Estasi bellica. L'attesa per
cosa sarebbe potuto accadere nel ritorno della semifinale fu ostinatamente grave
e con quel filo di epica moderna smarginata nel deteriore tutto post ellenico. L’Apostolos
Nikolaidis, oggi come allora, era un terreno di gioco a portata di lancio, di
sputo e di offesa. Dove le bibite venivano vendute dentro sfere di plastica che
ne facevano piccole bombe. D’altra parte un po’ di rovinologia applicata al calcio è doverosa, quasi
obbligatoria. Il senso di officiare tutta una lunga depravazione di tifo, di
passione, che cerca dei punti fermi, delle pietre miliari. Ma pure la speranza
che comunque tutto possa andare bene, così che in futuro si possa continuare a dire che qualcosa può andar male, il che è facile da scrivere e forse
anche da leggere. Panathinaikos contro Stella Rossa dopo il 4-1 per gli slavi
all’andata a Belgrado sembrava un barattolo di “moussaka”, (yogurt con miele e dolci di
vaniglia) scaduto, indigeribile, o al limite dal tappo ossidato, ostinato. I posti in curva, posti? loculi schiacciati,
sardineschi, da "Deo concedente" perché infondo il tifo deriva nell'etimo da “abbonato“ ossia persona un po’ "tocca", "rimbabita", insomma gente da istituto psichiatrico ma anche impregnata da quel
cristianesimo da martirio dei primi secoli. Lo stadio, adagiato sulla via
Alexandras, la lunga arteria che si imbocca per dirigersi verso la gloria di Maratona,
appariva ignobilmente angusto, minuscolo, senza che mai il sinonimo di "lillipuziano" significhi anche
civettuolo, e venne riempito da volgare pubblicità europea con caratteri
ovviamente latini, per beccarsi due soldi dall'Eurovisione. Intorno case
antiche, cariate, o nuovissime, qualcuna ancora da chiudere con i vetri, gli
ultimi piani destinati a trasformarsi in attici strapagati. In lontananza, una
collina spelata, dove qualcuno si sedette sicuramente con un binocolo. Insomma uno dei più goffi
posti mai dedicati al calcio, eppure fu proprio il brutto, in senso assoluto, e
non relativo, dell’impianto a presentarsi talmente sinistro per quelli della
Stella Rossa al punto da farla cedere di schianto lasciando la folla in estasi;
i verdi vinceranno 3-0 e andranno in finale della Coppa dei Campioni in una
sorta di beatitudine tifoidea dei trentamila ammassati e felici. Tra la
folla anche l'attrice Zeta Apostolou una bella bionda patinata e platinata che, seguendo l'esempio di una ballerina
turca, aveva offerto la sua compagnia, per un'intera settimana su una spiaggia hippie di Creta al portiere greco, se questi non avesse incassato nemmeno un
goal. Oh beato lui, ci troneremo a breve. In ogni caso, doppietta di Antonis Antoniadis e suggello di
Aristidis Kamaras. Il Pana? a Atene significa essere di estrazione borghese, l'Atene di ideali
conservatrici, l'Atene con un respiro curioso da ventaccio di scogliera
britannica. Colpa di un podista. La storia è questa: Il 18 aprile del 1906 tale
Billy Sherring, baffuto atleta canadese di origini irlandesi, vincerà la sfacchinata
degli “Intercalated Games”. Sugli spalti c'era Georgios Kalafatis, un atleta
greco, colpito dal grande trifoglio cucito sulla maglia di Sherring (era
l'emblema del club di Sherring, il St. Patrick Athletic Club). Due anni dopo,
il 3 febbraio 1908, Kalafatis fonderà il Panathinaikos. E volle il trifoglio (in
greco "τριφύλλι") pronunciato "trifylli" sulle maglie, scelto come
simbolo di unità, equilibrio e buona fortuna. Nel 1971 sulla panchina del
Panathinaikos si era seduto l’ungherese Ferenc Puskas, ex campione, gran condottiero
mercenario, e gran bevitore, che nel calcio stava vivendo una sua seconda
giovinezza. Alla vigilia della finale continuava a essere stupito, non sapeva
spiegarsi in quale modo la sua squadra fosse giunta a tanto: “E' un miracolo
essere giunti fin qui”. Puskas sapeva molto bene di essere alla guida d'una
squadra formata da giocatori mediocri, una banda di onesti mestieranti tutti
semiprofessionisti che al calcio agonistico abbinavano il mestiere del medico,
dell'avvocato, del macellaio o dello studente, e per i quali la Coppa stessa aveva
veramente il sapore di una favola. D'altra parte non poteva neppure sottrarsi alle
regole del gioco. La Grecia in quel momento è conosciuta all’estero più per i
suoi colonelli, e quindi il Panathinaikos avrà la bella occasione di portare al di fuori dei
confini un successo sportivo che la Grecia della politica proprio non riesce ad
ottenere. I giornali inglesi definirono la brama di vittoria di quel Pana “il
ruggito del topo” mutuando un vecchio film di chiarissimo humour albionico,
dimostrando che ancora non avevano affatto abdicato alla precipua
concezione dell’unico Dio Football “Made in England” guardando con snobistico
distacco alla finale di Coppa Campioni nel loro Wembley nonostante arrivi oltre
ai greci quell’Ajax, uscito dal sottobosco della pedata negli ultimi tre anni. Nella
variopinta Londra, in grado di recepire e annullare ogni bizzarria, le alte
tube bianche e rosse dei tifosi olandesi non sembrano neppure simboli
calcistici, ma solo un'ennesima trovata di hippies in declino. Facevano sicuramente
più effetto i gruppi di piccoli greci, baristi, camerieri, operai, manovali radunatisi
per la festa, ora preoccupati, ora allegrissimi e brindanti in vista di un
traguardo mai osato neppur nei sogni. Il verdissimo velluto di Wembley era
pronto, già Wembley, quello vero, dove il peso di un filo d'erba sulla
traiettoria d'un pallone era sempre più alto. Il 2 giugno 1971 il Panathinaikos esce
dal tunnel con un completo verde e il trifoglio sul petto.
