domenica 18 luglio 2021

INOLVIDABLES


Era domenica. Domenica 30 novembre 1980 a San Sebastian. Autunno, autunno inoltrato, ma i baschi questo periodo lo chiamano “ultima estate”, un amalgama d’allegria e malinconia, l’amore sincero per la stagione più romantica dell'anno. Che fosse giorno festivo si sarebbe potuto sentire dall’odore nitido dei “pintxos”, dalle pentole bollenti di “txangurros”, dal borbottio delle donne che vendevano “kiskillas", dal fumo dei Era domenica. Domenica 30 novembre 1980 a San Sebastian. Autunno, autunno inoltrato, ma i baschi questo periodo lo chiamano “ultima estate”, un amalgama d’allegria e malinconia, l’amore sincero per la stagione più romantica dell'anno. Che fosse giorno festivo si sarebbe potuto sentire dall’odore nitido dei “pintxos”, dalle pentole bollenti di “txangurros”, dal borbottio delle donne che vendevano “kiskillas", dal fumo dei sigari dei marinai seduti nei pescherecci ormeggiati sui moli. Tuttavia, a pensarci bene, per il clima di questi luoghi poteva essere qualsiasi altro giorno del calendario perché a San Sebastian il cielo si contorce quasi quotidianamente in un affanno di toni di grigio come se avesse mal di pancia e dovesse da un momento all’altro liberarsi del suo carico. Anche quel giorno le onde spumose portate dal vento si infrangevano sulle colline rocciose di Igueldo e Urgull, si dividevano in due, abbracciando l’isoletta di Santa Clara, infine rallentavano, smorzate, per entrare ad accarezzare la battigia sabbiosa de "la Concha", la baia di San Sebastian, ritirandosi definitivamente nel turbine del mar di Cantabria. San Sebastian mostrava la solita cartolina di una città permeata dal fascino del porto mescolato alla suggestione di un paesino di montagna. Nel tardo pomeriggio, d’oro e magenta, assieme al rumore delle foglie secche calpestate e alle grida stridule degli uccelli che migravano a triangoli sulla volta ormai gocciolante, si sviluppò una frenesia insolita fra i dedali di vie addobbate da bandieroni colorati a strisce biancoblu e dalla ritrovata, commovente "Ikurrina". Allo stadio di Atocha (o Atotxa in lingua madre) si sarebbe disputato il derby "Vasco" contro i vicini dell’Athletic Bilbao. Solo, campeggiava nell’aria una novità essenziale, una novità mica da poco, in quanto “l’Erreala” si trovava a comandare la classifica del campionato. Atocha era lo spazio sentimentale, la memoria, Atocha era una scatolina di fiammiferi pronti a prendere fuoco, ventimila anime e venti pali di sostegno delle tribune, lunghi, umidi, salmastri, eppure struggenti, collocati a occultare occhi e visuale, eppure pazienza, dicevamo ventimila e forse più, tutti stretti come sardine, dall’alto pareva una sorta di biliardino, piccolo e fiero, rinserrato dalle case attigue, al punto da far sembrare i giocatori vincolati davvero a delle stecche invisibili, oppure, usando un termine marinaro, attraccati alla loro bitta d’appartenenza, salvati inconsciamente dalla furia iconoclasta del mondo, quella che oggi sta spazzando via ogni residuo d’identità. Atocha si trovava nella parte bassa del Barrio di Egia, in Calle Duque de Mandas, ad un passo da Tabakalera, quartiere popolare piantato dentro l’orgoglio delle antiche radici. Alle 16 e 30 il calcio d’inizio della partita. Il terreno si presentava con le consuete aree impiastricciate di fango, le ombre della sera bucate dai riflettori, e poi quella pioggia, lieve, persistente, pungente, nell’estasi di divise da beatificazione laica. Già, Atocha. Bisognerebbe porsi ogni volta delle domande, la curiosità per la storia. Atocha arriva da lontano, pare sia stato l’appellativo di un importante famiglia di Donostia originaria della Navarra stabilitesi in