lunedì 26 febbraio 2024

IL PICCOLO BRASILE

 









Epifania. Svincolandosi da un significato strettamente religioso, il termine passa ad essere una generica rivelazione. Si tratta di un significato reso celebre da Joyce nella sua raccolta di racconti "Dubliners": in questi, capita che un’esperienza, una situazione o l’osservazione di un particolare porti un personaggio a una profonda riconsiderazione di sé e della sua vita - una realizzazione improvvisa che ci fa comprendere le ragioni di un comportamento, una sorta di illuminazione, qualcosa che, come ci ricorda l’etimo, ci appare dall’alto. A dire il vero per ridurre a un breve racconto l’epopea della Mantova calcistica a me è bastato il messaggio di un amico, che ha avuto la possibilità di vedere suo padre rivestito da quella maglia straordinaria dal punto di vista iconografico e che in quattro anni ha deciso di fare la rivoluzione in Italia dentro quell’arena leggermente veleggiante d’ispirazione ciclistica ribattezzata in onore di Danilo Martelli, calciatore con la passione del canto, più che altro ragazzo sfortunato deceduto nella tragedia del Grande Torino a Superga. Ora lo "stencil", o maschera nomografica, della foto del Piccolo Brasile è stato realizzato da Fili, giovane artista mantovano, con il supporto della classe 4D del Liceo Artistico Giulio Romano di Mantova. Questa opera di street art si colloca all’interno del progetto “Decoriamo Valletta”, che venne coordinato da Arci Fuzzy e Arci Mantova per rilanciare l’immagine del quartiere di Valletta Valsecchi. Il murales si trova proprio di fianco allo stadio Danilo Martelli di Mantova, dietro la fermata degli autobus di Viale Isonzo. Vi è raffigurata la formazione del Mantova del 1961/62, quella dell’esordio in serie A dopo una scalata senza soluzione di continuità dalla serie D: Mazzero, Sormani, Gerin, Corradi, Recagni, Longhi accosciati: Cancian, Allemann, Giagnoni, Tarabbia, Negri. C’è un preludio a tutto questo, un’intuizione. Due giovani, due appassionati, Ardiccio Modena e Guglielmo Reggiani, la divisa nei capelli nascosta dal berretto e il vestiario dell’alba del Novecento: giacca, gilet e pantaloni. Il primo ha lavorato in Inghilterra, ha fatto il cameriere nei ristoranti di Londra e Liverpool ingemmati agli infissi di pioggia, il secondo detto il “vecio” è uno che correva in bicicletta per "rabbia o per amore" mutuando un verso della canzone di Francesco De Gregori “Il bandito e il campione” e la mattina dava una mano nella bottega di burro e formaggi di proprietà dei suoi genitori. Ardiccio aveva visto da vicino il “football” in terra d’Albione sapeva bene cosa stesse già producendo in termini di entusiasmo e divertimento, Guglielmo oltre al ciclismo amava qualunque sport. Insieme, nel 1906 gettarono le fondamenta del divenire perché in Piazza Virgiliana muoverà le mosse il “Mantua” Football Club, fra caseggiati in stile francese e alberi d’alto fusto. Un sodalizio che in breve prenderà strade differenti: Modena fonderà infatti la Vis et Virtus, mentre Reggiani il gruppo del Calcio ma nel 1911 riecco la fusione in Associazione Mantovana del Calcio con il campo da gioco locato presso l'Ippodromo del Te. Da lì sarà un attimo a cambiare nome in Associazione Calcio Mantova. Bisogna saltare, Anno Domini 1958. Il Mantova era soltanto una delle tante piccole realtà di provincia, guidato da Edmondo “Topolino” Fabbri da Castel Bolognese, omino o ometto con gli occhiali spessi da intellettuale tormentato, mansueto fuori dal campo ma cattivissimo nell’accezione sportiva del rettangolo di gioco (pretendeva che agli allenamenti i calciatori arrivassero in bicicletta e mai in macchina: “a Mantova c’è la nebbia e in automobile si va in “camporella”). La squadra vivrà senza troppi encomi fino all’avvento come sponsor della raffineria petrolifera gestita da Edgardo Bazzini, la "Ozo Mantova", i denari modificheranno i colori sociali, ma cambieranno le prospettive del club, avviandolo a una scalata serrata e con pochi precedenti fino ad arrampicarsi su tutte le maggiori categorie del calcio italiano, su, e ancora su, fino alla vetta, giocando un calcio scintillante e propositivo. In