mercoledì 22 marzo 2023

"LANE-ROSSI"


C’è un punto, da qualche parte, in cui tutto finalmente si incontra, i suoni, gli odori, i volti, i sentimenti, le persone, e diventa possibile conoscere le cose nel loro insieme. I ricordi dei bambini selezionano, sono emotivi, non si muovono, restano fissati lì, incastrati nella memoria, una volta per sempre alla pari di una “Madeline” di Marcel Proust, al contrario dei ricordi degli adulti, che cambiano, escludono, dimenticano, tradiscono. Così, ritirando fuori dei vecchi “doppioni” Panini, preservati e consacrati, ho ancora oggi la sensazione dolce di un inizio di primavera: crescevo, crescevamo, ne avevamo per la prima volta la consapevolezza, giocavamo a pallone, imparavamo ad allacciarci le scarpe da soli, anche se a modo nostro, e io non avrei davvero mai capito esattamente come si fa. Risuonò il telefono, con quel trillo inconfondibile degli apparecchi SIP, quelli dal quadrante dai numeri a rotella di colore grigio, che in genere stavano adagiati sul tavolino dell’ingresso sopra il centrino della nonna, ogni cosa negli anni settanta stava sopra un centrino di lana perché così non si rigavano i mobili e quando arrivavano i parenti la casa sembrava più in ordine e dopo mica avevano da spettegolare rientrando in macchina. Oh, già il telefono mi ero dimenticato, scusate. All’altro capo echeggiò il vocione di mio zio Ermanno, abitava in uno di quei palazzi dall’intonaco giallognolo in Via San Gallo a Firenze, i capelli radi, tirati all’indietro, ex bersagliere durante la guerra, buona forchetta e discreto giocatore ai “Quadrigliati” che oggi i ragazzi non sanno più nemmeno di cosa si tratti ma non gliene puoi fare una colpa. Sarà stato il 15 o il 16 marzo del 1978 e sotto le strobo in discoteca si impazziva per “Dancing Queen” degli ABBA, ma in Italia erano soprattutto i giorni tremendi e confusi del rapimento Moro, il paese appariva come un gigantesco stivale zeppo di lampeggianti dei Carabinieri e della Polizia, ovunque posti di blocco, ovunque pattuglie, dalle grandi città ai borghi più sperduti. Insomma, tirava una brutta aria, al punto che mio zio ci disse che non si sapeva se la partita di domenica si sarebbe giocata oppure no per motivi di ordine pubblico, si temeva qualcosa, cosa di preciso non lo sapeva nessuno ma evidentemente per un tempo indefinito la nazione ebbe un cedimento. La Fiorentina era ospite della squadra dell’anno, no, non la Juventus (in ogni caso in testa alla classifica) nemmeno dal Milan, dal Torino, o dall’Inter, no, niente di tutto questo: la squadra dell’anno, la sorpresa della stagione, si chiamava Lanerossi Vicenza. Ora per me, cosa vuoi, a 6 anni sentire alla radio Enrico Ameri esclamare "attenzione, il Lanerossi Vicenza è passato in vantaggio", risultava normale, pensavo si dovesse chiamare così e basta, non c’era nulla di strano, di anomalo, anzi per certi aspetti appariva quasi un bel nome, fluido, scorrevole, un nome comune, si dai, un nome talmente comune tipo che so: Paolo Rossi. E poi dalle rare immagini che passavano alla televisione lo stadio del Lanerossi (solo più tardi appresi che quella R annodata sulla maglia si riferiva a un industria tessile di Schio, un cotonificio) si presentava stordente, imperlato di facce, con tutto quel pubblico a ridosso del campo, con i pali di sostegno della tribuna principale belli in vista "a otturare la vista", ma l’estetica batte 4-0 ogni comodità; uno stadio quindi albionico, all’inglese, forse il più inglese di tutt’Italia, quel “Romeo Menti”, dove il 22 gennaio di quell’anno arrivò la Juventus e i vicentini imballarono l’impianto con l’affluenza più alta di sempre ossia 31023 persone, alle quali andrebbero aggiunti anche gli scalatori dei pilastri dell’illuminazione, la gente assiepata sul tetto dell’Hotel Continental e i “recuperati” dai distinti. Una folla, un fortino, un