Vi diranno di non andarci, vi
diranno che è una zona malfamata, di quelli da evitare, da stare attenti a
ogni passo ma la tentazione sarà più forte dei buoni consigli da parrocchia perché Sankt Pauli è un libro riscritto. E’ aria umida di un porto tedesco,
un quartiere strappato, sputato in faccia all’Amburgo borghese e bigotta, in
cui il calcio trova spazio come portabandiera di lotta e impegno sociale. E
poi, improvvisamente, parte Hells Bells degli AC/DC, il suo attacco inconfondibile,
e sai che quello è il momento in cui al Millerntor, piccolo stadio vascello, sventolano le insegne dei pirati, fra fumo a buon prezzo e copiose pinte di birra, e ci si batte per una squadra strana al grido di “mai più guerre, mai più
nazismi, ma più terza serie”. Sankt Pauli è tifoseria ribelle per antonomasia, anarchica,
proletaria, radicale, squat, punk, e se non basta mettete ogni cosa a bagnomaria in rivoli antagonisti d’ogni
sistema, smarcati, un equipaggio multicolore da esodo sociale, agghindati come tanti alberi
di Natale privi di natività, dentro magliette stropicciate del comandante Guevara nella sua posa
intramontabile, avvolti in anonime libagioni di felpe nere con il Jolly Roger sul petto, montati in stendini di
giubbotti di jeans senza maniche tappezzati da orde di stemmi variopinti cuciti
a casaccio a marcare nel gusto, e soprattutto nell’estetica, il loro modo di
intendere il mondo, la vita, il fussball, e questo sanno benissimo gli undici uomini con
l'insolita maglia marrone, spennellata col bianco del sole d’inverno e gallonata con l'emblema atavico del club in cui evidentemente il diavolo gioca a far
l’amore intorno al campanile della chiesa dell'apostolo delle genti. Sankt Pauli-Landungsbrücken, quindi, capirete, non è solamente deposito di container ma comunità
sincera, senz’altro capace di esprimere passione popolare per il calcio attraverso un
progetto di solidarietà e vicinanza, umorismo e caos, uno stile oggettivamente differente,
una sorta di famiglia allargata fuori dall'ordinario, un pochino fuori
di testa ma benedette le utopie di giovani e meno giovani, chic e casual, donne
e uomini, che individualmente o in gruppo si riversano allo stadio liberato da
ogni forma di discriminazione. Certo, a mal vedere, da lontano, il Sankt Pauli
deve davvero sembrare una roba piuttosto figa a chiunque veda il calcio come
qualcosa che oltrpassa il confine delle semplici pallonate, anche perché il club, gestito da
azionariato popolare, ça va sans dire, dice le cose giuste, fa le cose giuste e
indossa i vestiti giusti, antidoto particolarmente gradito per i tanti delusi
dal vuoto di contenuti dello sport moderno; l'alternativa perfetta per ripudiare
superleghe e tentativi di fuga nel capitale. Ci sono i rivali cittadini, vero,
sconfitti fuori casa un'unica volta il 16 febbraio 2011 al Volksparkstadion
grazie a un goal di Gerald Asamoah, ci sono i nemici ideologici dell’Hansa
Rostock, ritrovati a denti stretti dopo il crollo del Muro. La svolta,
per un club istituzionalizzato nel 1910 avvenne nella metà degli anni ottanta
quando trasformò completamente la propria immagine, passando da modesta squadra
di quartiere a fenomeno culturale. Fu ristrutturato il Millerntor-Stadion,
nella zona vicino a Reeperbahn, il quartiere a luci rosse, nucleo reietto della vita
notturna cittadina. Quindi poveri contro ricchi, disperazione contro comfort, tradizione borghese contro modello
operaio, guardie contro ladri? Mah, discutiamone. In ogni caso l’evoluzione del modello Sankt Pauli si
dovrà intrecciare per forza con le richieste serrate del marketing e del
business della sports industry. Ci arriveremo. La storia pianterà le sue radici
in Hafenstrasse, zona limitrofa al porto, lungo fiume, topografia fatta e finita nel cosiddetto
piano regolatore Perlenkette, consistente nel riqualificare gli immobili del
posto, o, in certi casi, demolirli. Il problema fu che negli edifici cominciarono
a insediarsi abusivamente umanità varie, operai, disoccupati con e senza sussidio, liberi pensatori, studenti, anarchici,
immigrati, e in linea di massima famiglie che non potevano permettersi un
affitto. Tutti insieme daranno vita a un progetto abitativo sostenibile,
istituendo una mensa per i meno abbienti, promuovendo concerti di band "fedeli alla linea" per raggranellare qualche marco, e chiedendo indipendenza
amministrativa. Operazione non è facile, dovranno combattere per anni contro le cariche
serrate della polizia, contro pelatissimi gruppi di estrema destra, ma oh, poco da fare, il quartiere resisteva compatto, e di fronte a questo indomito spiegamento di volontà,
tutti dovranno alzare le mani e arrendersi. Niente più sgomberi, era fatta. Ora, se la leggenda narra che il simbolo
per eccellenza dei pirati di ogni tempo fu portato al Millerntor su banale
iniziativa di un tifoso uscito di casa con sottobraccio la celeberrima bandiera dalle tibie incrociate, il processo di valorizzazione del messaggio solidale del club
non ha potuto sganciarsi in maniera così estemporanea dalla logica del mercato.
Alla fine, a costo di perdite oggettivamente pesanti sul fronte delle entrate, il Sankt
Pauli dopo che nessun fornitore è riuscito a specchiarsi sui parametri e le
richieste di sostenibilità dei tessuti, per bocca del suo presidente, Oke Goke
Göttlich, ha declamato l’addio alle divise griffate indossando solo maglie
autoprodotte, realizzate in poliestere riciclato al 100%. I tifosi hanno apprezzato
e il primo giorno sono state preordinate più di 1000 maglie. Le maglie che
furono di Franz Gerber, detto "Schlangen-Franz", miglior marcatore dalla
fondazione della Bundesliga a oggi, e di André Golke, il capocannoniere di maggior virtù, ambedue lassù col cappellaccio, sbattuti da 10 nodi di vento, dritti sul ponte del galeone pirata colmo di questa ciurma sotto
ogni cielo.
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