loco. Un minuto e Atocha ebbe il primo boato, Jesús María Satrústegui Azpiroz portò in vantaggio i padroni di casa infilando la palla dentro una di quelle porte con il palo verniciato di nero sulla parte inferiore, i supporti incurvati simili a semi finestre gotiche in cui avvolgere, strettissima, la rete, tanto che le cose erano due: o il pallone si rannicchiava in un abbraccio fra le maglie e l’intelaiatura, oppure rimbalzava fuori nonostante fosse entrato, esattamente come in qualche occasione fa un Subbuteo o un biliardino del caffè sul lungomare. Ma lasciamo un attimo la Real Sociedad avanti di un goal a zero, perché magari qualcuno, in impeto di “archè”, potrebbe voler sapere l’origine delle cose. Per esempio cosa c'entra la Real Sociedad de Fútbol con il San Sebastián Cycling Club? Cerco di spiegare. Ben prima della fondazione della squadra di calcio c’era questo gruppo di allegri ciclisti da scampagnata, e quando nascerà l’embrione calcistico a San Sebastián i calciatori chiesero di partecipare al campionato spagnolo con tanto di carte bollate ma il problema consisteva nel fatto che la nuova entità sportiva non faceva parte di nessuna società debitamente legalizzata dal governo e gli fu negato il permesso. Poiché il tempo stringeva, i dirigenti del ciclismo accolsero di affiliare il pallone alle biciclette permettendo in tal modo di far partecipare la neonata formazione al torneo nazionale. Si trattava della cosiddetta Fopt Ballty Society, nata il 7 settembre 1909, giusto pochi mesi dopo allorchè Adolfo Sáenz, presidente della società appigionata al Quartiere Ondarreta lettera A, ricevette da Sua Maestà Re Alfonso XIII un decreto firmato dal Marchese di Torrecilla, che concedeva al club il titolo di Reale. Quando la Real Sociedad si stabilì definitivamente ad Atocha però fu necessario demolire la pista del velodromo. Un certo señor Comet, anima materiale del ciclismo di San Sebastián, per la rabbia predisse che la Real Sociedad non sarebbe mai stata campione di Spagna. Oh, va detto a onor del vero che ci prese per diversi anni, almeno finché il vaticinio sfumò come un nuvolone nero sullo sfondo della baia di Donostia. Satrústegui segnò ancora, non era passato neanche un quarto d’ora ed eravamo 2-0. Qualche manico d’ombrello nella foga si ruppe, qualche cappello basco in feltro volò sul campo zuppo. Quella stagione stava diventando una dimostrazione chiara e inequivocabile che i “los Txuri-urdin” potevano vincere la Liga senza per forza dover terminare un libretto degli assegni. Ci volle solo la pazienza di attendere i frutti del vivaio. Nel secondo tempo, i giocatori assomigliavano a cioccolatini di melma, i tetti di Atocha sgrondavano acqua, e i ventimila delirarono alla doppietta di López Ufarte: 4-0 che diventerà 4-1 ma poco importa, il derby era vinto e la Real Sociedad iniziò a graffiare seriamente le certezze di Barcellona e Real Madrid. In panchina sedeva Alberto Ormaetxea, moro, criptico, enigma irrisolto come la genesi basca, taciturno, il volto scavato da crepe di una bellezza antica, la capacità di tenere in mano lo spogliatoio usando bastone e carota. L’ufficialità del primo successo giunse il 26 aprile 1981 quando, quasi all'ultimo secondo dell’ultima giornata, nella visita del “txuriurdin” al Molinón di Gijon, dove il baffuto e riccio Jesús Mari Zamora realizzò la rete che rese felice un popolo. E quella rete rimarrà impressa in sei scatti fotografici che trovate esposti, appesi, in tantissimi negozi e ristoranti cittadini. E dire che quel pomeriggio in molti stavano già piangendo di tristezza perché "l’Erreala" languiva alla ricerca del pari, sotto 2-1, e il Real Madrid invece stava vincendo il suo match e l'ennesimo