sabato 24 luglio 2021

DINAMO E DINTORNI



Nevica su Zuevo, distretto di Bogorodsky, provincia di Mosca. Il bianco fagocita uomini e cose, distribuisce freddo iniquo, grandi stufe di ceramica e caminetti in muratura, il bianco, magico e terribile dell’inverno russo, lastroni di ghiaccio e marciapiedi congelati, tombini che fumano accanto a cumuli di neve apparentemente invincibile ai bordi delle strade, una neve bellissima, va detto, compatta, secca, luccicante, che sembra zucchero, già, lo zucchero spruzzato e arruffato composto dai fiocchi sul cappello di un inglese, un ingegnere dai consueti baffoni: Clement Charnock. Lui viene da Oldham, la Russia Zarista gli ha aperto prospettive di mercato come una Matrioska e ora dirige insieme ai fratelli Morozov una fabbrica tessile. Nella valigia si è portato dietro rotoli di progetti e un pallone da calcio. Ai giovani biondastri, dagli zigomi alti e le labbra carnose piace, si divertono, e ai russi di norma non piace sorridere. Per questo quando sorridono, si può star stare certi che si tratta di un sorriso sincero. L'inglese ha fondato una squadra, non appena la stagione si mostra più clemente giocano su un campo dietro l'ospedale infantile di Mosca, nei pressi della stazione ferroviaria di Rizhski. E’ il 1887 e loro sono l’OKS Moskva, l'embrione della Dinamo. Vincono anche un paio di campionati, poi una decina d’anni dopo lo scoppio della Rivoluzione si inaugura lo stadio di Petrovski per un gruppo che diventerà in breve preda dell’Ministero dell’Interno e quindi della Čeka, la polizia segreta. L’OKS si trasforma nella maggiormente proletaria Dinamo Mosca, maglia bianca, pantaloni e colletto blu; a disegnare i contorni del motivo societario sarà Fëdor Fedorovich Chulkov, un ex portiere, e guarda caso da lì a poco tempo sarà proprio un portiere a tracciare la storia del club o forse viceversa, insomma sulle divise apparirà cucito l’emblema della Dinamo, il diamante, racchiuso, quasi nascosto, dalla solenne lettera D in matrice cirillica. Petrovski era punto di circonferenza con la punta del compasso ficcata sul tetto del Teatro Bol'šoj, lo stesso raggio toccava la Basilica dell'Assunzione di Pokrovka, la Notre Dame moscovita, costruita dal misterioso architetto, o intagliatore di pietre, Pyotr Potapov. Quando Dostoevskij veniva a Mosca, si fermava sempre davanti a lei e faceva un inchino. Nel suo “Note invernali su impressioni estive” lo scrittore afferma che Mosca in fondo è una grande capitale con l'anima di un villaggio, il riflesso di tutto un paese, l'ereditiera di Bisanzio, un luogo di frontiera forgiato nel miscuglio di Europa e Asia dove diventa impossibile non soccombere di fronte al suo fascino. La Dinamo vincerà, il regime le strizza l’occhio, eppure il tasso tecnico è alto, molto alto, meritevole. Al termine della seconda guerra mondiale fu la prima squadraa a est di Berlino ad effettuare un tour in Occidente, accadde nel 1945, toh, ovviamente nel Regno Unito: completamente sconosciuti, i giocatori rigorosamente alloggiati, e minuziosamente perquisiti per paura di atomiche nei borsoni, all'ambasciata sovietica, impressionarono la stampa e i tifosi britannici, pareggiando 3-3 contro il Chelsea, vincendo 10-1 contro il Cardiff City, e battendo l'Arsenal 4-3, con i gunners fra l'altro rinforzati dalla presenza di Stanley Matthews e Stan Mortensen, (una partita che a ogni moto di rivoluzione terrestre, si ricopre di un alone di leggenda tanto non c’è nessuno che possa smentirla perché i presenti non hanno visto praticamente nulla a causa della nebbia) per concludere 2-2 contro i Rangers di Glasgow in un lampo maldestro di premonizione, di