giovedì 1 ottobre 2020

DUCKADAM HA PARATO!



 

Semlac distretto di Arad, Transilvania. Se è la storia, e non la sostanza, ad attribuire realtà, si può essere scolpiti nella pietra e non esistere, persi chissà dove fra monti e boschi senza fine apparente, è allora, in quel caso, solo la fantasia viene a giustificarsi nella luce viva di un sogno. Questa storia confusa, eppure più vera di un miliardo di mondi abitati, comincia da lì.

Ci torneremo a Semlac, (si, guarda la combinazione, proprio il luogo che ha dato i natali a Béla Lugosi, l’attore divenuto celebre negli anni ’30 per aver interpretato Dracula nell’omonimo film di Tod Browning) ma prima dobbiamo andare a Bucarest. Siamo in primavera inoltrata, Vasile mi aspetta nella zona arrivi dell’aeroporto Henri Coandă. E’ un uomo ormai di quasi settant’anni; l’ho conosciuto in Italia, faceva il muratore presso un’impresa edile, i capelli corvini sono un ricordo ma mantiene ancora braccia robuste seminascoste da una bizzarra camicia a quadri con le maniche tirate su. Appena mi scorge abbozza un sorriso e la faccia brunita mostra altre rughe rispetto a quando ci salutammo cinque anni addietro alla stazione degli autobus di Firenze. Piangeva, Vasile, mentre una pioggia obliqua picchiettava sulle pensiline cineree di Santa Maria Novella. Gli promisi che un giorno sarei andato a trovarlo. L’ho fatto. Vasile ottenuto una stabilità economica è rientrato nel suo paese da dove era emigrato nel 1990, non si è mai voluto sposare, solo qualche compagnia ogni tanto, in genere badanti, connazionali, apparentemente sonnacchiose e grassocce, tuttavia a sentir lui nascondevano a meraviglia la sacra vampa del sesso. Parla un discreto italiano, sogghigna, quando gli rammento che inizialmente per capirsi usavo una sorta di bignami latino che si accordava straordinariamente bene alla sua radice linguistica alla stregua di due ballerini novizi nondimeno già armonizzati da un passato perso e ritrovato sulla linea non conforme del tempo. Saliamo in macchina, una Fiat Punto, com’e piccolo il mondo. Piccolo ma diverso. Bucarest è una città sospinta da un fascino particolare, stretta da un patto fra degrado e poesia. Ci sono piazze immense, un plastico di vetro macchiato dal sole che si rende prisma, specchiandosi (o viceversa), su tetti a forma di enormi uova, le torrette sinuose della Cattedrale, il palazzo dei telefoni, e l’indiscusso riferimento orientativo della città, il vecchio palazzone del Tehnoimport, uno dei tanti refoli d’eredità socialista, avvolto da un malinconico color fumé.


A Semlac negli anni ottanta i preti ortodossi battevano utensili di metallo su tavolette di legno perché i turchi, quando occupavano un villaggio, proibivano il suono delle campane e allora occorse inventarsi un palliativo che poi si è solidificato nella tradizione. Helmut Duckadam è un ragazzone alto e robusto, forse un po’ pigro, tuttavia dotato di un istinto divinatorio in grado di predire lune e traiettorie, uno strano lupo con una breve cascata di ricci e due occhi chiari che ti scrutano per un momento fino ad allontanarsi indefinitamente. I baffi gli piacciono, se li lascerà crescere. In attesa di recarsi agli allenamenti, si siede in cerchio con gli altri della sua età ad ascoltare i racconti degli anziani. Sono racconti di sangue e morte, di stupri e violenze. Disegnano uomini crocifissi con una corona di spine sulla testa, appesi uno dopo l’altro su una sequenza infinita di pali. Smunti e zazzeruti, un panno umido intorno ai fianchi e gli occhi appannati di lacrime, i fuochi pulsano sulle alture, preghiere strozzate in casupole di calce, ombre dovunque, teorie di processioni funebri, clangore di spade e scimitarre. Solo il rumore dell’autobus sul selciato fa svanire la cruda visione sui volti pallidi dei ragazzi intontiti dal defluire delle parole. Helmut gioca per l’UT Arad la squadra più importante della regione. Si parla bene di lui in Divizia A, - “ ha occhi furbi e intelligenti”, -scrive il drammaturgo Eugène Ionesco. “E occhi grandi, tanto quanto le sue mani”. La Steaua lo vuole e se nel 1982 ti vuole la Steaua non puoi dire di no nemmeno se lo volessi. La Steaua (la stella) è la squadra dell'esercito. L'anello di congiunzione fra il potere politico e la squadra è Valentin Ceausescu, il figlio adottivo di Niculae, grande appassionato di calcio, che pur non figurando nell'organigramma ufficiale del club ne era diventato di fatto l’eminenza grigia. Da dietro le quinte Valentin, descritto come " uomo quieto e riservato” imperava in lungo e in largo, fin troppo...