quadrilatero fuso su un rettangolo e che il santino  della Madonna di Monte Berico, nascosta nelle tasche interne dei giacconi insieme alla "mignon" di Cognac interceda per noi, in fondo diceva Mastro Eckhart un conto è Dio un conto è la Deità. Dal ritiro di Rovereto dell’anno precedente (attenzione ritiro per preparare la B dopo vent’anni continuativi nella massima serie) erano passati circa sedici mesi e il Vicenza girava fra le mani di Giovan Battista Fabbri, mani imbevute nei canali di Amsterdam, che avevano modellato un Vicenza ricco di idee, qualcuna persino ardita. Lui, GB, ritornò in panchina fra alterne vicende, e una volta riconquistata la A si trovò seriamente a lottare per lo scudetto. Sottolineo seriamente, poiché poteva apparire una fesseria detta a fine pranzo in un osteria fuori porta a cui nessuno crede. Con la Juve finirà 0-0, invece il Vicenza il 19 marzo 1978 alla fine giocherà contro la Fiorentina nonostante tutto, e prese i due punti grazie a una rete di Rossi, non ancora Pablito, non ancora l’abatino di platino descritto da Gianni Brera, un Rossi dal dubbio amletico, smagrito moretto di Prato arrivato dalla primavera della Juventus, rapido e un pochino malinconico. “Lane-Rossi”, suffisso curioso, se vogliamo simpatico gioco del destino. La figurina Panini è la 144 (potete controllare), album 1977/78, il primo in assoluto che ebbi la gioia di completare. Ci è ritratta una formazione di quel Vicenza che dicono bazzicava fra il Bar di Viale Margherita e la Pasticceria Rossana in Via Egidio di Velo. Onesti mestieranti raggruppati dal presidente Giussy Farina, personaggio amato e odiato, un pò perché si diceva di natali più veronesi che vicentini, sicuramente uomo di sostanza dal nome di battesimo Giuseppe Antonio, ma siccome era un nome troppo lungo lo chiamavano Giussano, donde il diminutivo Giussy. Che sia vezzeggiativo o meno, sul tavolo del mercato calcistico nel maggio del ’78 si giocò la roulette delle buste per la comproprietà di Rossi. Farina credette di avere le carte giuste da giocare…”Due miliardi e sei. Sulla busta devi scrivere: due miliardi e sei” – gli spifferò una fonte anonima – “Giussy, fidati, la Juve mette due miliardi e mezzo. Tu metti due e sei e Paolo è tuo”. Giussy Farina non dormì, ci pensò, si fidò. E la mattina dopo sulla busta in ceralacca della Lega scrisse: 2 miliardi, 612 milioni e 510 mila lire. Solo dopo – quando aprirono la busta della Juve – si scoprì che i bianconeri si erano fermati a 875 milioni. Ne nacque uno scandalo con le dimissioni del presidente federale Carraro ma ormai i giochi erano fatti. Mi resta una vaga bellezza di quel Lanerossi Vicenza, vascello pirata capitanato da Renato Faloppa, ordinato dal libero Giorgio Carrera, uno già con la maglia fuori dai pantaloncini ante litteram, dal portiere senza guanti Ernesto Galli, dal roccioso Giuseppe Lelj, da Roberto Filippi detto “Furia” in associazione con il cavallo della serie televisiva che stava spopolando sulla RAI, e ancora Franco Cerilli, metronomo ceduto dall’Inter perché il biondino a Milano doveva essere l’erede di Mario Corso e invece a San Siro non ci credettero abbastanza lasciandolo partire. Ovvio, Paolino Rossi già detto, pungolo di un Menti che pareva un piccolo Highbury. Qualcuno chiamò quella squadra “Real” Vicenza, a me piace pensarlo più come una reazione al conformismo, un effrazione, un piede di porco contro i soliti noti, l’inflazione capovolta, la 127 in mezzo alle berline. “Entrate in campo e suonate” diceva negli spogliatoi ai suoi ragazzi il buon GB Fabbri. Quanto maledetto tempo è passato, anche la figurina appare ormai decisamente invecchiata. Peccato non abbiano vinto quello scudetto, o forse meglio così, chissà se certi ricordi avrebbero funzionato allo stesso modo se imbellettati da lustrini sul petto.

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