Epifania. Svincolandosi da un significato strettamente
religioso, il termine passa ad essere una generica rivelazione. Si tratta di un
significato reso celebre da Joyce nella sua raccolta di racconti "Dubliners": in
questi, capita che un’esperienza, una situazione o l’osservazione di un
particolare porti un personaggio a una profonda riconsiderazione di sé e della
sua vita - una realizzazione improvvisa che ci fa comprendere le ragioni di un
comportamento, una sorta di illuminazione, qualcosa che, come ci ricorda
l’etimo, ci appare dall’alto. A dire il vero per ridurre a un breve racconto
l’epopea della Mantova calcistica a me è bastato il messaggio di un amico, che
ha avuto la possibilità di vedere suo padre rivestito da quella maglia
straordinaria dal punto di vista iconografico e che in quattro anni ha deciso
di fare la rivoluzione in Italia dentro quell’arena leggermente veleggiante
d’ispirazione ciclistica ribattezzata in onore di Danilo Martelli, calciatore
con la passione del canto, più che altro ragazzo sfortunato deceduto nella
tragedia del Grande Torino a Superga. Ora lo "stencil", o maschera nomografica,
della foto del Piccolo Brasile è stato realizzato da Fili, giovane artista
mantovano, con il supporto della classe 4D del Liceo Artistico Giulio Romano di
Mantova. Questa opera di street art si colloca all’interno del progetto
“Decoriamo Valletta”, che venne coordinato da Arci Fuzzy e Arci Mantova per rilanciare
l’immagine del quartiere di Valletta Valsecchi. Il murales si trova proprio di
fianco allo stadio Danilo Martelli di Mantova, dietro la fermata degli autobus
di Viale Isonzo. Vi è raffigurata la formazione del Mantova del 1961/62, quella
dell’esordio in serie A dopo una scalata senza soluzione di continuità dalla
serie D: Mazzero, Sormani, Gerin, Corradi, Recagni, Longhi accosciati: Cancian,
Allemann, Giagnoni, Tarabbia, Negri. C’è un preludio a tutto questo,
un’intuizione. Due giovani, due appassionati, Ardiccio Modena e Guglielmo
Reggiani, la divisa nei capelli nascosta dal berretto e il vestiario dell’alba
del Novecento: giacca, gilet e pantaloni. Il primo ha lavorato in Inghilterra,
ha fatto il cameriere nei ristoranti di Londra e Liverpool ingemmati agli
infissi di pioggia, il secondo detto il “vecio” è uno che correva in bicicletta
per "rabbia o per amore" mutuando un verso della canzone di Francesco
De Gregori “Il bandito e il campione” e la mattina dava una mano nella bottega
di burro e formaggi di proprietà dei suoi genitori. Ardiccio aveva visto da
vicino il “football” in terra d’Albione sapeva bene cosa stesse già producendo
in termini di entusiasmo e divertimento, Guglielmo oltre al ciclismo amava
qualunque sport. Insieme, nel 1906 gettarono le fondamenta del divenire perché
in Piazza Virgiliana muoverà le mosse il “Mantua” Football Club, fra caseggiati
in stile francese e alberi d’alto fusto. Un sodalizio che in breve prenderà
strade differenti: Modena fonderà infatti la Vis et Virtus, mentre Reggiani il
gruppo del Calcio ma nel 1911 riecco la fusione in Associazione Mantovana del
Calcio con il campo da gioco locato presso l'Ippodromo del Te. Da lì sarà un
attimo a cambiare nome in Associazione Calcio Mantova. Bisogna saltare, Anno
Domini 1958. Il Mantova era soltanto una delle tante piccole realtà di
provincia, guidato da Edmondo “Topolino” Fabbri da Castel Bolognese, omino o
ometto con gli occhiali spessi da intellettuale tormentato, mansueto fuori dal
campo ma cattivissimo nell’accezione sportiva del rettangolo di gioco
(pretendeva che agli allenamenti i calciatori arrivassero in bicicletta e mai in
macchina: “a Mantova c’è la nebbia e in automobile si va in “camporella”). La
squadra vivrà senza troppi encomi fino all’avvento come sponsor della
raffineria petrolifera gestita da Edgardo Bazzini, la "Ozo Mantova",
i denari modificheranno i colori sociali, ma cambieranno le prospettive del
club, avviandolo a una scalata serrata e con pochi precedenti fino ad
arrampicarsi su tutte le maggiori categorie del calcio italiano, su, e ancora
su, fino alla vetta, giocando un calcio scintillante e propositivo. In campo
