martedì 10 agosto 2021

IN ROVERS WE TRUST


Inspiegabile e leggero. Raggi di curva. Colin ha i capelli lunghi, ramati, appiccicati al collo nonostante la brezza perfida del Lancashire, lo sguardo di chi sembra passare da quelle parti per caso. Sente il braccio di Steve Bruce francobollarsi alla sua schiena. Con la coda dell’occhio intravede il biancoblu della maglia di un compagno, la rosa rossa ora crepita nel vociare di ordini da coprifuoco. L’ultimo verso di The Wild Rover cantato da ogni tifoso di Ewood Park raggrinza, nello smarginare del fragore rapito dall'ennesimo brivido. Le Saux calcia teso, in mezzo, la spizzata di Colin Hendry è perfetta, rotazione parziale del busto, disarticolata, manda fuori tempo i senatori della difesa del Manchester United, spezza la marcatura almeno di mezzo metro. Quanto basta. Chiude gli occhi e schiaccia verso Peter Schmeichel. Il portiere danese la sfiora appena, rete, 2-1. Il Blackburn è ancora avanti, l’indice della mano sinistra diritto al cielo. Non basterà, oppure si, chi può dirlo. Alla fine i rossi la portano a casa eppure un tarlo da quel pomeriggio cupo di novembre i ragazzi di Ferguson devono esserselo portato appresso per l'intera stagione. L’idea bislacca, e un pò fobica, che i Rovers potessero anche riuscire a farcela nonostante tutto, perché anche il tutto ha il suo limite. Ewood Park è piccolo, preziosità per pochi, rilegato, custodito come una di quelle biblioteche antiquarie dove prima di entrare bisogna chiedere permesso, un ospitalità breve, da mezzi passi. Ewood Park è minuzia topografica di piantine e numeri civici, attraversi un vestibolo con una gigantografia di Bill Eckersley, lo specialista del penalty, la faccia volitiva, il gesto deciso sospeso nel fermo immagine, la sacralità della cornice affatto laica. La giornata è appena fredda, se non ci sei abituato quella luce diafana e imprevedibile ti disorienta. L’ufficio in Bolton Road ha finestre su una teoria di casette a schiera, decadenti nel loro rannicchiarsi sulla geometria da piano regolatore inglese. Alle pareti scaffalature in quercia, sopra quadretti, argenteria varia, il  legno buono del profondo dei boschi della foresta di Pendle, dove un venerdì santo del 1612 a pochi passi da una fonte battesimale, immersa nella nebbia fitta, un misterioso raduno di tredici donne fu improvvisamente interrotto dall’arrivo del magistrato Roger Nowell. Un Sabba di streghe? Rinchiuse, processate. Solo una di loro venne ritenuta innocente, le altre impiccate nell’ossessione puritana di Giacomo V. Il colore complessivo di carta da parati azzurrina soffoca il resto, tendine plissettate tipo quelle dei parrucchieri. La scrivania è lucida, liscia, forse simile a quella del St. Leger Hotel in William Street quando nel 1875 alcuni ex studenti di una scuola pubblica, videro in John Lewis il principale promotore e fondatore del club. Tempaccio dannato, fosco, per una città-fabbrica (una mill town, da spezzatino fumante e birra chiara), dove si tesseva con quell’macchinario rumoroso e instabile progettato da James Hargreaves, la cosiddetta “Spinning Jenny”. In piedi, in un misto fra il pellegrino e il cerimoniere, Kenny Dalglish, storce la bocca, gli occhi sfavillanti dello scozzese cresciuto nelle Lowlands, intermittenza involontaria fra la probabilità e l’improbabilità: “Signor Walker, e se prendessimo Zidane?”