campo c'è Gustavo Giagnoni, futuro allenatore col colbacco di un Toro al solito maledetto e semi derubato di uno scudetto, bandiera e leader di un gruppo che schierava tanti ottimi elementi partendo dal capitano Renzo Longhi detto “Tabar” mantovano doc, Emanuele Russo, forse il miglior talento mai espresso dal calcio virgiliano nel dopoguerra, e poi Eugenio Fantini ed Ettore Recagni solo per citarne alcuni, tutti con quelle facce un po' così, da "bosco e da riviera" di quegli italiani usciti scornati dal dopoguerra. Quell’anno il Mantova si giocava la serie C, puntando sin dal via al vertice e a fine stagione effettivamente sarà serie B. E in quella stagione, verso la fine di ottobre quando i tigli di Commessaggio cominciavano a ingiallire e i fiori del Loto sulle sponde del Mincio non sbocciano più, il Mantova travolse 8-2 il Legnano, un risultato assolutamente sottolineato dai cronisti dell'epoca. Allora accadde che la domenica seguente, in novembre, a Lucca, sulle pagine del giornalino del “Porta Elisa” intitolato "Il rossonero" letto dagli sportivi lucchesi assiepati sulle tribune nell'attesa alla partita, un giornalista locale ebbe una intuizione rivelatosi storica: impressionato dal gioco del Mantova, scriverà: “Arriva a Lucca il piccolo Brasile”, paragonando la squadra di Fabbri al Brasile che aveva appena vinto la Coppa Rimet incantando il mondo intero e l’azzardato, ingenuo, paragone, forse più da prima pagina della Tribuna illustrata o della Domenica del Corriere, sorgerà spontaneo. Tuttavia, piacerà parecchio anche agli stessi mantovani che se lo appiccicheranno addosso e non se lo toglieranno più. Ancora adesso quella squadra, e per estensione il Mantova bistrattato di oggi, resta "il piccolo Brasile". Ma a Mantova hanno anche un'altra ipotesi, un'altra versione, sul nomignolo. Si dice che un falegname di Cesole (paesino nevralgico del tifo virgiliano), tale Pino Ferrari, avesse già costruito un cartello con su scritto la stessa identica cosa. Cambiò poco. Insieme a Edmondo Fabbri spiccherà nell'ufficio dei bottoni, Italo Allodi poichè se il calcio è "dubbio costante e decisione rapida", come enunciava Osvaldo Soriano, e quindi "arte dell'imprevisto", secondo quanto suggeriva da par suo Eduardo Galeano, non a caso Allodi ne è diventato un enorme protagonista. Geniale innovatore, capace di vedere in anticipo e più lontano degli altri, brillante stratega dotato di un talento e di uno stile che nel mondo calcistico hanno avuto pochi uguali, Allodi è stato innanzitutto un uomo capace di farsi dal niente, un tipico self-made man del "miracolo italiano" degli anni Sessanta. Nato e cresciuto in provincia, figlio di un ferroviere e di una casalinga, farà una ossuta carriera da mediano di rottura in serie C. La svolta nella stagione 1956-1957 quando sarà chiamato da Fabbri (suo ex compagno di squadra ai tempi dal Parma) al Mantova per diventarne allenatore in seconda e in contemporanea segretario amministrativo. La coppia è di quelle decise a lasciare il segno: infilano la vittoria in D e conseguentemente in C (girone concluso con un drammatico spareggio giocato a Marassi in inferiorità numerica e vinto per 2-1, rete decisiva di Eugenio Fantini, sul Siena allenato da Don Oronzo Pugliese) arrivando in Serie B. A quel punto la rosa viene rinforzata con l’arrivo tra i pali di William “Carburo” Negri, futuro portiere del Bologna campione d’Italia (carburo in quanto aveva lavorato in una pompa di benzina..). Senza scomodare Virgilio e la sua Eneide, l'approdo si compie: arriverà la serie A con l’innesto di giocatori di classe e di esperienza come Renzo Uzzecchini e dalle giovanili della Fiorentina ecco invece due gaudenti promesse: quel galantuomo di Luigi “Gigi” Simoni e il bel Sergio Pini che fece letteralmente innamorare tutte le donne sotto i portici del centro. Il Mantova ad ogni modo farà notizia sulla stampa nazionale. Molti dei giocatori storici presenti dalla quarta serie (Fantini, Micheli, Recagni, Bibolini, Turatti), furono richiesti da altre società e faranno le valigie. Ma nonostante taluni addii cruenti da romanzo d'appendice, nel 1960-61, con lo “Stivale” in pieno miracolo economico, fu