1958. A Vagan’kovo scorrono i treni,
la linea ferroviaria vista dall’alto assomiglia a una lunga cicatrice suturata dai
punti di un bravo Dottor Zivago, posta al limitare della terra consacrata, orlo di
confine fra i vivi e i morti. Di fronte al cancello di Vagan’kovo c’è la strada per
Zveningorod la città dalle campane sonanti amata dalla zarina Caterina. La carreggiata è percorsa
da automobili di piccola cilindrata, bicilindriche e scoppiettanti, poi ogni tanto ecco apparire camioncini presi nolo, zeppi di carabattole, di matrioske, scialli, ceramiche, e miniature palekhe. Vagan’kovo
è un cimitero, un cimitero sordo, ubicato nel quartiere Presnenskij di Mosca, il quartiere che
prese il nome dal torrente Presnja, un burbero affluente della Moscova oggi ormai interrato
nel sottosuolo. Gli aceri del camposanto sembrano dipinti, immobili,
ombreggiano i tavoloni del mercato attiguo addossati ai muri in calce del camposanto, bianchi come le
notti di Dostoevskij. Dicono sia un mercato importante, quasi sempre affollato, ennesima smarginatura
dall' eterna
requie incastrata fra il rumore dei mezzi e il vociare degli ambulanti, rubizzi,
incappellati persino nella bella stagione moscovita, intenti a destare l’attenzione di possibili
clienti con grida dal timbro smorzato dalla raucedine, da troppa vodka, e da tanti anni di gelate mattutine prese per procurarsi qualche rublo. Al
cimitero di Vagan’kovo la gente porta vanghe e annaffiatoi, in primavera cavano le erbacce,
piantano fiori, tinteggiano gli steccati sistemano le tombe, la ghiaia, dopodiché
si siedono sulle panchine del camminamento, vicino alle lapidi dei parenti defunti, stendono tovaglie e mangiano zuppe di pesce, patate e cavolo; le voci si animano, fin troppo, prendono colore, si scuotono in risate
fragorose, perché tanto il trapassato non se ne avrà a male, già essere stato
seppellito qui è un onore, ottenere un posto a Vagan’ovo è difficile quanto
conquistare la residenza a Mosca per chi arriva dalla provincia. C’è la tomba
di Sergej Aleksandrovič Esenin, il poeta dagli occhi di ghiaccio e i riccioli chiari, messo all’indice
dal regime, che come Majakovskij crollò nella disillusione, e si toglierà la vita con una cordaccia sfilacciata. "Bisogna, strappare la gioia, ai giorni futuri, In questa vita, non è
difficile, morire, Vivere è di gran lunga più difficile". Forse Majakovskij,
avrebbe voluto essere sepolto anch’egli insieme a Esenin, a Vagan'kovo, forse perché con Esenin
qua e là riposano molti dei calciatori dello Spartak "la squadra del popolo" la
sua squadra, quella della Krasnaja Presnja (la “Rossa Presnja”) il quartiere operaio
fucina della rivoluzione a Mosca. Lo Spartak, ben presto diventerà più di una semplice espressione di quartiere, distinguendosi in numerose competizioni al punto che Vladimir
Majakovskij le dedicò addirittura dei versi, beffardi, afflitti: “In Russia anche a crepare squadra migliore
della Krasnaja Presnja non puoi trovare”. Lo Spartak costituitosi per l'anagrafe russa il 18 aprile
1922, su proposta di Ivan Artem'ev, si sitemerà sulle basi di una società ricreativa nata da
un sindacato operaio richiamandosi a Spartaco, lo schiavo che aveva
capeggiato la rivolta contro i romani per la conquista della libertà, anche se sarà Nikolaj Starostin, vene, tempra, occhiali, sciarpa e borsalino di lana, figlio di un guardiaboschi, la vera figura emblematica
dello Spartak, interrogato nei sotterranei della Lubianka e finito per
un periodo in un gulag. La Rivoluzione d’Ottobre non arrestò la diffusione del calcio, viceversa la
favorì, perché gli impianti dei vecchi circoli a cui
avevano accesso solamente i soci più abbienti dietro pagamento di una quota proibitiva per
le classi popolari, vennero nazionalizzati e messi a disposizione di
tutti sotto una nascente organizzazione di tipo “dopolavoristico” nonostante qualcuno lassù, chiese l’abolizione del calcio in quanto attività diseducativa,
che premiava l’inganno e favoriva la violenza, in campo e tra il pubblico.