titolo. Le persone accalcate alla radio ascoltavano con mistica sofferenza la voce di Joxean Alkorta, la voce della Real Sociedad in quel momento, una voce ad un tratto sussultoria: "C'è un passaggio di Olaizola verso Alonso, lancio di Alonso, Castro salta, la tocca con i pugni, la palla arriva su Gorriz, tiro di Górriz respinto, attenzione, Zamora ha la palla, tira e ... goool, goool, goal de la Real, goal, goool, goal de la Real, gooooooooooool de la Real, Zamora, Zamora! incredibile! Mentre intanto le telecamere della "Televisión Española" di Donostia, con il giornalista Eduardo Sarabia, posizionate al Juan Bar di San Sebastian coglievano il giubilo irrefrenabile dei tifosi che seguivano la partita del Molinón. Il trionfo datato 80/81 reca il marchio indelebile del portiere Luis Arconada, titolare inamovibile dal 1976. Soprannominato "El Pulpo", l’estremo difensore, fu un autentico baluardo, capace di calare una saracinesca sullo specchio della porta nelle giornate di grazia. Periko Alonso fu l’uomo d’ordine di centrocampo (il figlio Xabi ne ha raccolto degnamente l’eredità). Al centro dell’attacco, lo abbiamo nominato, Jesus Maria Satrùstegui, uno dei tanti prodotti del vivaio, centravanti d’area di rigore, fisicamente possente, capace di segnare sedici reti in quell’ agone d’apertura di decennio. Notevole fu il contributo di Roberto Lopez Ufarte, soprannominato “Diablito”, punto di forza nonostante la giovane età basco da antropologia, faccia acuta, tempie larghe, così piene da sembrare rigonfie, la testa disarmonica, o, per dir meglio alta, con il mento lungo e appuntito. E poi Santiago Idigoras, il vichingo, biondissimo, molto meno appariscente di Satrùstegui, ciò nondimeno si meritò la fiducia di mister Ormaetxea che lo inserì stabilmente tra i titolari. La linea difensiva era composta da Julio Olaizola, Genaro Celayeta, dal corsaro Ignacio Kortabarria e da Alberto Gorriz, autore del tiro della disperazione che si trasformò in assist per il colpo vincente di Zamora. All’ala destra fu impiegato il diligente Josè Diego Alvarez, tra i rincalzi si mise in evidenza il giovanissimo e talentuoso Josè Maria Bakero, appena diciassettenne, capace di totalizzare addirittura ventisette presenze: “Inolvidables”, dicono loro, indimenticabile.sigari dei marinai seduti nei pescherecci ormeggiati sui moli. Tuttavia, a pensarci bene, per il clima di questi luoghi poteva essere qualsiasi altro giorno del calendario perché a San Sebastian il cielo si contorce quasi quotidianamente in un affanno di toni di grigio come se avesse mal di pancia e dovesse da un momento all’altro liberarsi del suo carico. Anche quel giorno le onde spumose portate dal vento si infrangevano sulle colline rocciose di Igueldo e Urgull, si dividevano in due, abbracciando l’isoletta di Santa Clara, infine rallentavano, smorzate, per entrare ad accarezzare la battigia sabbiosa de "la Concha", la baia di San Sebastian, ritirandosi definitivamente nel turbine del mar di Cantabria. San Sebastian mostrava la solita cartolina di una città permeata dal fascino del porto mescolato alla suggestione di un paesino di montagna. Nel tardo pomeriggio, d’oro e magenta, assieme al rumore delle foglie secche calpestate e alle grida stridule degli uccelli che migravano a triangoli sulla volta ormai gocciolante, si sviluppò una frenesia insolita fra i dedali di vie addobbate da bandieroni colorati a strisce biancoblu e dalla ritrovata, commovente "Ikurrina". Allo stadio di Atocha (o Atotxa in lingua madre) si sarebbe disputato il derby "Vasco" contro i vicini dell’Athletic Bilbao. Solo, campeggiava nell’aria una novità essenziale, una novità mica da poco, in quanto “l’Erreala” si trovava a comandare la