Vasile abita con la famiglia del fratello Andrei, l’alloggio è in alto, al settimo piano di un palazzone dell’immediata periferia, dall’esterno non sembra ma internamente rende una serenità inaspettata, l’appartamento è confortevole. Andrei e la moglie Doina hanno due figli, Ion e Alis un maschio e una femmina, rispettivamente quindici e dodici anni, adesso sono a scuola eppure mi pare di aver capito che dormirò in stanza con loro, "c'e un letto in più per ogni evenienza"- mi spiega Vasile, " nessuno si vergogna di niente, puoi girare pure in mutande, non ci si scandalizza, qui abbiamo pochi problemi di ipocrita pudicità". Si avverte un intenso odore culinario, un miscuglio di cipolla, aglio e peperoni fritti, il tutto amalgamato in panna acida. Si inietta nei sensi, sbircio dalla finestra, la giornata continua ad essere soleggiata, il fremito di Lipscani è solo a qualche isolato di distanza.


Quando Helmut Duckadam arriva alla Steaua ad accoglierlo c’è l’allenatore Emerich Jenei. Jenei è nativo della stessa regione di Helmut, solo di etnia ungherese, da bambino dovette trasferirsi con la famiglia a Losonc in Slovacchia perché suo padre non voleva prestare servizio nell'esercito rumeno. Jenei ha il volto pulito di un pastore all’alba ma ha le sue idee, è un duro, vuole sniffarlo il cuoio del pallone, pretende un gioco moderno e agonistico, nonostante sia ovvio che in Europa occorreva adattarsi all’avversario, spacciarsi per attendista, fare ostruzionismo imperniato sul contropiede. Nel complesso la squadra è efficace e vincente. Il tutto, nel catino da tinello proletario del Ghencea, stadio di calcio e luogo di culto laico, un simbolo politico e militare, una roccaforte-caserma, il Templul fotbalului Românesc (letteralmente, “Tempio del calcio romeno”) dove a officiare, indossando la maglia “ stellata”, sono il libero e capitano Ștefan Iovan, il ghignante Adrian Bumbescu, l’impavido uomo ovunque Miodrag Belodedici, il saggio Adrian Bărbulescu, l’artista Lazslo Boloni, la volpe Gavril Balint, ed i due attaccanti da danza di “ Ciuleandra”, Victor Piturca e Marius Lacatus. Duckadam si imporrà alla svelta grazie a quel fisico slanciato, e finalmente sbucano i baffoni da accorto bucaniere. In quella Steaua si era stabilito un legame di fratellanza, non se ne parlava, non si osava ammetterlo ma quell’affinità regnava nello spogliatoio e ognuno ne avvertiva il calore. Addirittura, successivamente, fu stabilito un record significativo durato dal 1987 al 1989: 104 partite senza subire una sconfitta.