Altri proposero di riformare radicalmente le regole del gioco ma
alla fine per fortuna non se ne fece nulla perché il popolo investì di lettere di protesta i giornali. Il popolo amava il calcio così
com’era. Nel 1921 Starostin era stato invitato a dirigere la
modesta squadra del Krasnaja Presnja e abilmente riuscirà a trovare uno sponsor nel settore alimentare, un azienda produttrice di cibo in
scatola, e così la compagine si prenderà alla svelta il soprannome di “La carne” (Mjaso) acquisendo
il rombo bianco e rosso dell’azienda con la C al centro del simbolo che
accoglie, o stringe, un pallone. Nel 1928 il club diventerà a tutti gli effetti Spartak Mosca,
grazie ai buoni uffici di un amico di Starostin, Alexander Kosarev, segretario del Komsomol, la gioventù comunista. In campo Nikolaj, fu affiancato dai fratelli minori,
una squadra nella squadra, tanti dribbling e tanti sorrisi di soddisfazione. Ma bastarono
pochi anni per trasformare la scena calcistica sovietica in uno scontro non
solo sportivo tra lo Spartak e la Dinamo di Lavrentij Pavlovič Berija, il capo
della polizia segreta, perché quando lo Spartak violò in maniera eccessiva la
legge non scritta di sconfiggere quelli con la D sul petto, per Starostin
cominciarono i guai, guai seri, finiti in pratica dopo la dipartita di Stalin nel 1953. E la squadra degli
anni cinquanta fu una delle espressioni più belle e apprezzate dello Spartak
Mosca d'ogni epoca, una risma eccellente degna delle tavole sacre del Bol'šoj, allenata da
Nikolai Alekseevich Gulyaev ottimo scacchista e riflesso del Cremlino, una fede cieca nelle disciplina: "batteremo la classe con l'ordine". Nel gruppo, che nel 1958 riuscirà a conquistare la cosiddetta
“coppa di cristallo” (il trofeo nazionale) e il campionato, ossia la fatidica “Klass
A”, c’era un ragazzo di origini italiane, il taciturno Igor Aleksandrovich
Netto. Igor
Netto era di madre estone e padre italiano, un falegname di radici venete. Giocando
con la divisa biancorossa, Netto si guadagnò il soprannome di Oca per la sua
voce sibilante e per via del lungo collo. Alto, bello, compassato nell’ordinazione
ieratica, sacerdotale, la faccia ferma, come un airone nel vento, un indefinita voglia di solitudine mistificata dai
capelli castani con la divisa. Uno abilissimo nel passare la palla nel breve, quando
il passaggio corto diventò dogma, piano quinquennale, e l’impatto di Igor sugli
altri calciatori sarà davvero enorme, al punto che, nonostante la giovane età, i
suoi compagni lo eleggeranno subito per acclamazione a capitano dello Spartak, e
persino dell’URSS, con cui conseguirà la vittoria delle Olimpiadi e degli
Europei. C’è questa foto, simile a un
vetro oleato, scattata il 2 novembre 1958, nella finale del prestigioso trofeo di
cristallo, un mezzogiorno di sole, alla presenza di 110.000 spettatori al
vecchio stadio di Luzhniki di Mosca, quando lo Spartak, dai mazzi infiorati, sconfiggerà 1-0 ai tempi supplementari i vicini della Torpedo grazie al goal vincente di
Nikita Simonyan. E poi nella partita decisiva per il campionato, solo otto
giorni dopo, batterà la Dynamo Kiev 3- 2: Doppietta di Sergey Salnikov oltre a
una rete del bomber Anatoly Ilyin in una giornata stavolta di neve, di
colbacchi e fango sotto i tacchetti. Netto si dimostrò persona di
eccezionale onestà. Durante un incontro valevole per la Coppa del Mondo disputata
in Cile nel 1962 contro l'Uruguay sul punteggio piantato sull’ 1–1, Igor
Chislenko segnò la rete del vantaggio per i sovietici in maniera irregolare, l’arbitro
tuttavia convalidò e a nulla sembrava valessero le proteste del povero portiere
uruguaiano, almeno finché Netto confermerà che il pallone tirato da Chislenko era
passato da un foro laterale sulla rete della porta. Una buona azione, e l’Unione
Sovietica vincerà lo stesso lo partita. I tifosi ricordano Netto un po’ come
l’eterno vincitore, un uomo fortissimo: eppure, una disfatta, seppure diversa
ma pur sempre bivio di tracollo, si stava accalcando su di lui, come Starostin,
come Esenin, come Majakovskij, la dannazione del non ricordo, del morbo,
infilandolo dentro un pozzo di debolezza, senza finzioni, frizioni o fraintesi.
Ora Igor riposa, riposa fra gli aceri di Vagan’kovo, insieme ad altri compagni
di quella squadra straordinaria, si, riposa a Vagan’kovo, dove la gente ancora guarda dai finestrini
appannati dei treni i banchi accatastati del mercato, mentre qualcuno valicato il muricciolo del cimitero è intento
a sistemare vasi lucidare il marmo piegato accanto agli epitaffi delle controfigure del nostro
domani.
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