. Inerzia, piccole spinte indispensabili e sufficienti. Walker lo guarda, si aggiusta il brizzolato ribelle, decelerazione interna naturale da busto in una nicchia. Un attimo di silenzio, pigrizia opaca. Jack Walker è il magnate dell’acciaio, ha investito tante sterline nella squadra, adesso si volta di sbieco verso la finestra che squaderna la vista sulle villette abbellite da siepi di pitosforo e ortensie. Walker torna ad osservarlo, lancia un fonema di quelli incontaminati del nord con implicita una sagoma di resistenza: “Kenny ma perché vuoi Zidane quando abbiamo Tim Sherwood...?” Dalglish è un labirinto di paraventi, apre la bocca senza dire nulla, guarda il soffitto senza intonazione, dondola, si stira le pieghe della giacchetta d’allenamento, torna sulla soglia, alla risposta mancano i dettagli ma si accontenta. Nel 1995 la Blackburn del calcio è taglio netto, balbettio ebete ormai anziano alla ricerca di un nuovo titolo. Ro-ve-rs, Ro-ve-rs, sillabe ripetute con ostinazione, verso semplice, corto, un volo d’uccelli annodati nel cielo a picco. Nei pub si parla, si ride, si beve, con un invisibile voglia al centro della fronte, urtata e compromessa dal desiderio. Già, ottant’anni dopo l’ultimo campionato messo in vetrina, due punti di vantaggio all’ultima giornata potrebbero bastare. La città appare tratteggiata a carboncino su pannelli rigidi. La pietra angolare abita in Holly Tree Way, tanto verde, intarsiato di campi da cricket. le raffiche dal canale d’Irlanda arrivano fino qui, smorzate, lui accudisce i verbi al presente, sospira a mezza bocca, il tono affermativo, la voce piena, curvo allo stesso modo di come gioca, dipinge lo steccato di casa, e saluta i radi passanti. Lui e Alan figlio di Alan, geni riconosciuti e geni remissivi. Stesso nome, per non perdere la tradizione di famiglia. Nella Working Class inglese si usava così negli anni settanta: si scimmiottava l’aristocrazia, un po’ per sfregio, un po’ (forse) per invidia. Il signor Shearer, lavora duro in una fonderia, sfregio e sostentamento, gioca con l’anagrafe e sbeffeggia la vita: “Ragazzo mio lascia perdere il pallone, vedi, i ragazzi ricchi giocano a golf”. Ad Alan, biondino trotterellante, spunta una pausa con tutto ciò che ne consegue. Refoli di pioggia, plagio paterno, al mercatino dell’usato si compra un paio di mazze, aspetta fuori dai club l’ora di chiusura poi si infila dentro e un paio di adetti gli consentono di provare qualche buca. A sera torna di corsa a Gosforth, quartiere povero di Newcastle: sessanta metri quadrati di appartamento nello strapiombo d’edilizia popolare. E là sotto, fra pinze di prato e muretti d'arenaria, impara a correre in quel modo così strano, gobbo, torvo. Solo che nel golf la velocità delle gambe non serve, casomai è uno stravizio di forma, la rapidità dev’essere nella testa. Addio mazze, almeno per il momento, intanto una scommessa: una sterlina se riesce a segnare in una partita del torneo scolastico. In tre minuti Alan junior ne infila tre allo storidito compagno di banco, e invece di tornare a centrocampo, devia lesto verso il padre per incassare la vincita. A 20 anni a Newcastle e dintorni Shearer era già il più forte, ghermisce, si piega come una canna del Tyne quando l’argento del fiume si confonde con la cappa del cielo, nell’indimostrabile diritto di voler stare nello stadio avito. Ma nell’ordine delle probabilità la profezia perde e lo mandano nella salsedine di Southampton. Un giovedì mattina Dave Jones chiama Alan e gli dice che sarebbe partito dal primo minuto. Contro l’Arsenal, mica in un amichevole d'agosto a Tonbridge. Il calendario dice 9 aprile 1988. Tripletta. Always scoring, si, segna sempre lui. Quattro stagioni, poi risale la corrente fino a Blackburn, annusa i prodromi del successo che allertano i parrucconi di Wembley, fino alla stagione del “We’re gonna win the league”. Disse di essere sorpreso dal non essere mai stato disturbato da nessun vicino o da qualche tifoso invadente, nemmeno i giorni precedenti all’ultima partita decisiva. Niente flash, nessuna corsa per un autografo. Alan era semplicemente uno di loro, beffardo quanto basta nel palcoscenico di chi sa di essere un attaccante di razza. I goal di Alan Shearer riportano a un calcio antico, pieno d’idoli semplici, comuni, niente star, niente wags, solo football, il braccio alzato, e gli “Yeeess” sguaiati urlati dopo la segnatura. In quel fronte d’attacco si muove Chris Sutton, energico ragazzone di Nottingham, occhi affettati in modo obliquo verso l’alto, medesima conservazione di retroterra, eppure nelle distanze ognuno si comporta diversamente, disponendo l’ordine delle probabilità in senso scorrevole per chi legge. La collaborazione offensiva con Shearer fu talmente proficua che furono soprannominati con un acronimo commerciale: S&S. Posteriormente, mediato dal binocolo della strategia, si muove il capitano Tim Sherwood, parrucchetta da teatro di Contea, confidenza familiare in un fondo di tristezza, un uomo problematico, un uomo di nervi nel fondo epicureo del godersi le cose. Pochi sorrisi nel supplemento di cortesia del passaggio. Ah, rieccolo, Colin Hendry, che aveva saltato gran parte della stagione precedente per un infortunio, amatissimo nell’empatia dolce di un pubblico che sa quanto Hendry abbia calcato e assaggiato con i Rovers pochissime sale da tè bensì un buon numero di fish and chips sputati in faccia dalle stand più improbabili. Colin lo scozzese, forte, doloroso, nel paradosso tutto shakespeariano di vaticinio e ragione di colui che abbandona lo scopo ma non le illusioni. In porta, immagine eterea, persino sfocata, si stende Tim Flowers. Blackburn cala il medium e nell’estate del 1993, altro che incorporeo, Timothy risulta essere il portiere più costoso di Gran Bretagna con i suoi 2,4 milioni di sterline di trasferimento. Terzini mediocri è meglio che non ce ne siano così come gli scrittori. Dopo che Joyce scrisse l’Ulisse nessuno avrebbe più dovuto scrivere un libro perché le zanzare di Bordeaux saltano fuori dal foglio nel loro ronzare. Il francesino si chiama Greame le Saux, raffinato laterale sinistro, tocchi rapidi, ansia di perfezionismo. Utile alla causa il coriaceo David Batty, contrarietà ostinata, spezza, ascolta il capitano di lungo corso, non teme la banalità. L’avversario lo abbiamo detto era il Manchester United. All’ultima giornata la classifica dice: Blackburn 89, Manchester United 87. Il vantaggio esisteva, vacillante. Lo United avrebbe dovuto sbancare per forza Upton Park sperando nella contemporanea sconfitta dei rivali o, al limite, in un pareggio a Liverpool. King Kenny e il suo sguardo di pietra tornarono ad Anfield. Un’unica partita, in due stadi diversi, con il collante delle emozioni. Al Bolyen, Ludek Miklosko del West Ham tira giù la saracinesca della taverna, è in giornata di grazia, quelli di Manchester mettono le tende nella sua area, ma lui mantiene fino allo scadere un pareggio apparso carne tremula fino all’ultimo respiro. Il Blackburn cede 2-1 sul calare, occiduo, del match, il punto di vantaggio si imprime sulla tabella con l’inchiostro indelebile della storia. La Football Association nel lecito dubbio aveva spedito a Londra una copia del trofeo, tuttavia resterà chiusa nel buio di uno sgabuzzino. La maglia mutuata dal vecchio collegio di Shrewsbury & Malvern sale sul trono d’Inghilterra. “Arte et Labore”.

 

 

 

 

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