Inspiegabile e leggero. Raggi di curva. Colin ha i capelli
lunghi, ramati, appiccicati al collo nonostante la brezza perfida del
Lancashire, lo sguardo di chi sembra passare da quelle parti per caso. Sente il
braccio di Steve Bruce francobollarsi alla sua schiena. Con la
coda dell’occhio intravede il biancoblu della maglia di un compagno, la rosa rossa ora crepita nel
vociare di ordini da coprifuoco. L’ultimo verso di The Wild Rover cantato da
ogni tifoso di Ewood Park raggrinza, nello smarginare del fragore rapito dall'ennesimo brivido. Le Saux calcia teso, in mezzo, la spizzata di Colin Hendry è
perfetta, rotazione parziale del busto, disarticolata, manda fuori tempo i
senatori della difesa del Manchester United, spezza la marcatura almeno di mezzo
metro. Quanto basta. Chiude gli occhi e schiaccia verso Peter Schmeichel. Il
portiere danese la sfiora appena, rete, 2-1. Il Blackburn è ancora avanti,
l’indice della mano sinistra diritto al cielo. Non basterà, oppure si, chi può
dirlo. Alla fine i rossi la portano a casa eppure un tarlo da quel pomeriggio
cupo di novembre i ragazzi di Ferguson devono esserselo portato appresso per l'intera stagione. L’idea bislacca, e un pò fobica, che i Rovers potessero
anche riuscire a farcela nonostante tutto, perché anche il tutto ha il suo limite.
Ewood Park è piccolo, preziosità per pochi, rilegato, custodito come una di
quelle biblioteche antiquarie dove prima di entrare bisogna chiedere permesso,
un ospitalità breve, da mezzi passi. Ewood Park è minuzia topografica di
piantine e numeri civici, attraversi un vestibolo con una gigantografia di Bill
Eckersley, lo specialista del penalty, la faccia volitiva, il gesto deciso
sospeso nel fermo immagine, la sacralità della cornice affatto laica. La giornata è appena
fredda, se non ci sei abituato quella luce diafana e imprevedibile ti disorienta. L’ufficio in Bolton Road ha finestre su una teoria
di casette a schiera, decadenti nel loro rannicchiarsi sulla geometria da piano regolatore inglese. Alle pareti scaffalature in quercia, sopra quadretti, argenteria varia, il legno buono del profondo dei boschi della foresta di
Pendle, dove un venerdì santo del 1612 a pochi passi da una fonte
battesimale, immersa nella nebbia fitta, un misterioso raduno di tredici donne
fu improvvisamente interrotto dall’arrivo del magistrato Roger Nowell. Un
Sabba di streghe? Rinchiuse, processate. Solo una di loro venne ritenuta
innocente, le altre impiccate nell’ossessione puritana di Giacomo V. Il colore
complessivo di carta da parati azzurrina soffoca il resto, tendine plissettate tipo quelle dei
parrucchieri. La scrivania è lucida, liscia, forse simile a quella del St. Leger
Hotel in William Street quando nel 1875 alcuni ex studenti di una scuola
pubblica, videro in John Lewis il principale promotore e fondatore del club. Tempaccio
dannato, fosco, per una città-fabbrica (una mill town, da spezzatino fumante e
birra chiara), dove si tesseva con quell’macchinario rumoroso e instabile progettato
da James Hargreaves, la cosiddetta “Spinning Jenny”. In piedi, in un misto fra
il pellegrino e il cerimoniere, Kenny Dalglish, storce la bocca, gli occhi
sfavillanti dello scozzese cresciuto nelle Lowlands, intermittenza
involontaria fra la probabilità e l’improbabilità: “Signor Walker, e se
prendessimo Zidane?”. Inerzia, piccole spinte indispensabili e sufficienti.
