A Semlac negli anni ottanta i preti
ortodossi battevano utensili di metallo su tavolette di legno perché i
turchi, quando occupavano un villaggio, proibivano il suono delle
campane e allora occorse inventarsi un palliativo che poi si è
solidificato nella tradizione. Helmut Duckadam è un ragazzone alto e
robusto, forse un po’ pigro, tuttavia dotato di un istinto divinatorio
in grado di predire lune e traiettorie, uno strano lupo con una breve
cascata di ricci e due occhi chiari che ti scrutano per un momento fino
ad allontanarsi indefinitamente. I baffi gli piacciono, se li lascerà
crescere. In attesa di recarsi agli allenamenti, si siede in cerchio con
gli altri della sua età ad ascoltare i racconti degli anziani. Sono
racconti di sangue e morte, di stupri e violenze. Disegnano uomini
crocifissi con una corona di spine sulla testa, appesi uno dopo l’altro
su una sequenza infinita di pali. Smunti e zazzeruti, un panno umido
intorno ai fianchi e gli occhi appannati di lacrime, i fuochi pulsano
sulle alture, preghiere strozzate in casupole di calce, ombre dovunque,
teorie di processioni funebri, clangore di spade e scimitarre. Solo il
rumore dell’autobus sul selciato fa svanire la cruda visione sui volti
pallidi dei ragazzi intontiti dal defluire delle parole. Helmut gioca
per l’UT Arad la squadra più importante della regione. Si parla bene di
lui in Divizia A, - “ ha occhi furbi e intelligenti”, -scrive il drammaturgo Eugène Ionesco. “E occhi grandi, tanto quanto le sue mani”.
La Steaua lo vuole e se nel 1982 ti vuole la Steaua non puoi dire di no
nemmeno se lo volessi. La Steaua (la stella) è la squadra
dell'esercito. L'anello di congiunzione fra il potere politico e la
squadra è Valentin Ceausescu, il figlio adottivo di Niculae, grande
appassionato di calcio, che pur non figurando nell'organigramma
ufficiale del club ne era diventato di fatto l’eminenza grigia. Da
dietro le quinte Valentin, descritto come " uomo quieto e riservato” imperava in lungo e in largo, fin troppo...
Vasile abita con la famiglia del fratello
Andrei, l’alloggio è in alto, al settimo piano di un palazzone
dell’immediata periferia, dall’esterno non sembra ma internamente rende
una serenità inaspettata, l’appartamento è confortevole. Andrei e la
moglie Doina hanno due figli, Ion e Alis un maschio e una femmina,
rispettivamente quindici e dodici anni, adesso sono a scuola eppure mi
pare di aver capito che dormirò in stanza con loro, "c'e un letto in più per ogni evenienza"- mi spiega Vasile, " nessuno
si vergogna di niente, puoi girare pure in mutande, non ci si
scandalizza, qui abbiamo pochi problemi di ipocrita pudicità". Si
avverte un intenso odore culinario, un miscuglio di cipolla, aglio e
peperoni fritti, il tutto amalgamato in panna acida. Si inietta nei
sensi, sbircio dalla finestra, la giornata continua ad essere
soleggiata, il fremito di Lipscani è solo a qualche isolato di distanza.
Quando Helmut Duckadam arriva alla Steaua
ad accoglierlo c’è l’allenatore Emerich Jenei. Jenei è nativo della
stessa regione di Helmut, solo di etnia ungherese, da bambino dovette
trasferirsi con la famiglia a Losonc in Slovacchia perché suo padre non
voleva prestare servizio nell'esercito rumeno. Jenei ha il volto pulito
di un pastore all’alba ma ha le sue idee, è un duro, vuole sniffarlo il
cuoio del pallone, pretende un gioco moderno e agonistico, nonostante
sia ovvio che in Europa occorreva adattarsi all’avversario, spacciarsi
per attendista, fare ostruzionismo imperniato sul contropiede. Nel
complesso la squadra è efficace e vincente. Il tutto, nel catino da
tinello proletario del Ghencea, stadio di calcio e luogo di culto laico,
un simbolo politico e militare, una roccaforte-caserma, il Templul fotbalului Românesc (letteralmente, “Tempio del calcio romeno”) dove a officiare, indossando la maglia “ stellata”,
sono il libero e capitano Ștefan Iovan, il ghignante Adrian Bumbescu,
l’impavido uomo ovunque Miodrag Belodedici, il saggio Adrian Bărbulescu,
l’artista Lazslo Boloni, la volpe Gavril Balint, ed i due attaccanti da
danza di “ Ciuleandra”, Victor Piturca e Marius Lacatus.
Duckadam si imporrà alla svelta grazie a quel fisico slanciato, e
finalmente sbucano i baffoni da accorto bucaniere. In quella Steaua si
era stabilito un legame di fratellanza, non se ne parlava, non si osava
ammetterlo ma quell’affinità regnava nello spogliatoio e ognuno ne
avvertiva il calore. Addirittura, successivamente, fu stabilito un
record significativo durato dal 1987 al 1989: 104 partite senza subire
una sconfitta.
