giovedì 30 settembre 2021

STELLE SENZA LUCE


Vinse Tiziana Rivale con “Sarà quel che sarà” ma è indubbio che i Matia Bazar e le loro “Vacanze Romane” avrebbero meritato di più del premio della critica e solo dopo ci si accorse che “L’Italiano” di Toto Cutugno sarebbe diventato un secondo inno nazionale. Insomma quel Festival di Sanremo del 1983 lasciò un po’ di amaro in bocca, ma cosa vuoi, usando un aforisma nietzschiano potremmo dire che la vita è fatta di rarissimi momenti di grande intensità e di innumerevoli momenti scomodi. La maggior parte degli uomini però, ripudiando gli intervalli difficili, finisce col rammentare solo aspetti ritenuti gradevoli. Ma forse, paradossalmente, essere vivi consiste nell’ andare alla ricerca degli istanti morti. Allora una foto è un istante arrestato, il più forte, il più toccante, il più doloroso. Se a uno juventino dici “Atene”, lo accoltelli, se dici “Magath” lo uccidi. Nel calcio ci sono luoghi che diventano ferite, una strana geografia dolente. Quella sera fu una specie di conferma, un grigio rito di passaggio, l'ennesimo. Il bello, anzi il brutto, è che non esiste spiegazione al buio. “Blocco psicologico?” No ma come, per campioni come Bettega e Zoff, Tardelli e Rossi, Platini e Boniek, Gentile e Scirea, il bel Cabrini e il coriaceo biondo Bonini? Non credo nella “stregoneria” di un trofeo proibito alla Juve dirà Giovanni Arpino: “la sconfitte hanno una logica: se rinunciano alla difesa anche i brasiliani possono perdere un mondiale, ma se diventano umili anche i tedeschi, spesso traditi dalla loro arroganza atletica, possono beffare tutti”. Tuttavia era uno di quei momenti che non si possono misurare con l’orologio, ma solo con i battiti del cuore dei tifosi, la Juventus doveva vincere la Coppa dei Campioni, dopo i danesi dopolavoristi dell’Hidrove, la faticaccia con lo Standard di Liegi, dopo il vapore reso stantuffo nel caliginoso Villa Park e le secchiate di pioggia del Comunale, dopo quei polacchi del Lodz, dannatamente spigolosi, eppure domati in semifinale. Ma laggiù, nel catino sudato dell'Olimpico di Atene, esaurito l'effimero colpo di testa di Bettega deviato dal portiere Stein, l’Amburgo, robusto, scaltro, del santone Happel, (che probabilmente pensava di trovarsi nella medesima complicata condizione di cinque anni prima a Londra), passerà in vantaggio con un tiro beffardo, vagamente solforoso, scagliato dal satanasso Felix Magath dal limite dell'area, che beffò Zoff. C’era tempo, quasi tutta la partita, ma la Juve, imballata e impalpabile, restò immobile, inchiodata a quella panchina di Corso Umberto a Torino con in braccio una storia apparsa troppo pesante. Forse c'era un rigore su Platini, però nella sostanza cambiò poco dentro gli occhi vitrei di Giovanni Trapattoni, i cui fischi non richiamarono all’ordine nessun gregge d’Arcadia; la Juve non riuscirà a segnare in quello stadio costipato di bianconero. Il giorno dopo ebbe postumi tragicomici nell’Italia del benessere e del disincanto, del “Ciao” e delle feste in garage col “Mangianastri”, autentico strumento da "tombeur de femmes" con il fastidio dalla necessità di girare il nastro che comportava la momentanea interruzione della copula almeno fino all’avvento dell’ auto-reverse. Molta gente si mise in mutua, altri in ufficio furono costretti a rinchiudersi in uno sgabuzzino, mentre sui muri colava ancora la vernice di quel “Grazie Magath” scritto dovunque in tutta fretta, nella notte caustica dei campanili, ad aumentare la sofferenza. Eppure mi è parso corretto cogliere, nell’amarezza della sconfitta ateniese, almeno il conforto dell’eterna bellezza di un gioco capace di sorprendere o vanificare ogni programmazione perché la logica del calcio ha sempre un limite o il suo contrario.

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