Athlitiki Enosis Konstantinopouleos: focalizzarsi sulla radice dell’ultima parola risulta determinante per intuire origini e tradizione, per percepire che l’identità si imprime nei simboli ed essi assumono un valore ed un significato in ogni periodico mutare di contesto. Quando nella scorsa estate a Istanbul risuonò l’eco della prima preghiera islamica pubblica nella monumentale ex Chiesa di Santa Sofia (emblema perenne delle divisioni interne al mondo cristiano) riconvertita in moschea, le mai sopite tensioni fra Grecia e Turchia ebbero l’ennesima frizione, l’ennesimo motivo per un innalzamento dei toni, per un inasprirsi della polemica prodotta dal significato formale dell’iniziativa identitaria e soprattutto politica portata a compimento dal presidente Erdoğan. Ora, non avrà lo stesso eco e lo stesso spessore l’inaugurazione e l’apertura al pubblico, (Covid permettendo) della nuova Agia Sofia, appunto Santa Sofia, di Atene, anche perché non si tratterà di una chiesa, ma di uno stadio, quello dell’AEK, battezzato così proprio in onore della ex basilica per secoli fulcro della cristianità in Asia Minore. Andrebbe tuttavia rammentato che la scelta di denominare così lo stadio, da un punto di vista cronologico, precede di alcuni anni l’iniziativa di Erdoğan: non si tratta pertanto di una reazione, ma lo sarà in un’ottica nella quale il valore del nome finirà per suonare provocatorio. Peraltro già alcuni elementi architettonici, come l’arco dell’ingresso principale dell’impianto, sorto dalle ceneri del vecchio Nikos Goumas, nel quartiere ateniese di Nea Filadelfia, periferia dell’Attica affacciata sul Mar Egeo dove Temistocle sconfisse i Persiani a Salamina e un istmo di terra la stringe delicatamente al Peloponneso, richiamano a un edificio di culto, perché la laicità del calcio qui resta preda di un miscuglio di sacro al punto che all’interno dello stadio ci sarà una piccola cappella votiva dedicata al santo bizantino Hosios Loukas, a riprova di questo mistico senso di appartenenza che da sempre lega l’ AEK ai suoi tifosi. Una storia cruda che affonda radici e cultura nel conflitto greco-turco. Perché AEK, l’abbiamo detto, è acronimo di Athlītikī Enōsis Kōnstantinoupoleōs, vale a dire: Unione sportiva di Costantinopoli, anno di fondazione 1924. Né il nome, né la data sono casuali, poiché il processo di creazione sarà immediatamente successivo al conflitto dei due anni precedenti quando si giunse a stimare che oltre un milione di greci provenienti dalla penisola anatolica ripararono in Grecia alcuni stabilendosi nei nuovi sobborghi di Atene. Dalla scelta di utilizzare il nome di Costantinopoli ai simboli e ai colori inseriti nello stemma sociale (l’aquila bicipite che guarda a est e a ovest, stemma del perduto impero bizantino, ai colori giallo e nero, mutuati dalle insegne dei Paleologi, la dinastia che resse i romani d’Oriente nell’ultimo periodo della loro esistenza), l’identità dell’AEK segnala una preciso tracciato educativo di riferimento convogliato nel negozio di articoli sportivi dei fratelli Emilios e Menelaos Ionas scintilla toponomasica dell'AEK, accesa dal principio di dare un luogo di ritrovo in cui praticare sport e studio alle centinaia di esuli. Le prestazioni sportive avrebbero determinato il resto, portando l’AEK a diventare una delle società più vincenti del calcio ellenico. Il periodo d’oro coincide con quello della presidenza di Loukas Barlos, compreso tra il 1974 e il 1981. Si mormorava che Barlos tifasse per l’Aris Salonicco in gioventù, essendo nato nell’ex Tessalonica, e che si fosse convertito ai gialloneri dopo aver provato senza successo a entrare nel loro staff dirigenziale. Sebbene l’AEK