lunedì 27 dicembre 2021

GIU' AL PIREO


Nel match program, qualcuno, evidentemente tifoso del Celtic, scrisse in maniera stizzita 1-1, sbavando l'inchiostro della biro oltre gli spazi neutri, come se l’ordine gerarchico precostituito dai nomi delle due squadre avesse perso valore e si potesse infangare il cimelio perché i celebri biancoverdi scozzesi adesso sarebbero stati costretti a cercare di disinnescare la scatola elettrica del Georgios Karaiskakis a Atene, anzi no al Pireo, perché guai a confondere le questioni d’appartenenza. Roba seria, ideale e materiale. Atene città eterna nell’eternità dell’effimero, vie senza luce, cortili aperti su improvvisi locali creati sulle fondamenta di palazzi crollati, dove i greci amano sorseggiare caffè, e continuano a fare filosofia; Atene sublime nella sua incompiutezza, Atene che da sempre vuole arrivare e non arriva mai nel suo mare, nel suo porto. Eccolo il Pireo, e attenti perché Atene e il Pireo non sono la stessa cosa, non lo sono mai stati nonostante Temistocle con le sue mura avesse per primo tentato di unificare i battiti di due cuori diversi, così vicini eppure così lontani, spersi nel grande catino attico. Al Pireo beccheggia un piccolo golfo che è un luogo dell’anima. Si chiama “Ormos Aphroditis” perché, secondo il mito, Afrodite prediligeva questo luogo per venire a bagnarsi guardando lontano l’Acropoli della Dea rivale Atena. I resti delle mura di Temistocle corrono lungo le rocce a picco sul mare e ci si può sedere sugli enormi blocchi di pietra del piccolo cantiere navale in cui riposano barche tirate in secca. Qui sorgeva lo stadio Karaiskakis che nel 1974 odorava di terra e vento di maestrale, i gradoni ondeggiavano alla vista imbiancati di calce, nei bar intorno all’impianto, sotto i pergolati, i vecchi fumavano, chiacchieravano, snocciolavano i loro "Koboloi", sorseggiando quel vino resinoso che si può bere solo attingendolo direttamente dalle botti, mentre il mare scintillava, i gozzi ancorati prendevano il largo, l’odore dei pesci cotti sulla griglia si attorcigliava in aria, e i giovani discutevano all’ombra della chiesetta del Santo Nikolao. L’Olympiakos è l'adolescente coronato d'alloro, la moralità, l'onore, la competizione, lo splendore, la sportività e la lealtà racchiusi nell'ideale olimpico. La scintilla scoccò nella Taverna di “Moira”, uno di quegli antri forati dalla salsedine in cui vigono tovaglie di carta e saccoccie con dentro posate e tovaglioli, e il tempo pare accorciare il suo normale scorrere intorpidito dalla lentezza del luogo. Era il 10 Marzo del 1925, e lì, dove oggi sorge la via Karaolì-Dimitriou, venne fondato il club strisciato di biancorosso, giusto quando il Pireo, ancora pieno di ferite, ricominciava a gorgogliare di vita e di sogni. Un club libero, che abbracciò la migrazione cretese, quella delle isole dell’Egeo e quella dall’Asia Minore, per creare una delle più forti e resistenti combinazioni di passione dell’intero pease. Dopo i successi degli anni ’50, quando l’Olympiakos sarà soprannominato "Thrylos" (Θρύλος) ossia “leggenda” i suoi sostenitori, per tornare sulla scena principale, dovranno aspettare l’arrivo di un magnate, un armatore di Andros, il gentiluomo Nikos Goulandris. Nel 1971 assumerà la carica di direttore generale ma l’anno successivo sarà già sullo scranno presidenziale, ripristinando tutti i membri di spicco del consiglio di amministrazione cacciati dal regime dittatoriale. Metterà in panchina Lakis Petropoulos, nonostante ci fosse chi lo trattava con sospetto a causa del suo passato con il Panathinaikos del maestro serbo Stjepan Bobek, ex grande bomber del Partizan Belgrado, ma anche allenatore dei rivali “verdi” ateniesi. Tuttavia, gli effetti del suo