c'è Gustavo Giagnoni, futuro allenatore col colbacco di un Toro al solito maledetto e semi derubato di uno scudetto, bandiera e leader di un gruppo che
schierava tanti ottimi elementi partendo dal capitano Renzo Longhi detto
“Tabar” mantovano doc, Emanuele
Russo, forse il miglior talento mai espresso dal calcio virgiliano nel
dopoguerra, e poi Eugenio Fantini ed Ettore Recagni solo per citarne alcuni,
tutti con quelle facce un po' così, da "bosco e da riviera" di quegli
italiani usciti scornati dal dopoguerra. Quell’anno il Mantova si giocava la
serie C, puntando sin dal via al vertice e a fine stagione effettivamente sarà
serie B. E in quella stagione, verso la fine di ottobre quando i tigli di
Commessaggio cominciavano a ingiallire e i fiori del Loto sulle sponde del Mincio non sbocciano più, il Mantova travolse 8-2 il Legnano, un
risultato assolutamente sottolineato dai cronisti dell'epoca. Allora accadde
che la domenica seguente, in novembre, a Lucca, sulle pagine del giornalino del
“Porta Elisa” intitolato "Il rossonero" letto dagli sportivi lucchesi
assiepati sulle tribune nell'attesa alla partita, un giornalista locale ebbe
una intuizione rivelatosi storica: impressionato dal gioco del Mantova,
scriverà: “Arriva a Lucca il piccolo Brasile”, paragonando la squadra di Fabbri
al Brasile che aveva appena vinto la Coppa Rimet incantando il mondo intero e
l’azzardato, ingenuo, paragone, forse più da prima pagina della Tribuna
illustrata o della Domenica del Corriere, sorgerà spontaneo. Tuttavia, piacerà
parecchio anche agli stessi mantovani che se lo appiccicheranno addosso e non se lo toglieranno più. Ancora adesso quella squadra, e per estensione il Mantova
bistrattato di oggi, resta "il piccolo Brasile". Ma a Mantova hanno
anche un'altra ipotesi, un'altra versione, sul nomignolo. Si dice che un
falegname di Cesole (paesino nevralgico del tifo virgiliano), tale Pino
Ferrari, avesse già costruito un cartello con su scritto la stessa identica
cosa. Cambiò poco. Insieme a Edmondo Fabbri spiccherà nell'ufficio dei bottoni,
Italo Allodi poichè se il calcio è "dubbio costante e decisione
rapida", come enunciava Osvaldo Soriano, e quindi "arte
dell'imprevisto", secondo quanto suggeriva da par suo Eduardo Galeano, non a
caso Allodi ne è diventato un enorme protagonista. Geniale innovatore, capace
di vedere in anticipo e più lontano degli altri, brillante stratega dotato di un
talento e di uno stile che nel mondo calcistico hanno avuto pochi uguali,
Allodi è stato innanzitutto un uomo capace di farsi dal niente, un tipico
self-made man del "miracolo italiano" degli anni Sessanta. Nato e
cresciuto in provincia, figlio di un ferroviere e di una
casalinga, farà una ossuta carriera da mediano di rottura in serie C. La svolta
nella stagione 1956-1957 quando sarà chiamato da Fabbri (suo ex compagno di
squadra ai tempi dal Parma) al Mantova per diventarne allenatore in seconda e
in contemporanea segretario amministrativo. La coppia è di quelle decise a
lasciare il segno: infilano la vittoria in D e conseguentemente in C (girone
concluso con un drammatico spareggio giocato a Marassi in inferiorità numerica
e vinto per 2-1, rete decisiva di Eugenio Fantini, sul Siena allenato da Don
Oronzo Pugliese) arrivando in Serie B. A quel punto la rosa viene rinforzata
con l’arrivo tra i pali di William “Carburo” Negri, futuro portiere del Bologna campione d’Italia (carburo in quanto aveva lavorato in una pompa di benzina..). Senza scomodare Virgilio e la sua
Eneide, l'approdo si compie: arriverà la serie A con l’innesto di giocatori di
classe e di esperienza come Renzo Uzzecchini e dalle giovanili della Fiorentina
ecco invece due gaudenti promesse: quel galantuomo di Luigi “Gigi” Simoni e il
bel Sergio Pini che fece letteralmente innamorare tutte le donne sotto i
portici del centro. Il Mantova ad ogni modo farà notizia sulla stampa nazionale. Molti dei giocatori storici presenti dalla quarta serie
(Fantini, Micheli, Recagni, Bibolini, Turatti), furono richiesti da altre
società e faranno le valigie. Ma nonostante taluni addii cruenti da romanzo
d'appendice, nel 1960-61, con lo “Stivale” in pieno miracolo economico, fu
