mercoledì 30 settembre 2020

HARIS BRIKIC

                        


Non fare domande, e non ti verranno dette bugie. Sanya è una donna violentemente bella dagli occhi scuri e un dolore piantato come un pugnale nell’anima. Vent’anni fa era la fidanzata di Haris Brkić, canotta numero 5 del Partizan Belgrado. Il vento, che qui chiamano Košava, porta una domanda orbata di risposta.* “Esco, torno a casa, ho un piccolo risentimento, domani mi faccio fare un massaggio dal fisioterapista, ciao Darko”. Sono le ultime parole uscite dalla bocca del giocatore. E’ il 13 dicembre del 2000 nella città bianca. San Sava batte le dieci di sera, allo Stenka, il ristorante lungo il fiume, si cuociono zampette di maiale in salsa di rafano, Kalmegdan* dorme, l’Hotel Moskva sembra dimenarsi con il suo tetto d’ardesia stretto fra i severi palazzoni di lanugine socialista. Haris ha parcheggiato l’auto in una via laterale del vecchio Pionir, il tempio indiscusso della pallacanestro Yugoslava, qualche crepa, molti graffiti, un officina meccanica, un ostello per studenti, un parco di platani spogliati dal gelo, qualche lampione ad emettere opacità giallastre nel silenzio acuito dal freddo. Haris Brkić era nato a Sarajevo, madre serba e padre bosniaco, due metri di assoluta eleganza, un terzo tempo che è una sorta di dribbling dal finale scontato. Inizia a giocare per il Bosna, poi, mentre tutto comincia a crollare sotto le percosse della guerra, decide di firmare per il Partizan e al primo arresto e tiro è già un idolo dei tifosi grobari, i becchini. Nel 1998, a 22 anni, fa impazzire tutti nelle Final Four di Eurolega disputate a Barcellona ma deve arrendersi alla Virtus Bologna del suo compagno di nazionale Saša Danilović. Haris Brkić avrebbe voluto infilare Bulevar Despota Stepana e da lì giungere fino all’appartamento in Piazza Slavija. Dall’interno del Palasport si sentono nitidamente delle esplosioni. Ragazzate? Petardi? Nessuno si immagina due colpi di pistola. Uno lo colpisce sotto lo zigomo, uno in pieno nell’occhio destro. Haris Brkić cade a terra privo di vita. Lo troveranno accartocciato ai piedi dell' automobile, lo sportello semiaperto, il borsone ancora stretto in mano. Nessuno sa, anzi, nessuno ha mai saputo niente, le indagini si sono arenate, nessuna traccia, nessun attrito, nessun sospetto, niente di niente, una morte così, per gioco, per folle inerzia, il vuoto nei caratteri cirillici di inutili faldoni d’archivio. Sua mamma Radmila continua a non darsi pace, suo padre Ismail non ha retto alla perdita e qualche anno dopo il cuore ha ceduto. Sanya ha provato a rifarsi una vita, non cerca vendette, solo ogni giorno continua a chiedersi "perché", gli basterebbe quello, capire perché quel 13 dicembre del 2000 nel parcheggio deserto del Pionir una mano ignota ha ucciso il suo Haris.

 

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