Walker lo guarda, si aggiusta il brizzolato ribelle, decelerazione interna naturale da busto in una nicchia. Un
attimo di silenzio, pigrizia opaca. Jack Walker è il magnate dell’acciaio, ha
investito tante sterline nella squadra, adesso si volta di sbieco verso la
finestra che squaderna la vista sulle villette abbellite da siepi di pitosforo e ortensie. Walker torna ad osservarlo, lancia un fonema di quelli incontaminati del nord con implicita
una sagoma di resistenza: “Kenny ma perché vuoi Zidane quando abbiamo Tim Sherwood...?”
Dalglish è un labirinto di paraventi, apre la bocca senza dire nulla, guarda il
soffitto senza intonazione, dondola, si stira le pieghe della giacchetta d’allenamento,
torna sulla soglia, alla risposta mancano i dettagli ma si accontenta. Nel 1995 la Blackburn
del calcio è taglio netto, balbettio ebete ormai anziano alla ricerca di un nuovo
titolo. Ro-ve-rs, Ro-ve-rs, sillabe ripetute con ostinazione, verso semplice,
corto, un volo d’uccelli annodati nel cielo a picco. Nei pub si parla, si
ride, si beve, con un invisibile voglia al centro della fronte, urtata e
compromessa dal desiderio. Già, ottant’anni dopo l’ultimo campionato messo in
vetrina, due punti di vantaggio all’ultima giornata potrebbero bastare.
La città appare tratteggiata a carboncino su pannelli rigidi. La pietra
angolare abita in Holly Tree Way, tanto verde, intarsiato di campi
da cricket. le raffiche dal canale d’Irlanda arrivano fino qui, smorzate, lui accudisce i verbi al
presente, sospira a mezza bocca, il tono affermativo, la voce piena, curvo allo
stesso modo di come gioca, dipinge lo steccato di casa, e saluta i radi passanti. Lui e Alan figlio di Alan, geni riconosciuti e geni remissivi. Stesso nome, per
non perdere la tradizione di famiglia. Nella Working Class inglese si usava
così negli anni settanta: si scimmiottava l’aristocrazia, un po’ per sfregio,
un po’ (forse) per invidia. Il signor Shearer, lavora duro in una fonderia, sfregio e sostentamento, gioca con l’anagrafe e sbeffeggia la vita: “Ragazzo mio lascia perdere
il pallone, vedi, i ragazzi ricchi giocano a golf”. Ad Alan, biondino trotterellante,
spunta una pausa con tutto ciò che ne consegue. Refoli di pioggia, plagio paterno, al mercatino
dell’usato si compra un paio di mazze, aspetta fuori dai club l’ora di chiusura
poi si infila dentro e un paio di adetti gli consentono di provare qualche buca. A sera torna di corsa a Gosforth, quartiere povero di Newcastle: sessanta metri quadrati di appartamento nello
strapiombo d’edilizia popolare. E là sotto, fra pinze di prato e muretti d'arenaria, impara a correre in quel modo così
strano, gobbo, torvo. Solo che nel golf la velocità delle gambe non serve, casomai è uno stravizio di forma,
la rapidità dev’essere nella testa. Addio mazze, almeno per il momento, intanto una scommessa:
una sterlina se riesce a segnare in una partita del torneo scolastico. In tre
minuti Alan junior ne infila tre allo storidito compagno di banco, e invece di tornare a centrocampo, devia lesto
verso il padre per incassare la vincita. A 20 anni a Newcastle e dintorni Shearer era
già il più forte, ghermisce, si piega come una canna del Tyne quando l’argento del fiume si
confonde con la cappa del cielo, nell’indimostrabile diritto di voler stare nello
stadio avito. Ma nell’ordine delle probabilità la profezia perde e lo mandano nella salsedine di Southampton. Un giovedì mattina Dave Jones chiama Alan e gli dice che
sarebbe partito dal primo minuto. Contro l’Arsenal, mica in un amichevole d'agosto a Tonbridge. Il calendario dice 9 aprile 1988. Tripletta.