Vasile, non nascondeva mai un brivido di
commozione sottopelle quando mi parlava della Steaua, ne era tifoso;
nell’unica valigia che si portò dietro in quel viaggio della speranza
verso ovest insieme a due paia di pantaloni, un pullover a strisce
variopinte, delle magliette di lana pesante, e qualche paia di mutande e
calzini, giù, in fondo, dentro una tasca interna, c’era un piccolo
gagliardetto della squadra. Lo appese come una reliquia all’ingresso
dell’appartamento preso in affitto appena riuscì a farsi assumere dalla
prima ditta utile. Mi diceva della difficoltà di andare a vedere le
partite al “Ghencea” perché lo stadio era modesto di capienza e
in genere posti erano riservati ai componenti dell’esercito, ufficiali e
soldati, il che rendeva gli spalti un coacervo di uniformi brune e di
poderosi colbacchi. Quando la Steaua cessò di esistere in attesa della
reincarnazione, il quartiere in cui sorgeva l’impianto assunse la
fisionomia di un paesaggio post-atomico, un accumulo di macerie, un
museo a cielo aperto in attesa di bonifica dove in uno sforzo d’orgoglio
lo stemma della polisportiva Steaua emergeva da dietro un muro
malridotto. Ora, dopo la demolizione, dopo la figliatura della progenie,
il nuovo impianto è praticamente pronto. La finale del 1986 Vasile la vide in
casa di un amico che provvidenzialmente aveva una tv a colori. La
televisione di Stato in Romania imboniva con accurate censure e in
genere amava pescare nelle consolidate espressioni artistiche popolari
come il circo o il balletto folkloristico, però, nello sport,
soprattutto quando di mezzo c’era un’espressione nazionale,
l’eurovisione arrivava con la tipica serie di onde concentriche
sovrapposte accompagnate dall’inconfondibile sigla sonora. Vasile ci
teneva a dire che non era scappato, era forzatamente dovuto venire via.
Per lui il 1989 fu solo un disastro, e quando si comincia diventare
grinzosi e rancidi non vale più la pena di tenersi tutto dentro e
pontifica le sue convinzioni: “diverse volte andai ai comizi di
Ceausescu, perfino a Craiova, con lui non esisteva la disoccupazione, il
livello culturale del paese era buono, c’erano relazioni e la gente si
aiutava, oggi in Romania i politici sono marionette corrotte al servizio
dei grandi burattinai occidentali e vedo gente elemosinare, rubare,
oppure morire di fame sotto i ponti. Con Nicolae almeno questo
non accadeva. Nessuno te lo dice ma una delle ambizioni del “tiranno”
era vincere un Premio Nobel per la pace. Organizzò, con successo, un
referendum per ridurre le dimensioni dell'esercito e tenne raduni
propedeutici alla concordia, leggeva la Bibbia. Fu quando volle tagliare
i ponti con l’esterno, con il Patto, che la situazione incominciò a
precipitare, un po’ come la Jugoslavia di Tito ma in quest’ultimo caso
la posizione strategica di Belgrado e molti aiuti sottobanco, non
permisero a Mosca di essere invasiva a differenza che in altri paesi
cosiddetti refrattari al sistema. Defunto il Maresciallo precipitarono
in un massacro mascherato”. Da noi, una volta esaurito l’entusiasmo
di aver forato le bandiere e ghermito il palazzo del popolo non arrivò
il paradiso in terra, anzi. Infine, causticamente, trancia: “sai cosa ti dico: chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello ma chi non lo rimpiange è senza cuore.”
Il 7 maggio 1986 allo stadio “ Ramon Sanchez Pizjuan” di Siviglia è un delirio blaugrana, ci sono 70000 indiavolati catalani contro undici rumeni. Il Barcellona di Terry Venebles, di Archibald, Schuster, Alexanco, non può perdere l’occasione più ghiotta della sua storia per vincere la prima Coppa dei Campioni. Malgrado ciò il Barca si dimostra asfittico per 120 minuti e il fortino della “ stella” resse ogni urto riuscendo anche a veicolare messaggi di sublime palleggio per rientrare sui ballatoi a scappatella avvenuta. La notte di Siviglia, l’ennesima notte di Siviglia, dopo quella di un irripetibile Francia- Germania, fu la notte di Helmut Duckadam, (di ciò che avvenne in seguito ci sono troppe stupide speculazioni) colui che tre volte a sinistra e una volta a destra, fermò ogni rigorista del Barcellona per quattro volte consecutive, finché le reti dal dischetto di Lacatus e Balint non scrostarono lo 0-0 del tabellone concedendo per la prima volta la Coppa dei Campioni al vento ferroso dell’Est. Una notte “ Roșu-Albaștrii”, tramonto talmente dolce da essere subito riassorbito nell’escatologia dell’impensato, svanendo nell’esistente, nella pagina bianca dello schermo che non profanerò più col seme osceno dei caratteri.
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