l’apoteosi per il cosiddetto OZO Mantova, per Edmondo Fabbri e per la sua
ciurma di ragazzi parzialmente rinnovata ma intatta nello spirito e nella
grinta. La sicurezza matematica della promozione in A si stampigliò su carta bollata in casa col
Brescia nello scenario di un "Martelli" imballato di gente
(2-0 doppietta di Uzzechini, biondino
punzecchiante scuola doriana ma avviato al gioco alla Pro Sestri del
partigiano "Scevola") alla terzultima gara, in mezzo ad un autentico
tripudio popolare con tutti i protagonisti portati in trionfo. Mantova dunque,
raggiunse la sognata serie A: la società, presieduta in quel momento da "Peppe" Nuvolari, provvederà all’ingaggio degli stranieri. Fabbri e Allodi scovarono
tra le riserve del Santos di Pelè in tournèe europea, Angelo Benedicto Sormani:
lui sì farà del Mantova per davvero il “piccolo Brasile” diventando l’uomo del
“mezzo miliardo” pagato dalla Roma; dalla Svizzera Tony Alleman, quindi un
altro brasiliano, un certo Nelsinho, primo bidone della storia del club. Il
debutto avvenne nel settembre 1961, nemmeno a farlo apposta al Comunale di
Torino, sul campo della Juventus che schierava Omar Sivori, John Charles e
Giampiero Boniperti. Fu proprio il gallese Charles a realizzare per la Juve ma
poco prima del termine Alleman firmerà l’1-1. Un debutto coi fiocchi in fin dei
conti. Torneo difficile nel quale però il Mantova si esalterà ottemendo
successi di rilievo come il 4-2 di Genova coi rossoblù e mantiene un cammino
regolare: solo il Venezia arriva davanti ai biancorossi, forte di una
contestata vittoria (3-2) casalinga. Alla sua prima esperienza nel calcio che
conta, il Mantova chiuderà al nono posto con 32 punti. Qualcosa però era andato
deteriorandosi: il rapporto con Fabbri si stava incrinando e le dispute tra il
tecnico ed il presidente Nuvolari spaccarono in due la città. Al ristorante Da
Gastone, rettore magnifico dell’Università del calcio, ci sono i “fabbriani” ad
oltranza; al Bar Sociale, capitanati dall’Avv.
Antonio Fario, gli anti- Fabbri La Gazzetta di Mantova, che con l’allora
direttore Amadei non è tenera nei confronti del tecnico, verrà bruciata in
piazza e da un ultraleggero affittato per l’occasione pioveranno volantini che
invitavano appunto Nuvolari e la sua cricca a lasciare la società. Dopo sette
anni, comunque Fabbri lascerà Mantova: un carattere mai facile il suo, ma
decisamente un grandissimo allenatore. Al suo posto arrivò Nandor Hidegkuti,
mister educato alla scuola danubiana, ex della grande Ungheria; non c’è più
Nelsinho, al suo posto il rubicondo e pacioccone tedesco Geiger, grande esperto
di birra. Il Mantova riesce a salvarsi grazie a Giagnoni e altri anziani della
squadra che prendono in mano le redini della situazione. Via Hidegkuti, nel
1963-64 ecco Cina Bonizzoni, personaggio singolare, brav’uomo che si trova a
gestire una squadra che non ha più Sormani ceduto alla Roma per l’allora
astronomica cifra di mezzo miliardo, e Negri passato al Bologna col quale
conquisterà lo scudetto tricolore dopo spareggio con l’Inter. In compenso
arrivano Karl Heinz Schnellinger, lo svedese Jonsson e un certo Dino Zoff,
serioso portiere friulano di belle speranze. In più c’è Nicolè, bomber
prodigioso poi scaduto per problemi di dieta (singolare la cura dimagrante
effettuata sotto il controllo del massaggiatore Brindani: dopo un mese era
diminuito di 3 kg. “Schilingi”, quasi da solo, mantenne la squadra in A. L’anno
successivo sulla panchina c’è l’argentino Oscar Montez, tipo quantomeno
singolare (eufemismo), sostituito nell’ordine da Gianni Bonanno e infine da
Mari. Dai Montez ai Mari, si potrebbe dire, ma il Mantova retrocederà
ugualmente in serie B, e il “piccolo Brasile” terminò la sua "piccola
parabola". D'altronde, direbbe Saramago, è così che muoiono le infanzie,
quando i ritorni non sono più possibili perché i ponti tagliati inclinano verso
l’instancabile acqua le travi sconnesse nello spazio estraneo. Non c’è allora
altro rimedio che quello del serpente: abbandonare la pelle nella quale non
entriamo più, lasciarla a terra, tra i cespugli, e passare all’età successiva.