Always scoring, si, segna sempre lui. Quattro stagioni, poi risale la corrente fino
a Blackburn, annusa i prodromi del successo che allertano i parrucconi di Wembley, fino alla stagione del “We’re gonna win the
league”. Disse di essere sorpreso dal non essere mai stato disturbato da nessun vicino o
da qualche tifoso invadente, nemmeno i giorni precedenti all’ultima partita
decisiva. Niente flash, nessuna corsa per un autografo. Alan era semplicemente
uno di loro, beffardo quanto basta nel palcoscenico di chi sa di essere un
attaccante di razza. I goal di Alan Shearer riportano a un calcio antico, pieno
d’idoli semplici, comuni, niente star, niente wags, solo football, il braccio
alzato, e gli “Yeeess” sguaiati urlati dopo la segnatura. In quel fronte d’attacco si
muove Chris Sutton, energico ragazzone di Nottingham, occhi affettati in modo
obliquo verso l’alto, medesima conservazione di retroterra, eppure nelle
distanze ognuno si comporta diversamente, disponendo l’ordine delle probabilità
in senso scorrevole per chi legge. La collaborazione offensiva con Shearer fu
talmente proficua che furono soprannominati con un acronimo commerciale:
S&S. Posteriormente, mediato dal binocolo della strategia, si muove il
capitano Tim Sherwood, parrucchetta da teatro di Contea, confidenza familiare in un fondo di tristezza, un uomo
problematico, un uomo di nervi nel fondo epicureo del godersi le cose. Pochi
sorrisi nel supplemento di cortesia del passaggio. Ah, rieccolo, Colin Hendry,
che aveva saltato gran parte della stagione precedente per un infortunio, amatissimo
nell’empatia dolce di un pubblico che sa quanto Hendry abbia calcato e assaggiato con i Rovers pochissime sale da tè bensì un buon numero di fish and chips sputati in faccia dalle stand più
improbabili. Colin lo scozzese, forte, doloroso, nel paradosso tutto shakespeariano
di vaticinio e ragione di colui che abbandona lo scopo ma non le illusioni. In porta,
immagine eterea, persino sfocata, si stende Tim Flowers. Blackburn cala il medium
e nell’estate del 1993, altro che incorporeo,
Timothy risulta essere il portiere più costoso di Gran Bretagna con i suoi 2,4 milioni
di sterline di trasferimento. Terzini mediocri è meglio che non ce ne siano così
come gli scrittori. Dopo che Joyce scrisse l’Ulisse nessuno avrebbe più dovuto
scrivere un libro perché le zanzare di Bordeaux saltano fuori dal foglio nel
loro ronzare. Il francesino si chiama Greame le Saux, raffinato laterale
sinistro, tocchi rapidi, ansia di perfezionismo. Utile alla causa il coriaceo David
Batty, contrarietà ostinata, spezza, ascolta il capitano di lungo corso, non
teme la banalità. L’avversario lo abbiamo detto era il Manchester United. All’ultima
giornata la classifica dice: Blackburn 89, Manchester United 87. Il
vantaggio esisteva, vacillante. Lo United avrebbe dovuto sbancare per forza
Upton Park sperando nella contemporanea sconfitta dei rivali o, al limite, in un pareggio
a Liverpool. King Kenny e il suo sguardo di pietra tornarono ad
Anfield. Un’unica partita, in due stadi diversi, con il collante delle emozioni. Al Bolyen, Ludek Miklosko del West Ham tira giù la saracinesca della
taverna, è in giornata di grazia, quelli di Manchester mettono le tende nella
sua area, ma lui mantiene fino allo scadere un pareggio apparso carne tremula fino all’ultimo respiro. Il Blackburn cede 2-1 sul calare, occiduo,
del match, il punto di vantaggio si imprime sulla tabella con l’inchiostro indelebile
della storia. La Football Association nel lecito dubbio aveva spedito a
Londra una copia del trofeo, tuttavia resterà chiusa nel buio di uno sgabuzzino. La
maglia mutuata dal vecchio collegio di Shrewsbury & Malvern sale sul
trono d’Inghilterra. “Arte et Labore”.
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