Il calcio sincero. Ritengo, ma servirebbe un valido linguista a corredo, che la traduzione dal russo non sia esattamente perfetta, probabilmente il termine “calcio genuino” renderebbe più lealtà al cirillico. Va detto altresì che a Minsk tutto pare comunque fuori scala. Ogni palazzo, ogni piazza, ogni parco, ogni via: tutto sembra – ed in effetti a veder bene lo è – enorme, esagerato, nelle sue dimensioni. Quel gran birbone baffuto di Stalin, cui si deve la ricostruzione dalle macerie dovute agli esiti del secondo conflitto mondiale, voleva fosse la città del sole: spaziosa e ariosa. E naturalmente il desiderio dell’eminentissimo compagno segretario risultava assai complicato da far recedere. Così Minsk, vista dall’alto, più che una città compatta appare una sorta di ritaglio in cui tante tessere di un puzzle si alternano fra loro incastrando enormi spazi verdi e quartieri altrettanto densi e maestosi. Si trovano ovviamente i soliti isolati di casermoni residenziali in cemento prefabbricato di puro solfeggio socialista, con le aiuole piantate a betulle e i fiori a segnare i confini con le strade. La registrazione ufficiale della Futbol'ny Klub Dynama Minsk (in bielorusso, mi perdonerete, occorre copiare e incollare, Футбольны клуб Дынама Мінск, si attesta nel 1927 da iniziativa di un gruppo sportivo già presente. Vicina, ma non vicinissima ai colbacchi da parata del Ministero dell’Interno, i colori sfuggono al materialismo e poggiano su di un retroterra poetico. Il bianco rappresenta la cicogna, che per i bielorussi è simbolo di pace e prosperità. Va da sé poi sia diventato anche il nome della prima bicicletta, un famosissimo modello per ragazzi prodotto da una fabbrica di Minsk. Il blu invece sta per il fiordaliso, dal bocciolo delicato, che cresce nei campi di grano e qui c’è un netto richiamo antropologico all’iride locale. Nel 1982 dallo stadio Traktar, cassettone scampanato di cemento e ferro bazzicato dai venti del Baltico, uscirono baci e gesti d’amore. Sembra una canzoncina da giovane cosacco, all'opposto sono le parole di Mikhail Vergeenko, l'ex portiere protagonista dell’unico successo nel campionato sovietico della Dinamo Minsk. Niente di organizzato, solo affetto. Un affetto persino smodato a indicare la portata del trionfo, poiché le folle nella vecchia URSS scendevano malvolentieri a festeggiare perlopiù in quei giorni di disagio immediatamente successivi alla morte di Leonid Breznev, per tanto tempo sovrano di ogni terra dagli Urali allo stretto di Bering. La spontaneità risultava pericolosa e disapprovata dal regime, eppure, quando la squadra arrivò in treno da Mosca, dopo aver vinto le ultime due partite, fu sopraffatta dai tifosi e da un suono di fisarmoniche. Il calcio era una distrazione per le persone, alcune delle quali non vivevano una vita diciamo particolarmente felice. La Dinamo, dopotutto, era davvero la più spontanea delle squadre. Un'altra Dinamo quella di Kiev, 270 miglia a sud-est in Ucraina, aveva al timone Valeriy Lobanovsky pioniere nell'uso della tecnologia informatica per mostrare in cosa si poteva trasformare il calcio datagli una scienza esatta, usando i giocatori alla pari di ingranaggi dal volto robotico, un po’ alla stregua dell'inquietante automa del barone von Kempelen; a Minsk, sotto Eduard Malofeev, il calcio invece decisamente s'assimilava a una dote, una roba da bottega artigiana, artistica. Eccolo il punto. Malofeev, allenatore filosofo, descrisse la sua pratica come qualcosa di romantico, puro, scevro di alchimie. Nessun infortunio grave figlio contatto troppo pericolosi, nessun intervento al limite. Oh, sia chiaro, mica pagavi l'ingresso di un teatrino di bambole pezzate, bensì il rettangolo di gioco diventava un palcoscenico dove bisognava essenzialmente calciare bene il pallone nonostante campi spesso ingolfati di neve o