lavoro si vedranno presto. Petropoulos era un uomo misurato, tranquillo, con il vizio, o la vanità, dell’eleganza, sempre con un dolcevita, completi costosi, trench e giacche di pelle, uno insomma che non si è mai messo una tuta in vita sua per andare in panchina. Uno che capirà presto che George Delikaris è il calciatore più talentuoso che ha in squadra ma anche un personaggio problematico da gestire con attenzione. Al Pireo intanto arrivano gli uruguaiani Julio Losanda e Milton Viera, quest'ultimo il primo straniero a venire a giocare in Grecia, il  nazionale francese Romen Argyroudis , gli attaccanti  Yves Triantafyllos  e Michalis Kritikopoulos, il fantastico Mike Galakos, Giannis Kyrastas, Babis Stavropoulos lo specialista dei calci piazzati, i ragionieri del centrocampo Takis Synetopoulos e Niko Yutsos, e soprattutto, lo abbiamo citato, George Delikaris, (arrivato per 1725000 dracme dalla piccola società degli Argonaftis), colui che chiamavano “il Dio della domenica" o il "George Best di Grecia”, sia per una discreta somiglianza con il Best nordirlandese, sia anche per le affinità nel privato. Infine, dietro, un quintetto difensivo diventato una "poesia" in bocca all'Olimpo: Kelesidis, Gaitatzis, Siokos, Glezos, e Aggelis. L'Olympiakos vincerà 3 titoli nazionali consecutivi, e due coppe di Grecia. Nella Coppa dei Campioni datata 1974/75 il sorteggio lo opporrà subito al Celtic Glasgow. In un Celtic Park fosco, umidiccio, davanti a 40000 persone, nella pancia scoperta di uno stadio ancora vergine di sconfitte in Europa, l'Olympiakos azzardò, passando in vantaggio con Milton Viera al 36º minuto, abile ad aggirare un legnoso McNeill, subendo poi il pareggio di Paul Wilson in chiusura di primo tempo su un cross di Danny McGrain. L'Olympiakos la chiuderà in 10, perché l’autore del goal, Viera, deciderà di non farsi mancare niente facendosi espellere a dieci minuti dal termine. Al ritorno, il campo di gioco del Pireo era stato riseminato appena due settimane prima della partita e la superficie presentava grumi, gobbe, pennacchi d’erba, qualche insidiosa fossetta e in alcuni punti c’era solo terra nuda e cruda. Forse uno dei campi peggiori del mondo, e il Celtic ebbe pure una mezza intenzione di appellarsi all’ Uefa.  l'Olympiakos si impose segnando due reti nei venti muniti d'apertura, entrambe direttamente da calci piazzati. Un 2-0 firmato Michalīs Kritikopoulos e Babis Stavropoulos. Nel turno successivo, disputato contro l’Anderlecht, accadde l’imponderabile. Evidentemente le velate proteste del Celtic per le difficoltà incontrate sul quel terreno poco praticabile infastidirono comunque la federazione europea e ai greci, dopo aver perso male 5-1 a Bruxelles, non bastò il 3-0 interno per superare i bianco malva perché l’arbitro, l'ungherese Károly Palotai, annullò addirittura tre goal all’Olympiakos, uno di Galakos, uno di Charalambos e uno di Stavropoulos, non concedendo due rigori apparsi evidenti. Il tutto fra le proteste vibranti e i petardi lanciati dalle tribune in un clima di pericoloso subbuglio. Il 27 dicembre dello stesso anno, Goulandris, attraverso un telegramma inviato dalla sua residenza invernale a Gstaad, in Svizzera, presentò le sue dimissioni dalla presidenza dell'Olympiakos, adducendo motivi privati, gravi problemi di salute, oltre alla tremenda delusione per i risvolti della partita con l'Anderlecht. “Non sono triste per la mia imminente morte- disse. Quello che in realtà mi rattrista, è il fatto che non potrò più guardare il mio amato Olympiakos”. Tristezze, sospetti e rimpianti per una squadra che poteva davvero arrivare fino in fondo. Invece qualche anno dopo arrivò il Gate 7, una tragedia, che segnerà per sempre la storia degli “Erithrolefki”.