classifica del campionato. Atocha era lo spazio sentimentale, la memoria, Atocha era una scatolina di fiammiferi pronti a prendere fuoco, ventimila anime e venti pali di sostegno delle tribune, lunghi, umidi, salmastri, eppure struggenti, collocati a occultare occhi e visuale, eppure pazienza, dicevamo ventimila e forse più, tutti stretti come sardine, dall’alto pareva una sorta di biliardino, piccolo e fiero, rinserrato dalle case attigue, al punto da far sembrare i giocatori vincolati davvero a delle stecche invisibili, oppure, usando un termine marinaro, attraccati alla loro bitta d’appartenenza, salvati inconsciamente dalla furia iconoclasta del mondo, quella che oggi sta spazzando via ogni residuo d’identità. Atocha si trovava nella parte bassa del Barrio di Egia, in Calle Duque de Mandas, ad un passo da Tabakalera, quartiere popolare piantato dentro l’orgoglio delle antiche radici. Alle 16 e 30 il calcio d’inizio della partita. Il terreno si presentava con le consuete aree impiastricciate di fango, le ombre della sera bucate dai riflettori, e poi quella pioggia, lieve, persistente, pungente, nell’estasi di divise da beatificazione laica. Già, Atocha. Bisognerebbe porsi ogni volta delle domande, la curiosità per la storia. Atocha arriva da lontano, pare sia stato l’appellativo di un importante famiglia di Donostia originaria della Navarra stabilitesi in loco. Un minuto e Atocha ebbe il primo boato, Jesús María Satrústegui Azpiroz portò in vantaggio i padroni di casa infilando la palla dentro una di quelle porte con il palo verniciato di nero sulla parte inferiore, i supporti incurvati simili a semi finestre gotiche in cui avvolgere, strettissima, la rete, tanto che le cose erano due: o il pallone si rannicchiava in un abbraccio fra le maglie e l’intelaiatura, oppure rimbalzava fuori nonostante fosse entrato, esattamente come in qualche occasione fa un Subbuteo o un biliardino del caffè sul lungomare. Ma lasciamo un attimo la Real Sociedad avanti di un goal a zero, perché magari qualcuno, in impeto di “archè”, potrebbe voler sapere l’origine delle cose. Per esempio cosa c'entra la Real Sociedad de Fútbol con il San Sebastián Cycling Club? Cerco di spiegare. Ben prima della fondazione della squadra di calcio c’era questo gruppo di allegri ciclisti da scampagnata, e quando nascerà l’embrione calcistico a San Sebastián i calciatori chiesero di partecipare al campionato spagnolo con tanto di carte bollate ma il problema consisteva nel fatto che la nuova entità sportiva non faceva parte di nessuna società debitamente legalizzata dal governo e gli fu negato il permesso. Poiché il tempo stringeva, i dirigenti del ciclismo accolsero di affiliare il pallone alle biciclette permettendo in tal modo di far partecipare la neonata formazione al torneo nazionale. Si trattava della cosiddetta Fopt Ballty Society, nata il 7 settembre 1909, giusto pochi mesi dopo allorchè Adolfo Sáenz, presidente della società appigionata al Quartiere Ondarreta lettera A, ricevette da Sua Maestà Re Alfonso XIII un decreto firmato dal Marchese di Torrecilla, che concedeva al club il titolo di Reale. Quando la Real Sociedad si stabilì definitivamente ad Atocha però fu necessario demolire la pista del velodromo. Un certo señor Comet, anima materiale del ciclismo di San Sebastián, per la rabbia predisse che la Real Sociedad non sarebbe mai stata campione di Spagna. Oh, va detto a onor del vero che ci prese per diversi anni, almeno finché il vaticinio sfumò come un nuvolone nero sullo sfondo della baia di Donostia. Satrústegui segnò ancora, non era passato neanche un quarto d’ora ed eravamo 2-0. Qualche manico d’ombrello nella foga si ruppe, qualche cappello basco in feltro volò