futuro prossimo. Imbattuti, bellissimi nella loro tuta d’ordinanza blu, elegantissimi all’uscita di ogni tunnel di spogliatoio con i giocatori recanti un mazzo di fiori da donare al pubblico impazzito di riconoscenza. Nel 1949 vincono il campionato sovietico segnando 104 reti e subendone appena 30, un record tuttora imbattuto. Forte, distinto, alla stregua un nitrire di cavalli al galoppo nella steppa tartara, delicato come un soffice berretto di stoffa scura adagiato nel ventre solido della cortina di ferro sbucò Lev Ivanovich Yashin, “il ragno nero”, figlio di genitori operai nell’industria siderurgica, oliati a dovere nel mito dell’acciaio nazionale. Il compagno Yashin inizia adolescente a lavorare, occorre rimpiazzare coloro che sono impegnati al fronte con il colbacco dalla stella rossa. Una volta terminato il conflitto Yashin entra nella Dinamo e nel 1950 vi debutta contro il Traktor Stalingrado. E' un disastro, addirittura subisce una rete direttamente dal rinvio del portiere avversario, poi ancora strafalcioni all’esordio in campionato. Il Ministero degli Interni ci pensa un attimo, triangolazione telefonica, un paio di perenni “Da”, e Yashin viene spedito nella squadra di Hockey su ghiaccio. Il giovane Yashin da delitto e castigo, si fortifica caratterialmente, no anzi, si trasforma al punto che nel giro telefonico inverso torna ad occupare i pali della Dinamo sostituendo il portiere titolare, solo che dopo quella partita manterrà il posto per 18 anni consecutivi comprensivi di 812 gare ufficiali, mentre intanto il satellite Sputnik elargisce immagini in contemporanea a tutto il mondo. Si veste di nero, Yashin, al pari di un monaco ortodosso che abbandona la vita mondana, strepitoso Yashin, una prontezza di riflessi unica, una visione nelle ripartenze che farà sussultare Bobby Charlton pronto a dichiarare in un intervista: “Yashin farà pure il portiere ma gioca meglio di un centrocampista”. Gli unici vizi sono un bicchiere di vodka (“per tonificare i muscoli”) e una sigaretta (“per rilassare i nervi”). Sui calci di rigore ha una sua tecnica segreta, si stima ne abbia parati oltre 150 nel corso della sua carriera: “provo a parare i rigori pensando a Jurij Gagarin, a questo figlio di contadini, gente umile come i miei genitori, che è volato nello spazio libero dalla gravità che ci appiccica al suolo”. Quando nel 1971 il suo epigono Volodymyr Pilhuj nella sacca del vestiario non troverà la numero 1, si dovette ben presto accontentare della cosiddetta 12, in quanto il club decise di ritirare quella maglia nonostante Lev si fosse opposto spiegando con modestia che magari ci sarebbero stati nuovi portieri altrettanto meritevoli di indossarla. Non sarà così, e obiettivamente sarebbe stato complicato persino pensarlo, ciò nonostante la Dinamo Mosca orfana di Yashin e ancora allenata dal santone Konstantin Beskov raggiunse la finale di Coppa delle Coppe con il capitano Vladimir Dolbonosov, il centromediano József Szabo, e le ali Anatolij Bajdačnyj ed Gennadij Evrjužichin. I "Belo-Golubye" (bianco blu), non portarono fiori di cortesia quella volta ai Rangers nell’immenso terreno intriso di pioggia del Nou Camp di Barcellona. Una partita rocambolesca che gli scozzesi in pratica avevano già vinto a mezzora dal termine, avanti per 3-0, ma che si trovarono a difendere con le unghie, e un improvviso senso di angoscia, dopo le due reti dei russi animati caparbiamente dagli esiti delle carte maldestre uscite prematuramente sul tavolo del loro destino in un ormai inutile coraggio stretti sulla banchina fatale di Anna Karenina.
 

 


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