quindi non fosse la sua scelta iniziale, Barlos fu un autentico benefattore e non fece uso di parsimonia: dopo il titolo vinto nel 1971 l’AEK aveva venduto molti dei migliori calciatori e il club venne innervato di forze fresche guidate dal tecnico František Fadrhonc, figura kafkiana dalle origini boeme che dopo aver preso la nazionalità olandese arrivò addirittura ad allenare quella nazionale fino a diventare, durante la Coppa del Mondo del 1974, il secondo di Rinus Michels. Personaggio strano, Fadrhonc, sguardo schivo, masnadiere da taverna, la fronte alta, nuda, esiti di una calvizie inclemente, con un vago complesso di superiorità nel confronti dei suoi colleghi scrutati sempre da un piedistallo invisibile. Ma bravo lo era davvero. Costruì una delle migliori squadre nella storia dell'AEK grazie all'arrivo di alcuni grandi giocatori innescando un sequel di successi e una prova di forza anche in Europa quando, capitanato da Dimitris “Mimis” Papaioannou, l'AEK nel 1977 raggiunse le semifinali di Coppa UEFA, prima squadra greca a riuscirvi. Vanno spesi almeno quattro nomi, su tutti Thomas Mavros, il nativo di Kallithea, da bambino tifoso del Panionios, con il fratello che lo portava a tutte le partite casalinghe tanto da essere scelto a 7 anni per fare la mascotte del club. Ma il ragazzino farà parlare di se in campo, un fenomeno di attaccante, che segna caterve di reti; l’AEK, e non solo, lo vedono e Barlos tirerà fuori 6 milioni di dracme. Thomas Mavros diventerà il Gerd Muller greco, “la macchina”, “l’assassino”, “il Dio”, “Thomas il nero”, per via del colore corvino dei capelli. Un autentico bomber-oracolo di un intera generazione e non solo, perché se esistono murales intorno a Nea Filadelfia lui vi è sempre raffigurato alla stregua di una divinità olimpica che aleggia sul destino dei mortali. E poi Christos Ardizoglou, arioso, imprevedibile, impressionante. Sbocciato sui campi polverosi di Galatsi e Perissos. Un estremista del dribbling, talmente veloce da far sembrare piccolo il campo, sempre con i calzini calati, privo della paura di essere colpito dai suoi avversari perché semplicemente non lo prendevano mai. C’era Dusan Bajevic, il “Principe”, una delle figure più controverse della storia dell'AEK. Adorato e odiato dai tifosi, nato nel 1948 a Mostar, in Erzegovina, scuola Velez, gran controllo, gran tiro, ultimo passaggio apollineo. Diventerà capocannoniere del campionato Jugoslavo e nel 1977 farà tappa a Atene formando con Mavros il duo d'attacco più importante e prolifico nella storia dell'Unione. E infine Mimis Papaioannou, eroe popolare ed esponente leggendario del calcio greco. Il suo talento purissimo suscitò persino l'interesse del Real Madrid, che offrì oltre 4 milioni di dracme all'AEK e 750.000 al calciatore, cifre astronomiche. L'AEK rifiutò e Papaioannou, in quel momento giovane imbarazzato, ingenuo e contrariato dall’atteggiamento del suo club, decise di aprire una parentesi nella sua vita tentando di fare carriera nel canto, accompagnando Stelios Kazantzidis, Marinela e Christos Nikolopoulos in una tournée in Germania dove però evidentemente le muse lo ridestarono riportandolo al suo posto naturale ossia non sul palco, bensì piantato nel bel mezzo del centrocampo dell’AEK. E farà benissimo, trainando la squadra a cinque titoli e a tre Coppe nazionali, assicurandosi lo scettro di primo marcatore nella storia del club con 291 goal e secondo per apparizioni (568). Allo stesso tempo la passione per la musica rimase immutata, anzi ha voluto utilizzarla registrando l'inno paradigmatico dell'AEK: “ΜΙΑ ΑΓΑΠΗ ΕΧΩ ΣΤΗΝ ΚΑΡΔΙΑ” (Ho un amore nel mio cuore).
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