venerdì 2 ottobre 2020

D come Kiev




Ci fu un bagliore nella notte tiepida di primavera. Taras d’impulso fermò la sua Trabant sul ciglio della strada per Chernobyl e uscì dall’angusto abitacolo di quell’inno alla sobrietà socialista. Spartana sarebbe stato il massimo complimento che si sarebbe potuto concedere al mezzo. Ma in fondo era la macchina del popolo, un due cilindri a malapena tarato per i 95 km/orari, la cui produzione iniziò il giorno esatto dell’anniversario della Rivoluzione d’ottobre e la Trabant (tradotto satellite, in onore dello Sputnik) iniziò a circolare anche per le strade ucraine.
Laggiù, in Polesia, nella vasta regione a nord di Kiev, Taras Lukin avvertì uno strano odore nell’aria, come una zaffata fetida, qualcosa che pizzicava la gola e faceva lacrimare gli occhi. Si guardò intorno, per vedere se altri automobilisti si erano fermati a osservare quel cielo illuminato da un anomalo fascio di luce rossa, così brillante da rischiarare la vegetazione, un uniforme tappeto di erbe basse, graminacee per lo più, punteggiato da fitti arbusti. Taras, un biondino longilineo addetto al magazzino di una ditta statale di elettrodomestici, rientrò in macchina, si accese una sigaretta e rimise in moto, tutto sommato mancavano un paio di curve per essere a casa. Trovò sua moglie Lyudmilla e altri vicini fuori dal portone di un alta palazzina biancastra, si intuiva agitazione, perplessità, perfino ironia, finchè un’autocisterna dei pompieri passò a sirene aperte e qualcuno dal finestrino gridò di rientrare negli appartamenti e di chiudere le finestre. C’era un incendio al reattore. Taras e Lyudmilla sposati da pochi mesi e con un figlio in arrivo si abbracciarono mentre piccoli smozzicati veli di cenere cominciavano a cadere sulle loro teste. Gli orologi segnavano le 01: 30 del 26 aprile 1986, un sabato.
Poche ore dopo Mosca sarà informata dei fatti. A Kiev, quella mattina, le 13 cupole della Cattedrale di Santa Sofia brillavano di giallo oro, e in un contrasto quasi irragionevole, scolpite sulle facciate degli edifici di rappresentanza, falce e martello ricordavano lo status politico del paese. Quasi in centro, nascosto in un parco, l’impianto della Dinamo Kiev, lo stadio cosiddetto della "Repubblica" si ergeva nel suo ovale olimpico garrendo sul pennone della tribuna principale un enorme bandiera bianca con la lettera D, tinta da un esuberante blu, tipica di quegli arzigogolati manoscritti d’epoca chiusi in ceralacca magari dallo scrittore Grigorij Fedorovič o dalla poetessa Kvitka Lesja Ukrainka. Al centro del campo, esattamente sul dischetto, in tuta da allenamento e fischietto in bocca, se ne stava un uomo dalla faccia rosea, lo sguardo serio da orso, un butto di capelli brizzolati ad adornargli il testone. Esattamente fra quattro giorni la sua Dinamo Kiev, espressione sportiva del NKVD, la polizia dell'URSS, avrebbe volato fino a Lione per affrontare l’Atletico Madrid nella finale di Coppa delle Coppe. Valerij Lobanovskyj, dopo aver conseguito la laurea in ingegneria meccanica divenne colonnello, un orpello, una mostrina, fondamentale per avere credibilità nella gerarchica società sovietica, indispensabile inoltre per coltivare un  idea: esportare la sua maniera di pensare calcio. Il mantra del “Colonnello”, ripetuto fino alla nausea, si prefiggeva di fracassare i vecchi sistemi di gioco, ritenuti ormai anacronistici, guardando al futuro. Insieme al suo mentore, Anatoly Zelentsov, pretese e ottenne un empirico primordiale computer, (oggetto  sconosciuto ai più e si vociferava che il KGB lo avesse messo subito sotto controllo) per registrare ogni singolo movimento dei giocatori. Divise il campo in 9 aree cercando di elaborare il concetto di squadra perfetta, di giocatori perfetti, eclettici, in grado di poter svolgere qualsiasi ruolo. La Dinamo doveva essere la proiezione dei suoi pensieri: pratica, devastante, meccanica. Un congegno già brevettato in capacità e prestazioni, solo che, nella cosmogonia del Colonello, se ne insinuava un'altra, ineffabile, eterna, umana, quella dell’icona Oleg Blochin, amatissimo dalla gente alla pari di Igor Stravinsky o di Youri Gagarin griffato CCCP sul casco da astronauta. Insomma, Blochin, in quel 1986, poteva considerarsi un privilegiato, l’unico a cui permettevano di indossare jeans e portare capelli lunghi, ma anche l’unico dotato di una velocità fuori dalla norma quando lanciato in orizzontale puntava lo spazio saltando le maglie avversarie con un eleganza innata. Ancora nessuno sapeva del problema, un disastro che a stretto giro di vite avrebbe ucciso, rovinato, pietrificato un intero territorio seminando veleno sull’ immenso granaio d’Ucraina e sulle sponde del Dnper. Valerij Lobanovskyj e l'addetto stampa della squadra furono convocati al dipartimento degli affari generali del Partito Comunista di Kiev in Piazza Maydan a 48 ore dalla partenza per Lione. Il segretario accomodò gli ospiti dentro un salone signorile del secondo piano, alla parete di sinistra, decorata, una gigantografia di Lenin e qualche arazzo di stampo militare, a destra dei finestroni irradiavano la luce tenera del mezzogiorno, obliqua, pulviscolare. Sergej Kozlov fu insediato a Kiev in veste di segretario locale nel 1979 dall’allora capo di stato Leonid Ilič Brežnev. Mostrava di essere sui cinquant’anni, il viso lucido, due occhietti azzurrognoli gli crepitavano sul viso fin troppo rugoso fra due liste di capelli brizzolati. Le parole gli uscirono dalla bocca come da un serraglio, parlò con tono privo di inflessioni, efficace. “La stampa straniera in Francia potrebbe farvi domande sull’incidente occorso a Chernobyl, ebbene l'accaduto è al vaglio delle nostre competenze, un semplice incendio probabilmente, domabile, nient’altro, in ogni caso massima riservatezza, le interviste dovranno essere rilasciate come sempre solo su temi tecnici, buona partita compagni, e grazie”. 