 

domenica 19 dicembre 2021

QUELLI DELLA FRIEDHOFSTRIBÜNE


Vienna, distretto di Dornbach. Respiro volubile della Friedhofstribüne, la gradinata accanto al cimitero, foglie secche, muschio e controfigure del nostro domani con qualche orpello asburgico sull'ovale fumé. Lo stadio del Wiener Sport Klub ti appare tra imbarazzo e insolenza nel cedimento degli occhi e del chiavistello del Platz; penombra zaffata di birra, programmi domenicali abbandonati sulle tribune, lo Stadion Magazine, voce del popolo, pretesa di celebrità, impulso di osservazione dentro un recesso di forma e muffe. Lo si vende in un botteghino stamberga, nido di latta e ferro, casermetta da cambio della guardia, alla pari dello stadio, altro alambicco, dove dal 1904 giocano gli Schwarz-Weißer adombrati dal profilo retrò di un palazzone di Hernals, margine periferico sofferente allo svanire dei tram gialli della Ringstrasse e delle anse del Danubio. Il Wiener Sport Klub ha camminato sulla storia calciando un pallone nel fango, sotto piogge gelate e dentro pomeriggi tersi di sole, quando ancora la barba di Francesco Giuseppe si aggirava nei corridoi di Schönbrunn, e lo ha fatto sul terreno presumibilmente più antico su cui si è giocato ininterrottamente in Austria e forse anche nell'Europa continentale. Il Platz è santuario laico, la tribuna principale appoggia direttamente al muro di cinta del cimitero limitrofo, altrove d’argilla puntellata dal supplizio del marmo, mentre, con le spalle rivolte ai defunti, i tifosi assistono alle ormai poco eccitanti prestazioni della loro compagine pur ammiccando a quel numero 17, perché qui non è possibile essere il dodicesimo uomo ma solo il diciassettesimo, unica cabala d'appello per far ruotare, stridendo, ai piedi di un cielo abbrunato, i cardini del cancello del camposanto. La Friedhofstribüne, letteralmente la “tribuna sul cimitero” è diventata il ritrovo di tifosi di una società a stretto azionariato popolare, che si oppongono alla mercificazione del calcio facendo risuonare, blandamente, quasi per dispetto, una marcia funebre all’inizio di ogni partita, nel sottobosco seminascosto della "Regionalliga", nobiltà decadute e modesti calciatori di quartiere.  Ma il Wiener Sport Klub negli anni '50 sarà un illusione di stravizio che lo portò a laurearsi due volte campione d’Austria e a dare sette sberle alla Juventus che qui venne per un quarto di Coppa dei Campioni con Sivori, Charles e Boniperti beccandosi la più pesante sconfitta europea mai registrata nei suoi archivi. Da un anno sono stati avviati i lavori di rinnovo, un rimodellamento che in un baluginio da basso impero lascerà intatti un paio di settori e soprattutto quei riflettori portati dal Prater nel dopoguerra; quei riflettori non si muoveranno, perpetuando le gesta dei nasi forti da scuola danubiana di Hans Pesser, Josef Hammerl e Erich Hof, nel crepuscolo di sottintesa sovranità, permeato da un valzer di Strauss nel punto in cui lo spartito prende consistenza e tutto il resto rimane un rumore monocorde e lontano, del tutto incapace di accendere sfumature nell'inquietudine dell'anima protesa al silenzio.


 

 

lunedì 13 dicembre 2021

I RAGAZZI DEL SAAR

 


