venerdì 2 febbraio 2024

WE ARE MORTON


Nessun altro impianto calcistico può curare il vostro stato di depressione meglio del Cappielow Park di Greenock. Semplicemente perché il Cappielow resta scenograficamente e materialmente uno degli stadi più disgraziati e malmessi da riuscire a farvi pensare “ecchecazzo” questo posto è messo peggio di me e chi lo frequenta potrebbe assumere una quantità di benzodiazepine ed altre cosette che al confronto le ricette dello psichiatra sono aforismi da "baci" Perugina. Se non ci siete mai stati (e in fondo non è un gran peccato salvo abbiate rapsodie da ferraglia arrugginita, tetti salmastri, strade buie e cemento sbreccato) magari vi sarà capitato di vedere "Sweet Sixteen" iconica pellicola di Ken Loach uscita nel 2002 dove Liam, foruncoloso teenager di una Greenock deturpata e degradata dalla droga e messa in ginocchio dalle scelte economiche neo-liberiste della politica thatcheriana, conduce una vita di ripieghi estemporanei con una madre, Jean, tossicodipendente e in galera per colpa del compagno e una sorella, Chantelle, ragazza madre di diciassette anni, che vive con il figlioletto Calum dopo aver lasciato la famiglia perseguendo l'illusione di una vita normale nella precarietà del solito call-center. Greenock in buona parte era ed è rimasta questa, all’ombra della gigantesca “Crane” dei cantieri navali della Dockyard Company, anche loro in crisi nera e sempre in odore di sussidio. Probabilmente il bronzeo James Watt, che sbuca all’angolo fra Darlymple e William Street, aveva capito l’antifona da un pezzo. Eppure il Greenock Morton Football Club è la migliore valvola di sfogo per i problemi, il vostro Xanax a buon prezzo, la vostra squadra ideale se vi piace l’idea di un calcio lontano da qualsiasi velleità di successo, di progresso, una squadra dalla quale non devi aspettarti niente di particolare, un po’ come quando si va al ristorante e si ordina il vino della casa chiudendo il menù e restituendolo al cameriere; vorrei dirvi quello del "Norseman", pub di culto per chi viene qui a specchiare i suoi umori pessimisti sulle acque del Firth of Clyde battute da vento e pioggia, ma il cameriere io non l'ho trovato, ad ogni modo vi daranno sicuramente asilo seduti davanti una parete stillante whisky per instaurare un viscerale e intenso rapporto con un bicchiere di Glenlivet: “Slanj”, salute, in gaelico. Liam parliamo di calcio? La notizia della fondazione di una società di pedatori apparve in un trafiletto del Greenock Telegraph nel marzo del 1874. Vi si poteva apprendere che la squadra aveva preso il nome dal “Morton Terrace”, un casamento annerito nei pressi del campo da gioco dove abitavano James Farell, Robert Aitken e John Barrie, tre fra i primi calciatori importanti del club. Sulla carta costitutiva, superata la didascalia sui colori da indossare, si legge una nota piuttosto curiosa: tutti i soci, dal magazziniere al centravanti, avrebbero dovuto condurre vita morigerata astenendosi dal bere alcolici. Ahia, niente da fare, carta cestinata per manifesta insofferenza alla regola. Sul lato ovest del Cappielow, locato a circa 200 metri dalla stazione ferroviaria del quartiere di Cartsdyke, corre il "The End Wee Dublin" una stand costruita laddove sul tramontare dell'800 era presente una folta comunità di immigrati irlandesi venuti a lavorare fra banchine assediate dalla salsedine e urla rauche di gabbiani. L’associazione del suffisso con Greenock invece è affare recente, datato 1994, quando si decise di abbinare “Morton” alla toponomastica locale anche se quattro anni dopo si cercò in maniera un po’ imbarazzante di tornare al vecchio appellativo. Il Morton toccherà l’apice della sua storia nel 1922 con la vittoria in Coppa di Scozia, unica affermazione degna di essere cerchiata sull'agenda. A regalare il successo all'undici allenato da Bob Cochrane ci pensò Jimmy Goulay bravo a mettere a referto la rete dell’1-0 contro i Rangers. Dalle parti del Cappielow Park sono passati, fra vivaio e prima squadra, Joe Harper, Joe Jordan, Mark McGhee, Joe McGlauchlan, Davie Hayes, Neil Orr e un certo Andy Richie il cui nome evoca serate indimenticabili tra i privilegiati che hanno avuto la fortuna di vederlo giocare. Ritchie nato il 23 febbraio 1956 a Bellshill nel Lanarkshire era un tipetto ricciuto, disincantato e con un perenne sorriso stampato in faccia. In sette anni a Greenock segnò 118 goal guadagnandosi la venerazione dei tifosi e un soprannome bizzarro: “The Idle Idol” (l’idolo svogliato) dopo che il giornalista del Daily Mail, Chick Young, lo definì il perfetto esempio di calciatore scozzese: grasso, pigro, bastardo ma di grande abilità. Gli anni più complicati saranno quelli di fine secolo quando il “Ton” a causa di problemi finanziari finii in amministrazione controllata svendendo la maggior parte dei suoi migliori elementi. E costantemente la clessidra inclemente del tempo si svuotava senza veder spuntare nessun acquirente. Poi nel 1997 una cordata capeggiata dal professor James Pickett sembrò essere la risposta tanto attesa. Sfortunatamente il gruppo si sciolse lasciando il compito di salvare capra e cavoli a Douglas Rae proprio mentre stava per scendere l’ultimo granello di polvere utile, e forse salvò dal suicidio qualche ragazzotto in procinto di overdose sul sottofondo punk degli "Exploited".






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