martedì 31 agosto 2021
THE EDIMBRA' DERBY
venerdì 20 agosto 2021
UN LIBRO, IL MALMO, E BOB.
Chissà se nel caso di qualificazione ai gironi di Champions sarà più felice Mikael Bergstrand o Göran Borg. Ah, capiamoci, il primo è uno scrittore, il secondo è il personaggio di uno dei suoi libri più famosi o forse, come spesso capita, è una proiezione letteraria di chi scrive, un alter ego con connotati e attitudini molto simili. Beh, riguardo al libro in questione vale a dire “La seconda vita del signor Borg” edito in Italia da Piemme nel 2013, il protagonista è un cinquantaduenne che nell’ultimo periodo non se la passa troppo bene: divorziato suo malgrado, sovrappeso, snobbato dai figli e vessato da un capo parecchio più giovane di lui che gli ripete in maniera ossessiva di non essere al passo con i tempi. Il nostro Göran ha l’abitudine di andare in ufficio indossando un dolcevita nero sotto una giacca di velluto piuttosto consunta oltre a portarsi dietro un passato da batterista abbastanza modesto. Qualche gioia gliela regala il calcio, eppure sarà proprio da lì che gli arriverà la stoccata decisiva, esattamente il giorno in cui viene licenziato in tronco per l’assidua frequentazione del blog dedicato alla sua squadra. Una pagina chiamata Himmelriket (Il Paradiso) Malmö FF. E siccome per il suo superiore il Malmö FF non risultava fra i clienti dell’azienda, l’ormai biondo cenere Göran Borg sarà accompagnato all'uscita, ma prima di sbracarsi sul divano a mangiare gelato e guardare vagonate di partite aspettando una chiamata dall’ufficio di collocamento, salta fuori Erik, il suo migliore amico, ex fricchettone riciclatosi come accompagnatore turistico che gli propone un viaggio in India dove, vi assicuro, vivrà la più eccitante avventura che gli sia mai capitata. A questo punto stop allo spoiler e casomai se vi interessa leggetevi il libro. Ad ogni modo il Malmö FF è vicino ad entrare per la terza volta della sua storia nei gironi della moderna Champions League, e in qualche modo la presenza di questo nome fa piacere anche a noi incartapecoriti nostalgici perché ci riporta a quella squadra che nel 1979 giocò ai dadi con il Nottingham Forest, in una tiepida notte bavarese, per decidere a chi dovesse essere assegnato il premio di sorpresa della stagione. Sulla panchina degli svedesi, guarda caso, c’era un inglese: Bob Houghton giovanotto londinese scarmigliato con il vezzo di girare con un cappotto di pelle scamosciata recuperato nei mercatini di Portobello Road e finito a giocare in Sudafrica per racimolare qualche sterlina. A trovarlo fu un certo Börje Lantz, fidatissimo agente uscito dal taschino del presidente del club, Eric Persson. Ora, come sia potuto accadere che Lantz sia andato a recuperare questo tizio in capo al mondo per fargli allenare il Malmö non è un mistero della fede bensì, pare, una sommatoria di consigli avuti sia da Allen Wade, sia dal grande Bobby Robson. Insomma, per farla breve, Lantz si precipitò a Johannesburg promettendo a Houghton di pagargli un biglietto aereo per l’Inghilterra a condizione che si fosse fermato un po’ ad allenare il Malmö. E Bob accettò, previa dono di un compasso. Si avete capito bene, un compasso di quelli da compendio scolastico da disegno. Mise la punta su Solbacken (in pratica il centro indicativo della città) è tracciò una circonferenza avente raggio 50 km. In pratica la filosofia di Bob Houghton stillava della prassi di coniugare football e appartenenza in una sorta di aggancio imitativo (magari, perché no, altrettanto qualitativo ed emotivo) con il Celtic del 1967. Tuttavia, se si ha in testa la situazione geografica di Malmö si evince che almeno la metà di quel cerchio imbarcava acqua, quindi le possibilità di pescare calciatori e non salmoni mostrava evidenti difficoltà logistiche. Invece, in barba ai detrattori del quoziente identitario, il 30 maggio 1979 gli undici titolari usciti dal tunnel degli spogliatoi erano originari della Scania, la contea di Malmö. Un autentico record di concentrazione indigena che per tre volte era riuscito a conquistare il cosiddetto Allsvenskan. Dall’estremo difensore Jan Möller ai tre Andersson: Roland e Magnus, più Tommy. La squadra si presentò capitanata da Ingemar Erlandsson, bandiera del club biancazzurro a cui avrebbe dedicato l’intera carriera. Accanto a lui Anders Ljungberg, detto “Puskás”, mentre in attacco Houghton aveva riposto la sua fiducia in Tore Cervin e Tommy Hansson, entrambi di Möllevången, quartiere operaio di Malmö. Alle spalle un diciannovenne, Robert Prytz, centrocampista di Kirseberg, sobborgo a nord della città. A dirla tutta (nessuno sui senta offeso se per un attimo provo a sfatare il mito del Forest) quella partita fu persa soprattutto a causa di un grave infortunio, quello di Bo Larsson, forse il miglior calciatore svedese di sempre che aveva esordito a 18 anni nel 1962. “Bosse” ebbe un infortunio in semifinale ad un ginocchio e si accasciò malconcio a terra accompagnato fuori dallo staff medico. Senza la sua stella, e anche senza Staffan Tapper, costretto ad uscire verso la fine della prima frazione per i postumi dolorosi di un dito rotto alla vigilia, il Malmö e il suo calcio fatto in casa, diligente e privo di stravaganze, fu punito da un guizzo di Trevor Francis, ma ahimè quanti rimpianti.
