lunedì 21 giugno 2021

IL SENSO DEL CAFFE'


La grandezza perduta della vecchia Vienna giace sepolta sotto le pietre di piazza Neur Markt vicino al palazzo imperiale. Si avvertono i fremiti, nonostante tanta sia stata l’accumulazione di marmi, polvere e secoli. Ancora negli anni ’30 la gente impallidiva a visitare quei sepolcri; le labbra sbiancavano, gli occhi lucevano di qualche umidore, laggiù in quella cripta. Viennesi di ogni ceto, ogni età, facevano la coda, pazienti, pur di vedere, pur di sentire quell'odore e quel soffio. Compunti e vestiti di scuro, nei giorni della Settimana Santa, alla "ricerca proustiana" delle tombe dei regnanti. Forse rintracciavano presagi nei santi tumuli, oppure anelavano solamente di nostalgia dopo l'inguaribile tramonto. Candele e ceri, un muro nudo e pieno di sé, felicemente solenne: Kapuzinergruft, la cripta alla chiesa dei Cappuccini, ("Ja" proprio quella del romanzo dell'inarrivabile Joseph Roth) dove si trova la tomba di Francesco Giuseppe e degli altri Absburgo. Le messe a suffragio le celebrava un frate del citato ordine che sembrava intagliato nel legno, colorito chiaro e barbetta biondastra. Come mai egli si aggirasse vivo fra grigie pareti e lapidi fastose, pareva quasi un paradosso. Un tipo così andava perlopiù cercato in prati in fiore, ondeggianti sotto un velo di cicute, il sole smeraldino, cime rocciose e innevate, al crocicchio di sentieri alpestri ch'egli avrebbe dovuto vegliare per la pietà dei montanari tirolesi, di sopra una croce erta sotto una breve grondaia spiovente. Dicevano sgranasse il rosario, e ogni volta non faceva grazia di un iscrizione o epitaffio, ma recitava con tecnica meccanizzata quasi estraneo al contesto, tuttavia ad un certo punto l'ondata di commozione lo sopraffaceva costringendolo a lunghe pause. Maria Teresa giace, coniugalmente scolpita in marmo, sull'altissimo doppio catafalco, accanto al marito Francesco di Lorena, come due buoni sposi borghesi su letti gemelli di provincia pudicamente separati e vicini poiché così ella volle attendere insieme con lui il risveglio, commentava il fraticello di legno, ignorando chiaroscuri politici e intimi della coppia. Pareva proprio che l'imperatrice dovesse sollevare il capo, affondato sui grossi cuscini marmorei, rivolgendosi al signor consorte: “Guten morgen”, caro, hai dormito bene?”. Chissà se vi erano già gli Chiffel, le dorate mezzelune croccanti compagni indefettibili di caffelatte e cioccolate. Hugo Meisl, allenatore della nazionale austriaca di calcio, era un assiduo frequentatore dei Kaffeehaus di Vienna, autentico ricettacolo di artisti, scrittori, architetti, e intellettuali, dove lavoravano, discutevano, giocavano a scacchi, e leggevano i quotidiani bloccati dalle bacchette di supporto. Hugo Meisl, uomo robusto, dallo sguardo incantatore da antico veggente moravo, elegante dentro il suo soprabito, e agghindato di bastone e bombetta. Pare passasse tanto tempo nei caffè da ricevere lì telefonate private e la posta. Spesso, davanti allo stesso Einspänner o Melange, che sorseggiava per ore. E molta corrispondenza al "Central" di Herrengasse arrivava dall’Italia, il mittente portava il nome di Vittorio Pozzo. I due si conobbero nel 1912 alle Olimpiadi di Stoccolma e siccome le loro idee di calcio collimavano si tennero sempre in contatto, per di più in quella primavera del 1934 su cui incombeva il campionato del mondo da disputarsi in Italia, e il Wunderteam rappresentava sicuramente l’avversario più ostico per gli azzurri. Davanti al portiere Platzer, due terzini “larghi”, Cisar e Sesta, al centro Smistik e Zischeck pronti a porsi in verticale per schiacciare l’avversario nella sua metà campo sotto la spada di Damocle del fuorigioco; due mediani forti anche nel rilancio, Wagner e Urbanek, adibiti al controllo delle ali avversarie, il regista Viertl, e, infine, un attacco fornito dal centravanti “Cartavelina” Sindelar, eccelso nei fondamentali, Schall e Bican. Dopo un abbrivio drammatico legato alla partita contro la Spagna nei quarti l’Italia si scontrerà effettivamente con l’Austria, beccandosi nella semifinale del Mondiale, a Milano, domenica 3 giugno 1934 alle ore 15,00. Anche Milano poteva dichiararsi città da caffè, su tutti, raccolto nel modaiolo stile liberty, (dagli intagli d’ebano ai mosaici) il “Camparino” aperto come ristorante e bottiglieria nel 1867 da Gaspare Campari che nel 1915 diventerà, appunto, il Bar Camparino. Sarà il luogo simbolo della cultura milanese tra i pinnacoli del Duomo e la Galleria, dove Verdi e