fango. La cosa principale che ha continuamente chiesto ai giocatori era che si esprimessero senza eccessi, con il cuore, ma soprattutto con la testa. Malofeev si mostrava preoccupato per le negatività in talune circostanze espresse dalla sua squadra, e alla vigilia dell’ultima partita decisiva diresse il discorso negli spogliatoi con una metafora: "Immaginate,” disse, “che ci sia un branco di gazzelle che attraversa un campo. Dall'altra parte del campo c'è un gruppo di leoni. Potrebbero succedere tante cose diverse. Forse i leoni faranno a pezzi le gazzelle. O forse partirà per prima una delle gazzelle e distrarrà i leoni, e si sacrificherà così le altre gazzelle vivranno. Oggi, come gazzelle, dobbiamo sacrificarci per la vittoria". Un messaggio ripreso in seguito, aggiungerei, abbastanza goffamente, da uno spot pubblicitario che evidentemente si riteneva originale o faceva finta di esserlo per i più ignari. Quella squadra includeva ottimi elementi, Ivan Gurinovich, l’attaccante Petr Vasilevsky, il baluardo difensivo Andrei Zygmantovich, gli sbarazzini imberbi centrocampisti Sergei Aleinikov e Sergei Gotsmanov, due che quando si apriranno le frontiere ebbero trascorsi nell’opulento Occidente. Con loro c’era Georgy Kondratyev, centravanti originario del remoto paesino di Lyubanichi, nella regione di Tolochin. Ma il giocatore più amato, il più dotato, seguito dall'odore dell'erba sulla pelle, dalla gioia dei suoi goal e purtroppo dal rumore di bottiglie di vodka vuote, si chiamava Aleksandr “Timofeyevich” Prokopenko. C'era qualcosa di estremamente intenso in lui e nel suo genio. Non sembrava esserci limite al suo talento, il talento di un uomo dolorosamente timido nella vita privata, tormentato da un difetto di balbuzie così marcato al punto che rifiutava categoricamente di rilasciare interviste ai giornali, figurarsi a radio o TV. C'è una fotografia nell'archivio della Dinamo che lo mostra, vestito con una giacca di pelle e in mano un bouquet, mentre fa jogging lontano da una folla di “babushka” con il velo in testa. Lo guardano tutti ammirati, mentre un leggero sorriso gioca sui tratti del volto. Nessuno ricorda il contesto in cui fu scattata, ma l'interpretazione è che si fosse fermato per scambiare una battuta e offrire un piccolo dono a coloro che lo avevano riconosciuto e applaudito lungo la strada. I sostenitori della Dinamo lo adoravano, sapevano cosa pensava perché beveva con loro, era uno di loro, un altro lavoratore di Minsk oltre che un superbo calciatore, istintivo nei pressi dell’area di rigore. Questo vizio di alzare eccessivamente il gomito costrinse i dirigenti della squadra a mandarlo per un periodo in una clinica di disintossicazione e riabilitazione finanziata dallo stato. Prokopenko si perse così qualche partita della stagione ma tornò giusto in tempo per segnare l'iconica rete del campionato 81/82, con un colpo di tacco nel gelo di Kiev. Suo padre aveva passato la vita in una stazione petrolifera fino alla pensione, mentre sua madre lavorava come insegnante di lingua e letteratura bielorussa. E Aleksandr Prokopenko è morto come un personaggio di un romanzo di Gaito Gazdanov, nella sala ristorante di un affastellato Hotel di Minsk pieno di specchiere dalla cornice placcata e lampadari gocciolanti luce, mentre tutti lo guardano scombinati senza sapere cosa fare. Accadde durante una cena, il 29 marzo del 1989, per via di un fastidioso boccone deglutito male. Il senso di soffocamento, le mani portate disperatamente alla gola nel vano tentativo di salvarsi. Inutile. A soli 35 anni se ne andava in maniera beffarda il miglior giocatore di calcio bielorusso di ogni epoca, Aleksandr Prokopenko, sepolto nel cimitero del villaggio di Tokari, distretto di Bobruisk, dove le cicogne e il fiordaliso gli tengono compagnia.
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