venerdì 13 agosto 2021
MINSK E NUVOLE
Il calcio sincero. Ritengo, ma servirebbe un valido linguista a corredo, che la traduzione dal russo non sia esattamente perfetta, probabilmente il termine “calcio genuino” renderebbe più lealtà al cirillico. Va detto altresì che a Minsk tutto pare comunque fuori scala. Ogni palazzo, ogni piazza, ogni parco, ogni via: tutto sembra – ed in effetti a veder bene lo è – enorme, esagerato, nelle sue dimensioni. Quel gran birbone baffuto di Stalin, cui si deve la ricostruzione dalle macerie dovute agli esiti del secondo conflitto mondiale, voleva fosse la città del sole: spaziosa e ariosa. E naturalmente il desiderio dell’eminentissimo compagno segretario risultava assai complicato da far recedere. Così Minsk, vista dall’alto, più che una città compatta appare una sorta di ritaglio in cui tante tessere di un puzzle si alternano fra loro incastrando enormi spazi verdi e quartieri altrettanto densi e maestosi. Si trovano ovviamente i soliti isolati di casermoni residenziali in cemento prefabbricato di puro solfeggio socialista, con le aiuole piantate a betulle e i fiori a segnare i confini con le strade. La registrazione ufficiale della Futbol'ny Klub Dynama Minsk (in bielorusso, mi perdonerete, occorre copiare e incollare, Футбольны клуб Дынама Мінск, si attesta nel 1927 da iniziativa di un gruppo sportivo già presente. Vicina, ma non vicinissima ai colbacchi da parata del Ministero dell’Interno, i colori sfuggono al materialismo e poggiano su di un retroterra poetico. Il bianco rappresenta la cicogna, che per i bielorussi è simbolo di pace e prosperità. Va da sé poi sia diventato anche il nome della prima bicicletta, un famosissimo modello per ragazzi prodotto da una fabbrica di Minsk. Il blu invece sta per il fiordaliso, dal bocciolo delicato, che cresce nei campi di grano e qui c’è un netto richiamo antropologico all’iride locale. Nel 1982 dallo stadio Traktar, cassettone scampanato di cemento e ferro bazzicato dai venti del Baltico, uscirono baci e gesti d’amore. Sembra una canzoncina da giovane cosacco, all'opposto sono le parole di Mikhail Vergeenko, l'ex portiere protagonista dell’unico successo nel campionato sovietico della Dinamo Minsk. Niente di organizzato, solo affetto. Un affetto persino smodato a indicare la portata del trionfo, poiché le folle nella vecchia URSS scendevano malvolentieri a festeggiare perlopiù in quei giorni di disagio immediatamente successivi alla morte di Leonid Breznev, per tanto tempo sovrano di ogni terra dagli Urali allo stretto di Bering. La spontaneità risultava pericolosa e disapprovata dal regime, eppure, quando la squadra arrivò in treno da Mosca, dopo aver vinto le ultime due partite, fu sopraffatta dai tifosi e da un suono di fisarmoniche. Il calcio era una distrazione per le persone, alcune delle quali non vivevano una vita diciamo particolarmente felice. La Dinamo, dopotutto, era davvero la più spontanea delle squadre. Un'altra Dinamo quella di Kiev, 270 miglia a sud-est in Ucraina, aveva al timone Valeriy Lobanovsky pioniere nell'uso della tecnologia informatica per mostrare in cosa si poteva trasformare il calcio datagli una scienza esatta, usando i giocatori alla pari di ingranaggi dal volto robotico, un po’ alla stregua dell'inquietante automa del barone von Kempelen; a Minsk, sotto Eduard Malofeev, il calcio invece decisamente s'assimilava a una dote, una roba da bottega artigiana, artistica. Eccolo il punto. Malofeev, allenatore filosofo, descrisse la sua pratica come qualcosa di romantico, puro, scevro di alchimie. Nessun infortunio grave figlio contatto troppo pericolosi, nessun intervento al limite. Oh, sia chiaro, mica pagavi l'ingresso di un teatrino di bambole pezzate, bensì il rettangolo di gioco diventava un palcoscenico dove bisognava essenzialmente calciare bene il pallone nonostante campi spesso ingolfati di neve o fango. La cosa principale che ha continuamente chiesto ai giocatori era che si esprimessero senza eccessi, con il cuore, ma soprattutto con la testa. Malofeev si mostrava preoccupato per le negatività in talune circostanze espresse dalla sua