Eppure uno di loro non era né in verde né aveva un trifoglio. Rieccolo. Si tratta di Takis
Ikonomopoulos, il portiere. Con il suo fisico imponente, la sua perfetta pettinatura
e il viso volitivo e armonico sembrava estratto direttamente da una pagina di
Anassimadro o Pitagora. Ikonomopoulos, con la sua perenne espressione seria,
si mostrò vestito completamente di nero, un'ombra lunga pronta a librarsi sopra qualsiasi
pallone che si trovasse intorno alla sua porta. Ma il trifoglio non apparve sul
suo petto. Pochi si accorsero che al suo posto c'era uno strano scudo ovale da cui
emergeva un'aquila dalle ali strette come fosse sull’attenti. Ikonomopoulos
aveva due passioni: i pop corn e il suo collega basco José Ángel Iribar.
E per via di questa seconda faccenda volle rendere omaggio al portiere che
ammirava e con il quale, volle il destino o gli dei dell’Olimpo, aveva avuto
modo di scambiare in precedenza la maglia. Accadde in un'amichevole sghangherata da un insolito freddo e giocata a
Saragozza il 28 ottobre 1970. La Spagna vinse 2-1 con le reti di Aragonés e
Quini. Al fischio finale, Takis e “Txopo” si sono scambiarono le rispettive divise, un usanza
non ancora troppo comune. Il Panathinakos a Wembley è
guidato dal capitano Dimitris “Mimis”
Domazos, i difensori Aristidis Kamaras
Anthimos Kapsis e Frangiskos Sourpis, a centrocampo Yannis Tomaras, e Kostas Eleftherakis, per poi giungere alla coppia d’attacco
formata, dal bomber Antonis Antoniadis e dal citato leader indiscusso Domazos, crudeli
interpreti del contropiede e privi della minima ombra di paura. Ad Atene ogni
tv è coperta da una bandiera verde, in zona centralissima, precisamente a
Monastiraki, al mercato delle pulci, forse il miglior mercato della città, ogni
banco ha una radio accesa, in una cacofonia di voci, volume, e frequenze discrepanti
e distorte. Gli inglesi alla fine tiferanno Panathinaikos un pò per
rendere la cortesia usata dagli ateniesi al Chelsea nella recente finale della
Coppa delle Coppe e facendo finta di ignorare che il Panathinaikos aveva eliminato
dal torneo l'Everton, ma purtroppo il loro supporto non fu determinante così, come
non lo sarà, va detto, lo stimolo dei premi giganteschi corroborati da dracme e
dollari privati (cioè di Onassis, il nuovissimo Ali Babà del calcio greco)
circa 300 milioni da spartire per il “reggimento Puskas”. Non una lotteria, una
battaglia per il benessere perpetuo che però il Panathinaikos non incassò colpito
e affondato nell’alfa e omega dell’incontro da Dick Van Dijck, (gran
diagonale di testa su cross di Cruyff) e da una maldestra autorete di Giorgios
Vlachos goffamente piegatosi a respingere di testa un pallone crossato da Arie Haan.
Nel complesso gioco melenso ma volonteroso dei greci, che non segnarono solo
perché stranamente parvero ignorare Euclide e un volume geometrico detto sfera.
La partita si trascinerà via come una cattiva commedia caduta nelle mani di un
regista delirante attorniato da attori sfiatati. L’Ajax si accontenterà di
amministrare senza affanno. Ad Atene spensero tutto, restarono le bandiere verdi,
il trifoglio e quella maglia nera regalata da Iribar a Ikonomopoulos, ma certe occasioni non torneranno.
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