sul campo zuppo. Quella stagione stava diventando una dimostrazione chiara e inequivocabile che i “los Txuri-urdin” potevano vincere la Liga senza per forza dover terminare un libretto degli assegni. Ci volle solo la pazienza di attendere i frutti del vivaio. Nel secondo tempo, i giocatori assomigliavano a cioccolatini di melma, i tetti di Atocha sgrondavano acqua, e i ventimila delirarono alla doppietta di López Ufarte: 4-0 che diventerà 4-1 ma poco importa, il derby era vinto e la Real Sociedad iniziò a graffiare seriamente le certezze di Barcellona e Real Madrid. In panchina sedeva Alberto Ormaetxea, moro, criptico, enigma irrisolto come la genesi basca, taciturno, il volto scavato da crepe di una bellezza antica, la capacità di tenere in mano lo spogliatoio usando bastone e carota. L’ufficialità del primo successo giunse il 26 aprile 1981 quando, quasi all'ultimo secondo dell’ultima giornata, nella visita del “txuriurdin” al Molinón di Gijon, dove il baffuto e riccio Jesús Mari Zamora realizzò la rete che rese felice un popolo. E quella rete rimarrà impressa in sei scatti fotografici che trovate esposti, appesi, in tantissimi negozi e ristoranti cittadini. E dire che quel pomeriggio in molti stavano già piangendo di tristezza perché "l’Erreala" languiva alla ricerca del pari, sotto 2-1, e il Real Madrid invece stava vincendo il suo match e l'ennesimo titolo. Le persone accalcate alla radio ascoltavano con mistica sofferenza la voce di Joxean Alkorta, la voce della Real Sociedad in quel momento, una voce ad un tratto sussultoria: "C'è un passaggio di Olaizola verso Alonso, lancio di Alonso, Castro salta, la tocca con i pugni, la palla arriva su Gorriz, tiro di Górriz respinto, attenzione, Zamora ha la palla, tira e ... goool, goool, goal de la Real, goal, goool, goal de la Real, gooooooooooool de la Real, Zamora, Zamora! incredibile! Mentre intanto le telecamere della "Televisión Española" di Donostia, con il giornalista Eduardo Sarabia, posizionate al Juan Bar di San Sebastian coglievano il giubilo irrefrenabile dei tifosi che seguivano la partita del Molinón. Il trionfo datato 80/81 reca il marchio indelebile del portiere Luis Arconada, titolare inamovibile dal 1976. Soprannominato "El Pulpo", l’estremo difensore, fu un autentico baluardo, capace di calare una saracinesca sullo specchio della porta nelle giornate di grazia. Periko Alonso fu l’uomo d’ordine di centrocampo (il figlio Xabi ne ha raccolto degnamente l’eredità). Al centro dell’attacco, lo abbiamo nominato, Jesus Maria Satrùstegui, uno dei tanti prodotti del vivaio, centravanti d’area di rigore, fisicamente possente, capace di segnare sedici reti in quell’ agone d’apertura di decennio. Notevole fu il contributo di Roberto Lopez Ufarte, soprannominato “Diablito”, punto di forza nonostante la giovane età basco da antropologia, faccia acuta, tempie larghe, così piene da sembrare rigonfie, la testa disarmonica, o, per dir meglio alta, con il mento lungo e appuntito. E poi Santiago Idigoras, il vichingo, biondissimo, molto meno appariscente di Satrùstegui, ciò nondimeno si meritò la fiducia di mister Ormaetxea che lo inserì stabilmente tra i titolari. La linea difensiva era composta da Julio Olaizola, Genaro Celayeta, dal corsaro Ignacio Kortabarria e da Alberto Gorriz, autore del tiro della disperazione che si trasformò in assist per il colpo vincente di Zamora. All’ala destra fu impiegato il diligente Josè Diego Alvarez, tra i rincalzi si mise in evidenza il giovanissimo e talentuoso Josè Maria Bakero, appena diciassettenne, capace di totalizzare addirittura ventisette presenze: “Inolvidables”, dicono loro, indimenticabile.


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