l’apoteosi per il cosiddetto OZO Mantova, per Edmondo Fabbri e per la sua ciurma di ragazzi parzialmente rinnovata ma intatta nello spirito e nella grinta. La sicurezza matematica della promozione in A si stampigliò su carta bollata in casa col Brescia nello scenario di un "Martelli" imballato di gente (2-0 doppietta di Uzzechini, biondino  punzecchiante scuola doriana ma avviato al gioco alla Pro Sestri del partigiano "Scevola") alla terzultima gara, in mezzo ad un autentico tripudio popolare con tutti i protagonisti portati in trionfo. Mantova dunque, raggiunse la sognata serie A: la società, presieduta in quel momento da "Peppe" Nuvolari, provvederà all’ingaggio degli stranieri. Fabbri e Allodi scovarono tra le riserve del Santos di Pelè in tournèe europea, Angelo Benedicto Sormani: lui sì farà del Mantova per davvero il “piccolo Brasile” diventando l’uomo del “mezzo miliardo” pagato dalla Roma; dalla Svizzera Tony Alleman, quindi un altro brasiliano, un certo Nelsinho, primo bidone della storia del club. Il debutto avvenne nel settembre 1961, nemmeno a farlo apposta al Comunale di Torino, sul campo della Juventus che schierava Omar Sivori, John Charles e Giampiero Boniperti. Fu proprio il gallese Charles a realizzare per la Juve ma poco prima del termine Alleman firmerà l’1-1. Un debutto coi fiocchi in fin dei conti. Torneo difficile nel quale però il Mantova si esalterà ottemendo successi di rilievo come il 4-2 di Genova coi rossoblù e mantiene un cammino regolare: solo il Venezia arriva davanti ai biancorossi, forte di una contestata vittoria (3-2) casalinga. Alla sua prima esperienza nel calcio che conta, il Mantova chiuderà al nono posto con 32 punti. Qualcosa però era andato deteriorandosi: il rapporto con Fabbri si stava incrinando e le dispute tra il tecnico ed il presidente Nuvolari spaccarono in due la città. Al ristorante Da Gastone, rettore magnifico dell’Università del calcio, ci sono i “fabbriani” ad oltranza; al Bar Sociale, capitanati dall’Avv.  Antonio Fario, gli anti- Fabbri La Gazzetta di Mantova, che con l’allora direttore Amadei non è tenera nei confronti del tecnico, verrà bruciata in piazza e da un ultraleggero affittato per l’occasione pioveranno volantini che invitavano appunto Nuvolari e la sua cricca a lasciare la società. Dopo sette anni, comunque Fabbri lascerà Mantova: un carattere mai facile il suo, ma decisamente un grandissimo allenatore. Al suo posto arrivò Nandor Hidegkuti, mister educato alla scuola danubiana, ex della grande Ungheria; non c’è più Nelsinho, al suo posto il rubicondo e pacioccone tedesco Geiger, grande esperto di birra. Il Mantova riesce a salvarsi grazie a Giagnoni e altri anziani della squadra che prendono in mano le redini della situazione. Via Hidegkuti, nel 1963-64 ecco Cina Bonizzoni, personaggio singolare, brav’uomo che si trova a gestire una squadra che non ha più Sormani ceduto alla Roma per l’allora astronomica cifra di mezzo miliardo, e Negri passato al Bologna col quale conquisterà lo scudetto tricolore dopo spareggio con l’Inter. In compenso arrivano Karl Heinz Schnellinger, lo svedese Jonsson e un certo Dino Zoff, serioso portiere friulano di belle speranze. In più c’è Nicolè, bomber prodigioso poi scaduto per problemi di dieta (singolare la cura dimagrante effettuata sotto il controllo del massaggiatore Brindani: dopo un mese era diminuito di 3 kg. “Schilingi”, quasi da solo, mantenne la squadra in A. L’anno successivo sulla panchina c’è l’argentino Oscar Montez, tipo quantomeno singolare (eufemismo), sostituito nell’ordine da Gianni Bonanno e infine da Mari. Dai Montez ai Mari, si potrebbe dire, ma il Mantova retrocederà ugualmente in serie B, e il “piccolo Brasile” terminò la sua "piccola parabola". D'altronde, direbbe Saramago, è così che muoiono le infanzie, quando i ritorni non sono più possibili perché i ponti tagliati inclinano verso l’instancabile acqua le travi sconnesse nello spazio estraneo. Non c’è allora altro rimedio che quello del serpente: abbandonare la pelle nella quale non entriamo più, lasciarla a terra, tra i cespugli, e passare all’età successiva.

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