squadra, e alla vigilia dell’ultima partita decisiva diresse il discorso negli spogliatoi con una metafora: "Immaginate,” disse, “che ci sia un branco di gazzelle che attraversa un campo. Dall'altra parte del campo c'è un gruppo di leoni. Potrebbero succedere tante cose diverse. Forse i leoni faranno a pezzi le gazzelle. O forse partirà per prima una delle gazzelle e distrarrà i leoni, e si sacrificherà così le altre gazzelle vivranno. Oggi, come gazzelle, dobbiamo sacrificarci per la vittoria". Un messaggio ripreso in seguito, aggiungerei, abbastanza goffamente, da uno spot pubblicitario che evidentemente si riteneva originale o faceva finta di esserlo per i più ignari. Quella squadra includeva ottimi elementi, Ivan Gurinovich, l’attaccante Petr Vasilevsky, il baluardo difensivo Andrei Zygmantovich, gli sbarazzini imberbi centrocampisti Sergei Aleinikov e Sergei Gotsmanov, due che quando si apriranno le frontiere ebbero trascorsi nell’opulento Occidente. Con loro c’era Georgy Kondratyev, centravanti originario del remoto paesino di Lyubanichi, nella regione di Tolochin. Ma il giocatore più amato, il più dotato, seguito dall'odore dell'erba sulla pelle, dalla gioia dei suoi goal e purtroppo dal rumore di bottiglie di vodka vuote, si chiamava Aleksandr “Timofeyevich” Prokopenko. C'era qualcosa di estremamente intenso in lui e nel suo genio. Non sembrava esserci limite al suo talento, il talento di un uomo dolorosamente timido nella vita privata, tormentato da un difetto di balbuzie così marcato al punto che rifiutava categoricamente di rilasciare interviste ai giornali, figurarsi a radio o TV. C'è una fotografia nell'archivio della Dinamo che lo mostra, vestito con una giacca di pelle e in mano un bouquet, mentre fa jogging lontano da una folla di “babushka” con il velo in testa. Lo guardano tutti ammirati, mentre un leggero sorriso gioca sui tratti del volto. Nessuno ricorda il contesto in cui fu scattata, ma l'interpretazione è che si fosse fermato per scambiare una battuta e offrire un piccolo dono a coloro che lo avevano riconosciuto e applaudito lungo la strada. I sostenitori della Dinamo lo adoravano, sapevano cosa pensava perché beveva con loro, era uno di loro, un altro lavoratore di Minsk oltre che un superbo calciatore, istintivo nei pressi dell’area di rigore. Questo vizio di alzare eccessivamente il gomito costrinse i dirigenti della squadra a mandarlo per un periodo in una clinica di disintossicazione e riabilitazione finanziata dallo stato. Prokopenko si perse così qualche partita della stagione ma tornò giusto in tempo per segnare l'iconica rete del campionato 81/82, con un colpo di tacco nel gelo di Kiev. Suo padre aveva passato la vita in una stazione petrolifera fino alla pensione, mentre sua madre lavorava come insegnante di lingua e letteratura bielorussa. E Aleksandr Prokopenko è morto come un personaggio di un romanzo di Gaito Gazdanov, nella sala ristorante di un affastellato Hotel di Minsk pieno di specchiere dalla cornice placcata e lampadari gocciolanti luce, mentre tutti lo guardano scombinati senza sapere cosa fare. Accadde durante una cena, il 29 marzo del 1989, per via di un fastidioso boccone deglutito male. Il senso di soffocamento, le mani portate disperatamente alla gola nel vano tentativo di salvarsi. Inutile. A soli 35 anni se ne andava in maniera beffarda il miglior giocatore di calcio bielorusso di ogni epoca, Aleksandr Prokopenko, sepolto nel cimitero del villaggio di Tokari, distretto di Bobruisk, dove le cicogne e il fiordaliso gli tengono compagnia.
LIVING THE DREAM
“Sto andando a Gretna Green, e se tu non riesci a indovinare con chi, dovrò considerarti un’ingenua, perc hé c’è un solo uomo al mondo ch...
-
Quando la siderurgia inglese restò paralizzata, e scioperi e agitazioni si allargarono a macchia d'olio, i negoziati fra le Unions e la ...
-
Cercate una canzone da ascoltare in sottofondo leggendo questo racconto? diciamo "The Foggy Dew" di Sinead O'Connor e andiamo...
-
Chissà perché, quando scriviamo la parola estate abbiamo sempre la tentazione di associarla all’aggettivo “torrida”, forse pensiamo di aggh...