Tuttavia qualcosa filtrava, in gesto incompleto, in una smorfia del volto, nello sguardo vacuo di congedo. A Chernobyl si incominciava ad evacuare, colonne di camion dell’esercito recuperavano gli abitanti del perimetro più colpito, Taras e Lyudmilla fra questi, gli animali domestici dovevano restare, uno strazio. Più tardi, nelle settimane successive, squadre speciali dell’esercito e volontari reclutati per una manciata di rubli, dovettero abbatterli onde evitare fughe dalla zona in cerca di cibo e una morte ancora più cruda per l’effetto delle radiazioni. Negli spogliatoi di Lione, Lobanosky passò in rassegna ciascuno dei suoi ragazzi con un misto di fermezza e amor paterno, guardò Igor Belanov, guardò Ivan Iaremchuk, poi prese fra le mani la faccia di Aleksander Zavarov come si fa con un fanciullo e gli impartì una sorta di suprema benedizione laica, "per tutti sasha, per tutti", infine varcò la soglia della porta e uscì sul terreno di gioco. E così, a qualche giorno di distanza dallo scoppio del reattore nucleare di Chernobyl, la Dinamo Kiev sollevò la sua seconda Coppa delle Coppe dopo un sonante 3-0, all'oscuro di quel manto cinereo sceso mortifero sui rami dove un tempo ondeggiavano i sogni degli innamorati.

 




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