Non
fare domande, e non ti verranno dette bugie. Sanya è una donna
violentemente bella dagli occhi scuri e un dolore piantato come un
pugnale nell’anima. Vent’anni fa era la fidanzata di Haris Brkić,
canotta numero 5 del Partizan Belgrado. Il vento, che qui chiamano
Košava, porta una domanda orbata di risposta.* “Esco, torno a casa, ho
un piccolo risentimento, domani mi faccio fare un massaggio dal
fisioterapista, ciao Darko”. Sono le ultime parole uscite dalla
bocca del giocatore. E’ il 13 dicembre del 2000 nella città bianca. San
Sava batte le dieci di sera, allo Stenka, il ristorante lungo il fiume, si cuociono zampette di maiale in salsa di rafano, Kalmegdan* dorme, l’Hotel Moskva
sembra dimenarsi con il suo tetto d’ardesia stretto fra i severi
palazzoni di lanugine socialista. Haris ha parcheggiato l’auto in una
via laterale del vecchio Pionir, il tempio indiscusso della
pallacanestro Yugoslava, qualche crepa, molti graffiti, un officina
meccanica, un ostello per studenti, un parco di platani spogliati dal
gelo, qualche lampione ad emettere opacità giallastre nel silenzio
acuito dal freddo. Haris Brkić era nato a Sarajevo, madre serba e padre
bosniaco, due metri di assoluta eleganza, un terzo tempo che è una sorta
di dribbling dal finale scontato. Inizia a giocare per il Bosna, poi,
mentre tutto comincia a crollare sotto le percosse della guerra, decide
di firmare per il Partizan e al primo arresto e tiro è già un idolo dei
tifosi grobari, i becchini. Nel 1998, a 22 anni, fa impazzire tutti
nelle Final Four di Eurolega disputate a Barcellona ma deve arrendersi
alla Virtus Bologna del suo compagno di nazionale Saša Danilović. Haris
Brkić avrebbe voluto infilare Bulevar Despota Stepana e da lì giungere fino all’appartamento in Piazza Slavija.
Dall’interno del Palasport si sentono nitidamente delle esplosioni.
Ragazzate? Petardi? Nessuno si immagina due colpi di pistola. Uno lo
colpisce sotto lo zigomo, uno in pieno nell’occhio destro. Haris Brkić
cade a terra privo di vita. Lo troveranno accartocciato ai piedi dell'
automobile, lo sportello semiaperto, il borsone ancora stretto in mano.
Nessuno sa, anzi, nessuno ha mai saputo niente, le indagini si sono
arenate, nessuna traccia, nessun attrito, nessun sospetto, niente di
niente, una morte così, per gioco, per folle inerzia, il vuoto nei
caratteri cirillici di inutili faldoni d’archivio. Sua mamma Radmila
continua a non darsi pace, suo padre Ismail non ha retto alla perdita e
qualche anno dopo il cuore ha ceduto. Sanya ha provato a rifarsi una
vita, non cerca vendette, solo ogni giorno continua a chiedersi
"perché", gli basterebbe quello, capire perché quel 13 dicembre del 2000
nel parcheggio deserto del Pionir una mano ignota ha ucciso il suo
Haris.
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