mercoledì 15 marzo 2023

A LIGHT IN THE NORTH



Dal molo di Aberdeen quella piattaforma al largo del mare del nord potevi vederla solo nelle nitide giornate spazzate dal vento e incorniciate dal volo oracolare dei gabbiani, per il resto dell’anno quel puntino scuro, quasi informe, laggiù in fondo all’orizzonte sembrava divertirsi a sparire dietro a sipari di nebbia o pioggia battente. Andrew Corbin ventenne lungo, spigoloso e rossiccio, ci lavorava come operaio in apprendistato addetto alla manutenzione. Tutto sommato un buon lavoro, voglio dire meglio della miniera, occorreva semmai adeguarsi in fretta al fatto di restare lontano da casa per delle settimane ma nella sua cabina si era ricavato un alloggio confortevole zeppo di riviste vietate ai minori e anche qualche libro di seconda mano. Soprattutto pensò bene di fornirsi di una radio con la quale poteva sintonizzarsi sulla frequenza 93.1 di BBC Radio Aberdeen, dove la voce di Colin Farquharson lo ragguagliava sulle vicende e sui risultati dei suoi amati "Dons". E allora, la sera dell' 11 maggio 1983, a turno concluso, mentre un diluvio torrenziale tamburellava sul 
vetro dell’oblò, si aggiustò il cuscino dietro la schiena, si aprì una lattina di Tennent’s e alzò la mano destra quanto bastò per virare la manopola delle stazioni sull’emittenza giusta. L’Aberdeen di un frizzante Alex Ferguson stava per giocarsi la finale di Coppa delle Coppe contro il Real Madrid, roba da matti.

 

C’era sentore di sciopero. Le riforme della signora Thatcher erano andate a sbattere duro contro il cofano del proletariato britannico. Si annusavano scontri e altre rivendicazioni, con il sindacato instancabilmente sul piede di guerra. Eppure Mike Gray, orgoglioso “Shetlander” di 46 anni dagli occhi chiari con un volto allungato e un po' spiritato dalla barbetta ispida e brizzolata, quella anomala trasferta a Göteborg non voleva certo perdersela, anzi, evangelicamente non voleva farla perdere a tutti quei tifosi dell’Aberdeen (come lui del resto) che da almeno dieci giorni avevano acquistato il biglietto per salire a bordo del “St. Clair”. Alle 13:30 di lunedì 9 maggio 1983 un totale di 493 fan agghindati alla moda "casuals" e 63 membri dell'equipaggio salparono dal porto di Aberdeen diretti alla città svedese al seguito della squadra. Si trattava di un traghetto omologato al semplice trasporto passeggeri settimanale tra Aberdeen e le isole Shetland settentrionali, ma il Capitano Gray ebbe il permesso dalla P&O Ferries Orkney e Shetland Services di allungare il tragitto.. All'epoca molti lo definirono un azzardo: i "pericolosi" tifosi di calcio, si pensava, non avrebbero mai dovuto viaggiare in massa via mare. Ma la proposta commerciale intrapresa dal direttore generale di P&O Eric Turner ripagò profumatamente in termini di profitto e popolarità. Sarebbe stata una traversata di ingenti incassi, una cifra che la compagnia navale avrebbe guadagnato solo se fosse andata avanti e indietro per le Shetland ogni giorno per due settimane senza sosta. Insomma, la St. Clair, ferryboat da 4.468 tonnellate partì dalla città di granito in un crescendo di clacson sulla banchina e nel frastuono delle sirene della stessa nave, completamente imbandierata di biancorosso. Un viaggio irripetibile, il primo e unico enorme speciale carico galleggiante di tifosi nella storia del football britannico.

