La grandezza perduta della
vecchia Vienna giace sepolta sotto le pietre di piazza Neur Markt vicino al
palazzo imperiale. Si avvertono i fremiti, nonostante tanta sia stata l’accumulazione
di marmi, polvere e secoli. Ancora negli anni ’30 la gente impallidiva a
visitare quei sepolcri; le labbra sbiancavano, gli occhi lucevano di qualche
umidore, laggiù in quella cripta. Viennesi di ogni ceto, ogni età, facevano
la coda, pazienti, pur di vedere, pur di sentire quell'odore e quel soffio.
Compunti e vestiti di scuro, nei giorni della Settimana Santa, alla "ricerca proustiana" delle
tombe dei regnanti. Forse rintracciavano presagi nei santi tumuli, oppure anelavano solamente di nostalgia dopo l'inguaribile tramonto. Candele e ceri, un
muro nudo e pieno di sé, felicemente solenne: Kapuzinergruft, la cripta alla
chiesa dei Cappuccini, ("Ja" proprio quella del romanzo dell'inarrivabile Joseph Roth) dove si trova la tomba di Francesco Giuseppe e degli
altri Absburgo. Le messe a suffragio le celebrava un frate del citato ordine che sembrava
intagliato nel legno, colorito chiaro e barbetta biondastra. Come mai egli si
aggirasse vivo fra grigie pareti e lapidi fastose, pareva quasi un paradosso.
Un tipo così andava perlopiù cercato in prati in fiore, ondeggianti sotto un velo
di cicute, il sole smeraldino, cime rocciose e innevate, al crocicchio di
sentieri alpestri ch'egli avrebbe dovuto vegliare per la pietà dei montanari
tirolesi, di sopra una croce erta sotto una breve grondaia spiovente. Dicevano
sgranasse il rosario, e ogni volta non faceva grazia di un iscrizione o epitaffio, ma recitava con tecnica meccanizzata quasi estraneo al contesto, tuttavia
ad un certo punto l'ondata di commozione lo sopraffaceva costringendolo a lunghe
pause. Maria Teresa giace, coniugalmente scolpita in marmo, sull'altissimo
doppio catafalco, accanto al marito Francesco di Lorena, come due buoni sposi
borghesi su letti gemelli di provincia pudicamente separati e vicini poiché così
ella volle attendere insieme con lui il risveglio, commentava il fraticello di
legno, ignorando chiaroscuri politici e intimi della coppia. Pareva proprio che
l'imperatrice dovesse sollevare il capo, affondato sui grossi cuscini marmorei,
rivolgendosi al signor consorte: “Guten morgen”, caro, hai dormito bene?”.
Chissà se vi erano già gli Chiffel, le dorate mezzelune croccanti compagni
indefettibili di caffelatte e cioccolate. Hugo Meisl, allenatore della
nazionale austriaca di calcio, era un assiduo frequentatore dei Kaffeehaus di
Vienna, autentico ricettacolo di artisti, scrittori, architetti, e intellettuali,
dove lavoravano, discutevano, giocavano a scacchi, e leggevano i quotidiani
bloccati dalle bacchette di supporto. Hugo Meisl, uomo robusto, dallo sguardo
incantatore da antico veggente moravo, elegante dentro il suo soprabito, e
agghindato di bastone e bombetta. Pare passasse tanto tempo nei caffè da
ricevere lì telefonate private e la posta. Spesso, davanti allo stesso Einspänner
o Melange, che sorseggiava per ore. E molta corrispondenza al "Central" di Herrengasse
arrivava dall’Italia, il mittente portava il nome di Vittorio Pozzo. I due si
conobbero nel 1912 alle Olimpiadi di Stoccolma e siccome le loro idee di calcio
collimavano si tennero sempre in contatto, per di più in quella primavera del 1934
su cui incombeva il campionato del mondo da disputarsi in Italia, e il Wunderteam
rappresentava sicuramente l’avversario più ostico per gli azzurri. Davanti al
portiere Platzer, due terzini “larghi”, Cisar e Sesta, al centro Smistik e
Zischeck pronti a porsi in verticale per schiacciare l’avversario nella sua
metà campo sotto la spada di Damocle del fuorigioco; due mediani forti anche
nel rilancio, Wagner e Urbanek, adibiti al controllo delle ali avversarie, il regista
Viertl, e, infine, un attacco fornito dal centravanti “Cartavelina” Sindelar,
eccelso nei fondamentali, Schall e Bican. Dopo un abbrivio drammatico legato alla partita contro la
Spagna nei quarti l’Italia si scontrerà effettivamente con l’Austria, beccandosi nella semifinale del Mondiale, a Milano, domenica 3 giugno 1934
alle ore 15,00. Anche Milano poteva dichiararsi città da caffè, su tutti,
raccolto nel modaiolo stile liberty, (dagli intagli d’ebano ai mosaici) il “Camparino”
aperto come ristorante e bottiglieria nel 1867 da Gaspare Campari che nel 1915
diventerà, appunto, il Bar Camparino. Sarà il luogo simbolo della cultura
milanese tra i pinnacoli del Duomo e la Galleria, dove Verdi e Boito, Puccini,
Illica e Giacosa sostavano dopo le rappresentazioni alla Scala. Qui Re Umberto
I ed Edoardo VII d’Inghilterra bevevano al banco il Bitter, che ispirò i
celebri manifesti-réclame di Cappiello e Nizzoli, fino ai Futuristi Marinetti e
Boccioni. E il commissario tecnico Pozzo, durante i suoi frequenti soggiorni meneghini vi andava perchè un caffè corretto all'anice non si poteva rifiutare. Milano era, e in parte lo è ancora, una città d'acqua, acqua dolce.