Boito, Puccini, Illica e Giacosa sostavano dopo le rappresentazioni alla Scala. Qui Re Umberto I ed Edoardo VII d’Inghilterra bevevano al banco il Bitter, che ispirò i celebri manifesti-réclame di Cappiello e Nizzoli, fino ai Futuristi Marinetti e Boccioni. E il commissario tecnico Pozzo, durante i suoi frequenti soggiorni meneghini vi andava perchè un caffè corretto all'anice non si poteva rifiutare. Milano era, e in parte lo è ancora, una città d'acqua, acqua dolce. Nel 1930, con la copertura dei Navigli, il centro urbano ricordava vagamente Amsterdam o, in certi scorci, Venezia. Alla domenica gli operai vestiti con l’abito buono passeggiavano sulle sponde dell'Idroscalo dove si incontravano, per le principali manifestazioni, la testa coronata di Vittorio Emanuele III, il “re piccolo” e l'esuberante personalità di Italo Balbo, aviatore e ministro dell'Aeronautica. Ragazzine ventenni che pescavano le rane e giovanotti con i calzoni lunghi, simbolo dell'ingresso nella vita adulta che suonavano la chitarra sotto i pergolati o sulle rive dei canali. Facce pulite come era pulita quell'acqua. Gite romantiche in barca sul Lambro. E poi il primo San Siro, lo stadio costruito nelle vicinanze dell’Ippodromo per il Trotto, ispirato agli stadi inglesi, quattro tribune rettilinee avente capienza fino a 35.000 spettatori, completato in 13 mesi con un costo di 5 milioni di lire ed inaugurato nel 1926 con il derby Milan-Inter (o Ambrosiana). Ancora un mondo antico, ma non piccolo, che nemmeno avrebbe saputo immaginare l'obbrobrio e la stortura ecologica odierna. Una capsula del tempo forse troppo lontana per suscitare malinconia, ma qualche brivido di una misteriosa invidia, quello magari sì. Nella squadra italiana, di un paese apparentemente del “consenso” ormai irreggimentato dal Duce, giocavano diversi oriundi naturalizzati in tutta fretta per aumentare la competitività della squadra. Oltre a Orsi e Guaita, anche il forte centromediano metodista Monti, già finalista quattro anni prima tra le fila dell’Argentina (e non particolarmente simpatico ad alcuni azzurri, tra cui Schiavio, al quale anni prima aveva rotto una gamba), e Guaita. In rosa, e in campo nella partita inaugurale contro gli Stati Uniti, andò pure tale Amphilogino “Filò” Guarisi, un oriundo brasiliano, il primo, per la statistica, a laurearsi campione del mondo. La partita tra Italia e Austria si giocò dopo un furioso temporale e la repentina ricomparsa del sereno, su uno scenario terso e assai combattuto sul campo. Gli azzurri non si risparmiarono nella marcatura di Sindelar. Vittorio Pozzo è ombra lunga,  epica, la mano destra alla fronte, memoria del saluto al copricapo, un uomo che frequentava cinque lingue, che aveva giocato negli svizzeri del Grasshopers, che aveva studiato l'inglese e il football a Manchester, che non aveva abbandonato definitivamente l'impiego dirigenziale alla Pirelli, che viaggiava in seconda classe e scriveva per le pagine di sport de La Stampa, la sola, con la Pirelli, che gli garantisse il salario, perché Pozzo mai volle compensi dalla federcalcio, per essere indipendente, libero di scegliere, di sbagliare, di decidere, di lasciare. Quel giorno schierò Combi in porta, i terzini Monzeglio e Allemandi, Ferraris, Monti e Bertolini in mediana, Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari e Orsi in attacco secondo il classico schieramento a W che proponeva il metodo. A decidere il match, una rete piuttosto contestata per un fallo di ostruzione di Giuseppe Meazza sul portiere austriaco Peter Platzer realizzata dal attaccante Enrico, o meglio "Enrique”, Guaita, detto il Corsaro Nero, un energico argentino che una sera scappò da Roma, accusato di traffico illecito di valuta, a bordo di una lussuosa “Dilambda” (l’ammiraglia del periodo di casa Lancia) arrivando fino a Santa Margherita Ligure dove salì su un treno per la Francia, sparendo all’orizzonte come un eroe rapito dal destino. Oh, il goal fu convalidato tra molte polemiche dall’arbitro svedese Eklind, mentre intanto il portiere italiano Gianpiero Combi salverà il risultato in un paio di occasioni nonostante le cronache coeve abbiano indugiato abbastanza sulla effettiva pericolosità degli attacchi avversari. Italia-Austria ha attraversato i decenni e i confronti, esclusivamente relativi ai Mondiali, ci sono stati con un predominio nemmeno tanto pregnante degli azzurri, ma quel sapore di Mitropa e Mitteleuropa, ovviamente,  è andato perduto. Ci restano, forse, i caffè.

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...