Questioni di confine, starnuti della storia, curiosi intrecci del destino. Saarbrücken in fondo per la sua posizione incastonata fra protuberanze tedesche e gibbosità francesi avrebbe potuto benissimo essere la capitale del Sacro Romano Impero ma Carlo Magno preferì Aquisgrana, un po’ perché vi aveva trascorso l’infanzia, un po’ perché attorno al presbiterio gotico della Cattedrale gorgogliavano un sacco di pozze termali e non sia mai che un imperatore coniato su moneta e incoronato dal Papa nella notte di Natale non abbia diletto a lisciarsi la barba infilato fra i fumi dell’acqua sulfurea. E allora a Saarbrücken dovettero accontentarsi di respirare stretti nel cuore dell’Europa, finché un giorno qualcuno scoprì un giacimento di carbone, e la regione della Saar fu una di quelle che contribuì maggiormente alla rivoluzione industriale tedesca e all’ascesa pinzuta degli elmi bismarckiani del Secondo Reich. Ma le guerre, che secondo Hegel sono l’ecologia della storia o forse no, si metteranno a scombussolare la regione perché i francesi usciti vincenti dalle trincee vorranno questo pezzetto di terra per farne un dipartimento, per scaldarsi meglio, soprattutto per ripicca, d'altronde avranno pure fatto la Rivoluzione contro i privilegi della nobiltà ma continuano imperterriti a soffrire dei desideri di “grandeur”. Oh, a questo punto, quando le cose incominciano a farsi serie, naturalmente intervengono i nuovi depositari delle mappe del mondo, ossia gli americani, e il presidente Woodrow Wilson, deciderà di mettersi di traverso alla conferenza di pace tenuta a Versailles producendo un compromesso. Le miniere di carbone furono date alla Francia in conto indennizzi e la regione, denominata “Territorio del bacino della Saar”, concessa in amministrazione congiunta per un periodo di quindici anni a Parigi oltre che a quegli impiccioni degli inglesi. Alla fine di questo lasso temporale un referendum avrebbe permesso ai cittadini della Saar di decidere il proprio futuro. E cosa volete, questi si guardano a destra e vedono un imbianchino austriaco risollevare la Germania in un batter d’occhio, e allora, presi da indomita tentazione faustiana, il 13 gennaio 1935, con il 90,8% dei voti, scelsero la Germania al primo atto. Ma siccome le tragedie né prevedono di susseguenti, naturalmente ve ne sarà un'altro, apparentemente simile al primo. Al termine del secondo conflitto la Saar fu occupata con una certa soddisfazione dalle truppe francesi e il governo di quel candelone smilzo di De Gaulle sperò, ancora una volta, di annetterla o farne al limite un protettorato. Nel frattempo si gioca anche a calcio e verrà creato un torneo interno (la Ehrenliga Saarland), ma a differenza delle altre squadre presenti il Saarbrücken non andò a giocare nel campionato "fittizio" e così diventò Sarrebruck finendo a dare calcioni e un pò fastidio nella serie B francese. Toh, campionato vinto, ma al momento di iscriversi nella massima serie i club transalpini, infuriati, faranno muro. Insomma, non è un club francese, non è del tutto tedesco, ma non è nemmeno apolide. A causa di questo fatto, il Saarbrücken si ritirò dal campionato francese, giocando i due anni seguenti solamente delle amichevoli o una coppetta di loro invenzione, la cosiddetta “Internationaler Saarland Pokal” che coinvolgerà un certo numero di squadre europee. A questo punto la federazione internazionale propenderà affinché la regione della Saarland diventi una nazionale a sè stante, e gira che ti rigira questi partecipano con il nome di SAAR alle qualificazioni (come Stato indipendente) sia per le Olimpiadi del 1952, sia per i Mondiali di calcio svizzeri del 1954 dove incontrano per strada guarda caso i fratellastri della Germania Ovest perdendo ad Amburgo 3-1 e pareggiando 0-0 nell'ovale del Kieselhum Stadion. In questo ballo della confusione, il Saarbrücken si iscriverà alla Coppa dei Campioni divenendo il primo avversario di una squadra italiana nelle moderne Coppe europee. Toccò al Milan ospitare il Saarbrücken, e a San Siro i rappresentanti della Saar vinceranno per 4-3. Sotto per 3-1 al 39′ del primo tempo furono in grado di ribaltare il risultato grazie alle reti di Waldemar Philippi, Karl Schirra e Herbert Martin. Poi al ritorno il Milan di Nils Liedholm e Cesare Maldini risistemerà le gerarchie prendendosi i quarti di finale imponendosi nettamente quattro reti a una. Intanto stava arrivando la soluzione politica definitiva, vale a dire un trattato con cui Francia e Germania, Mollet e Adenauer, si accordarono per lasciare alla Saar il diritto di decidere da che parte stare. Lo Statuto, autorizzato dai due parlamenti proclamava “europeo” il carbone della Saar e la regione una sorta di embrione d'unita continentale. Solo che questo passo sarà preventivamente sottoposto a istituto giuridico elettivo che ebbe il risultato di un secco "No grazie". I cittadini di Saarbrücken e dintorni dimostrarono di non aver cambiato affatto idea: il 67% votò per l’annessione alla Germania Federale, e nella Saar avevano ancora il diritto di considerarsi tedeschi a pieno titolo, senza più strane declinazioni d’ambiguità.

LIVING THE DREAM

  “Sto andando a Gretna Green, e se tu non riesci a indovinare  con chi, dovrò considerarti un’ingenua, perc hé c’è un solo uomo al mondo ch...