Nel 1930, con la copertura dei Navigli, il centro urbano ricordava vagamente Amsterdam
o, in certi scorci, Venezia. Alla domenica gli operai vestiti con l’abito buono
passeggiavano sulle sponde dell'Idroscalo dove si incontravano, per le principali
manifestazioni, la testa coronata di Vittorio Emanuele III, il “re piccolo” e
l'esuberante personalità di Italo Balbo, aviatore e ministro dell'Aeronautica.
Ragazzine ventenni che pescavano le rane e giovanotti con i calzoni lunghi,
simbolo dell'ingresso nella vita adulta che suonavano la chitarra sotto i
pergolati o sulle rive dei canali. Facce pulite come era pulita quell'acqua.
Gite romantiche in barca sul Lambro. E poi il primo San Siro, lo stadio
costruito nelle vicinanze dell’Ippodromo per il Trotto, ispirato agli stadi
inglesi, quattro tribune rettilinee avente capienza fino a 35.000 spettatori,
completato in 13 mesi con un costo di 5 milioni di lire ed inaugurato nel 1926 con
il derby Milan-Inter (o Ambrosiana). Ancora un mondo antico, ma non piccolo,
che nemmeno avrebbe saputo immaginare l'obbrobrio e la stortura ecologica
odierna. Una capsula del tempo forse troppo lontana per suscitare malinconia, ma
qualche brivido di una misteriosa invidia, quello magari sì. Nella squadra italiana, di un paese apparentemente del
“consenso” ormai irreggimentato dal Duce, giocavano diversi oriundi
naturalizzati in tutta fretta per aumentare la competitività della squadra.
Oltre a Orsi e Guaita, anche il forte centromediano metodista Monti, già
finalista quattro anni prima tra le fila dell’Argentina (e non particolarmente
simpatico ad alcuni azzurri, tra cui Schiavio, al quale anni prima aveva rotto
una gamba), e Guaita. In rosa, e in campo nella partita inaugurale contro gli
Stati Uniti, andò pure tale Amphilogino “Filò” Guarisi, un oriundo brasiliano,
il primo, per la statistica, a laurearsi campione del mondo. La partita tra
Italia e Austria si giocò dopo un furioso temporale e la repentina ricomparsa
del sereno, su uno scenario terso e assai combattuto sul campo. Gli azzurri non si
risparmiarono nella marcatura di Sindelar. Vittorio Pozzo è ombra lunga, epica, la mano destra alla fronte, memoria del saluto al copricapo, un
uomo che frequentava cinque lingue, che aveva giocato negli svizzeri del Grasshopers,
che aveva studiato l'inglese e il football a Manchester, che non aveva
abbandonato definitivamente l'impiego dirigenziale alla Pirelli, che
viaggiava in seconda classe e scriveva per le pagine di sport de La
Stampa, la sola, con la Pirelli, che gli garantisse il salario, perché
Pozzo mai volle compensi dalla federcalcio, per essere indipendente,
libero di scegliere, di sbagliare, di decidere, di lasciare. Quel giorno schierò
Combi in porta, i terzini Monzeglio e Allemandi, Ferraris, Monti e Bertolini in
mediana, Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari e Orsi in attacco secondo il
classico schieramento a W che proponeva il metodo. A decidere il match, una rete
piuttosto contestata per un fallo di ostruzione di Giuseppe Meazza sul portiere
austriaco Peter Platzer realizzata dal attaccante Enrico, o meglio "Enrique”, Guaita, detto
il Corsaro Nero, un energico argentino che una sera scappò da Roma, accusato di
traffico illecito di valuta, a bordo di una lussuosa “Dilambda”
(l’ammiraglia del periodo di casa Lancia) arrivando fino a Santa Margherita
Ligure dove salì su un treno per la Francia, sparendo all’orizzonte come un
eroe rapito dal destino. Oh, il goal fu convalidato tra molte polemiche
dall’arbitro svedese Eklind, mentre intanto il portiere italiano Gianpiero Combi
salverà il risultato in un paio di occasioni nonostante le cronache coeve
abbiano indugiato abbastanza sulla effettiva pericolosità degli attacchi
avversari. Italia-Austria ha attraversato i decenni e i confronti, esclusivamente relativi ai Mondiali, ci sono stati con un predominio nemmeno tanto pregnante degli azzurri, ma quel sapore di Mitropa e Mitteleuropa, ovviamente, è andato perduto. Ci restano, forse, i caffè.
Nessun commento:
Posta un commento