 

“Jock, hai qualche consiglio da darmi per la partita?” – “Si, vai a comprare una bottiglia di whisky e regalala al loro allenatore”. Ora, Jock è Jock Stein, ovvio, uno dei totem del calcio scozzese, all’altro capo del telefono invece la voce era quella di Alex Ferguson, il giovane talentuoso manager dell’Aberdeen finito in panchina a Pittodrie dal 1978. E l’allenatore degli altri, del Real Madrid, quello a cui arriverà una bottiglia di Bowmore invecchiato 12 anni, aveva un nome piuttosto pesante: Alfredo Di Stefano. A Ferguson non si chiesero mai grandi cose. E poi con chi poteva realizzarle a guardar bene sotto i tettucci rossi di Pittodrie increspati di salsedine? In porta c'era Jim Leighton uno scampolo biondastro uscito da una rissa da pub privo di incisivi, la stanga Alex McLeish, difensore corrusco e legnoso come i banchi delle sua scuola di Barrhead a Glasgow in cui lo vide Alex McLeod che se lo portò con timide speranze a 16 anni ad indossare la maglia dei "Dons". Spuntavano i baffi da gringo di Willie Miller, capitano senza infamia e senza lode, e magari la frangetta di Peter Weir buon corridore, un ala di talento, magari non come quello di Gordon Strachan ma senza dubbio utile e in fondo assomigliava a Mike Oldfield che stava scalando le classifiche musicali con "Moonlight Shadow". Ecco il merito di Ferguson risiedette innanzitutto nel eliminare il pessimismo presbiteriano che spesso affliggeva le squadre di calcio scozzesi. Già, Ferguson. Lui nacque nell’ultimo giorno disponibile del 1941 a Govan, quartiere problematico della periferia ovest di Glasgow, cresciuto in un mix tra calcio, alcol e politica. “Crescere in un posto così ti indica la via”, ha più volte citato espressamente mister Alex, facendo riferimento a quell’infanzia problematica nelle cosiddette "suburbs". Bocciato alle elementari, all’High School, poca voglia di studiare, ma pronto però a mettersi in gioco, ed è così che ebbe inizio la sua carriera da apprendista, alternata al calcio professionistico e al lavoro in fabbrica col padre. Quando arriva a Pittodrie nella sala dei trofei potevi farci un party dallo spazio disponibile, e lui dato un occhiata evidentemente decise di ribaltare quegli albi d’oro che l’Aberdeen aveva occupato solo nel 1955. La prima stagione è di ambientamento (quarto in classifica a -8 dalla vetta), ma la seconda è già quella della svolta: 1979/80. La stagione è vissuta sottotraccia all’inseguimento del Celtic in costante attesa che la vite giri nel modo giusto. Il momento decisivo arriverà a quattro giornate dalla fine. A Parkhead i Dons dominano 3-1 grazie alle reti di Archibald, McGhee e Strachan. Il teatro dei festeggiamenti invece è Edimburgo, contro l’Hibernian. La classifica finale reciterà: Aberdeen 48, Celtic 47. Nel frattempo arrivano altre soddisfazioni ma dobbiamo correre a Göteborg. Pioggia battente, umidità, terreno al limite, perfetto clima di casa. Dentro andò subito Erick Black al ritorno da un infortunio mentre in panchina si accomoderà Stuart Kennedy dopo una bella botta ricevuta in semifinale contro i belgi del Waterschei. Oh, in ogni caso la battaglia fu nei quarti contro il Bayern, diciamo il vero anticipo della finale. Serviva una partita perfetta, quella che Alex Ferguson chiese ai suoi. È quella che gli scozzesi metteranno davanti agli occhi dei 18.000 giunti lassù non solamente con quel benedetto traghetto ma principalmente con qualcosa come 60 voli charter alzatesi da ogni aeroporto del Regno Unito. L’inizio fu proprio nel segno di Black. Il numero dieci prima colpirà una sontuosa traversa su semirovesciata volante e poi segnerà la rete del vantaggio con un tocco ravvicinato causato un errore banale del terzinaccio barbuto Juan José Jimenez detto Sandokàn. Il pareggio di Juanito su calcio di rigore si dimostrerà solo un fuoco di paglia, vacillante, etereo al pari delle maglie bianche del Real. I "Dons" non concederanno più nulla, dominando il "Madrid" di Juanito, di Santillana e del grugno tedesco di Uli Stilike, con una sicurezza singolare, degna di veterani eppure i novanta minuti non bastarono come non bastò Gordon Strachan, letteralmente imprendibile. Così Mark McGhee corse sulla sinistra quando mancavano sette minuti alla fine dei tempi supplementari, buttando la palla nel mezzo per l’accorrente John Hewitt, il portiere madrileno Agustin non farà in tempo a consultare il manuale delle uscite perfette. Aberdeen 2 Real Madrid 1, l’avevo detto roba da matti.


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