Vasile, non nascondeva mai un brivido di commozione sottopelle quando mi parlava della Steaua, ne era tifoso; nell’unica valigia che si portò dietro in quel viaggio della speranza verso ovest insieme a due paia di pantaloni, un pullover a strisce variopinte, delle magliette di lana pesante, e qualche paia di mutande e calzini, giù, in fondo, dentro una tasca interna, c’era un piccolo gagliardetto della squadra. Lo appese come una reliquia all’ingresso dell’appartamento preso in affitto appena riuscì a farsi assumere dalla prima ditta utile. Mi diceva della difficoltà di andare a vedere le partite al “Ghencea” perché lo stadio era modesto di capienza e in genere posti erano riservati ai componenti dell’esercito, ufficiali e soldati, il che rendeva gli spalti un coacervo di uniformi brune e di poderosi colbacchi. Quando la Steaua cessò di esistere in attesa della reincarnazione, il quartiere in cui sorgeva l’impianto assunse la fisionomia di un paesaggio post-atomico, un accumulo di macerie, un museo a cielo aperto in attesa di bonifica dove in uno sforzo d’orgoglio lo stemma della polisportiva Steaua emergeva da dietro un muro malridotto. Ora, dopo la demolizione, dopo la figliatura della progenie, il nuovo impianto è praticamente pronto. La finale del 1986 Vasile la vide in casa di un amico che provvidenzialmente aveva una tv a colori. La televisione di Stato in Romania imboniva con accurate censure e in genere amava pescare nelle consolidate espressioni artistiche popolari come il circo o il balletto folkloristico, però, nello sport, soprattutto quando di mezzo c’era un’espressione nazionale, l’eurovisione arrivava con la tipica serie di onde concentriche sovrapposte accompagnate dall’inconfondibile sigla sonora. Vasile ci teneva a dire che non era scappato, era forzatamente dovuto venire via. Per lui il 1989 fu solo un disastro, e quando si comincia diventare grinzosi e rancidi non vale più la pena di tenersi tutto dentro e pontifica le sue convinzioni: “diverse volte andai ai comizi di Ceausescu, perfino a Craiova, con lui non esisteva la disoccupazione, il livello culturale del paese era buono, c’erano relazioni e la gente si aiutava, oggi in Romania i politici sono marionette corrotte al servizio dei grandi burattinai occidentali e vedo gente elemosinare, rubare, oppure morire di fame sotto i ponti. Con Nicolae almeno questo non accadeva. Nessuno te lo dice ma una delle ambizioni del “tiranno” era vincere un Premio Nobel per la pace. Organizzò, con successo, un referendum per ridurre le dimensioni dell'esercito e tenne raduni propedeutici alla concordia, leggeva la Bibbia. Fu quando volle tagliare i ponti con l’esterno, con il Patto, che la situazione incominciò a precipitare, un po’ come la Jugoslavia di Tito ma in quest’ultimo caso la posizione strategica di Belgrado e molti aiuti sottobanco, non permisero a Mosca di essere invasiva a differenza che in altri paesi cosiddetti refrattari al sistema. Defunto il Maresciallo precipitarono in un massacro mascherato”. Da noi, una volta esaurito l’entusiasmo di aver forato le bandiere e ghermito il palazzo del popolo non arrivò il paradiso in terra, anzi. Infine, causticamente, trancia: “sai cosa ti dico: chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello ma chi non lo rimpiange è senza cuore.”


Il 7 maggio 1986 allo stadio “ Ramon Sanchez Pizjuan” di Siviglia è un delirio blaugrana, ci sono 70000 indiavolati catalani contro undici rumeni. Il Barcellona di Terry Venebles, di Archibald, Schuster, Alexanco, non può perdere l’occasione più ghiotta della sua storia per vincere la prima Coppa dei Campioni. Malgrado ciò il Barca si dimostra asfittico per 120 minuti e il fortino della “ stella” resse ogni urto riuscendo anche a veicolare messaggi di sublime palleggio per rientrare sui ballatoi a scappatella avvenuta. La notte di Siviglia, l’ennesima notte di Siviglia, dopo quella di un irripetibile Francia- Germania, fu la notte di Helmut Duckadam, (di ciò che avvenne in seguito ci sono troppe stupide speculazioni) colui che tre volte a sinistra e una volta a destra, fermò ogni rigorista del Barcellona per quattro volte consecutive, finché le reti dal dischetto di Lacatus e Balint non scrostarono lo 0-0 del tabellone concedendo per la prima volta la Coppa dei Campioni al vento ferroso dell’Est. Una notte “ Roșu-Albaștrii”, tramonto talmente dolce da essere subito riassorbito nell’escatologia dell’impensato, svanendo nell’esistente, nella pagina bianca dello schermo che non profanerò più col seme osceno dei caratteri.

 

Nessun commento:

Posta un commento

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...