di settimane gli inglesi a casa loro servirebbe una Scozia almeno parente di quella degli anni settanta. Servirebbe una sorta di ultima chiamata, un suono di cornamusa, (ah, attenti, quelle a tre bocche mi raccomando, poichè a due sono strumenti irlandesi e fanno un suono più dolce..) come accadde prima dello scontro sulla terra brulla di Culloden Moor, e fra i mattoni rossastri di Hampden lo sanno bene: “Everyone needs stroke luck sometimes”, disse, ferito gravemente e attorniato dai suoi uomini, il buon Principe Charles.

 

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...