"Andrew, stacca sono quasi le otto e mezza, e per oggi direi non c'è molto più da tirare su, e poi stasera sbaglio o c'è quella finale di calcio?" -" Si Martin, è stasera e infatti scendo giù in cabina, oh, se sentite delle urla non chiamate Scotland Yard mi raccomando"- "...Figuariamoci, Scotland Yard... qui a malapena arriva la guardia costiera, troppo puzza di greggio per i loro nasini delicati"
“Jock, hai qualche consiglio da darmi per la partita?” – “Si, vai a comprare una bottiglia di whisky e regalala al loro allenatore”. Ora, Jock è Jock Stein, ovvio, uno dei totem del calcio scozzese, all’altro capo del telefono invece la voce era quella di Alex Ferguson, il giovane talentuoso manager dell’Aberdeen finito in panchina a Pittodrie dal 1978. E l’allenatore degli altri, del Real Madrid, quello a cui arriverà una bottiglia di Bowmore invecchiato 12 anni, aveva un nome piuttosto pesante: Alfredo Di Stefano. A Ferguson non si chiesero mai grandi cose. E poi con chi poteva realizzarle a guardar bene sotto i tettucci rossi di Pittodrie increspati di salsedine? In porta c'era Jim Leighton uno scampolo biondastro uscito da una rissa da pub privo di incisivi, la stanga Alex McLeish, difensore corrusco e legnoso come i banchi delle sua scuola di Barrhead a Glasgow in cui lo vide Alex McLeod che se lo portò con timide speranze a 16 anni ad indossare la maglia dei "Dons". Spuntavano i baffi da gringo di Willie Miller, capitano senza infamia e senza lode, e magari la frangetta di Peter Weir buon corridore, un ala di talento, magari non come quello di Gordon Strachan ma senza dubbio utile e in fondo assomigliava a Mike Oldfield che stava scalando le classifiche musicali con "Moonlight Shadow". Ecco il merito di Ferguson risiedette innanzitutto nel eliminare il pessimismo presbiteriano che spesso affliggeva le squadre di calcio scozzesi. Già, Ferguson. Lui nacque nell’ultimo giorno disponibile del 1941 a Govan, quartiere problematico della periferia ovest di Glasgow, cresciuto in un mix tra calcio, alcol e politica. “Crescere in un posto così ti indica la via”, ha più volte citato espressamente mister Alex, facendo riferimento a quell’infanzia problematica nelle cosiddette "suburbs". Bocciato alle elementari, all’High School, poca voglia di studiare, ma pronto però a mettersi in gioco, ed è così che ebbe inizio la sua carriera da apprendista, alternata al calcio professionistico e al lavoro in fabbrica col padre. Quando arriva a Pittodrie nella sala dei trofei potevi farci un party dallo spazio disponibile, e lui dato un occhiata evidentemente decise di ribaltare quegli albi d’oro che l’Aberdeen aveva occupato solo nel 1955. La prima stagione è di ambientamento (quarto in classifica a -8 dalla vetta), ma la seconda è già quella della svolta: 1979/80. La stagione è vissuta sottotraccia all’inseguimento del Celtic in costante attesa che la vite giri nel modo giusto. Il momento decisivo arriverà a quattro giornate dalla fine. A Parkhead i Dons dominano 3-1 grazie alle reti di Archibald, McGhee e Strachan. Il teatro dei festeggiamenti invece è Edimburgo, contro l’Hibernian. La classifica finale reciterà: Aberdeen 48, Celtic 47. Nel frattempo arrivano altre soddisfazioni ma dobbiamo correre a Göteborg. Pioggia battente, umidità, terreno al limite, perfetto clima di casa. Dentro andò subito Erick Black al ritorno da un infortunio mentre in panchina si accomoderà Stuart Kennedy dopo una bella botta ricevuta in semifinale contro i belgi del Waterschei. Oh, in ogni caso la battaglia fu nei quarti contro il Bayern, diciamo il vero anticipo della finale. Serviva una partita perfetta, quella che Alex Ferguson chiese ai suoi. È quella che gli scozzesi metteranno davanti agli occhi dei 18.000 giunti lassù non solamente con quel benedetto traghetto ma principalmente con qualcosa come 60 voli charter alzatesi da ogni aeroporto del Regno Unito. L’inizio fu proprio nel segno di Black. Il numero dieci prima colpirà una sontuosa traversa su semirovesciata volante e poi segnerà la rete del vantaggio con un tocco ravvicinato causato un errore banale del terzinaccio barbuto Juan José Jimenez detto Sandokàn. Il pareggio di Juanito su calcio di rigore si dimostrerà solo un fuoco di paglia, vacillante, etereo al pari delle maglie bianche del Real. I "Dons" non concederanno più nulla, dominando il "Madrid" di Juanito, di Santillana e del grugno tedesco di Uli Stilike, con una sicurezza singolare, degna di veterani eppure i novanta minuti non bastarono come non bastò Gordon Strachan, letteralmente imprendibile. Così Mark McGhee corse sulla sinistra quando mancavano sette minuti alla fine dei tempi supplementari, buttando la palla nel mezzo per l’accorrente John Hewitt, il portiere madrileno Agustin non farà in tempo a consultare il manuale delle uscite perfette. Aberdeen 2 Real Madrid 1, l’avevo detto roba da matti.
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