sabato 3 ottobre 2020

HO RUBATO LA COPPA DEI CAMPIONI

 


Ho la testa che mi scoppia, devo rallentare, sto correndo troppo e credo di non aver rispettato nessun limite di velocità. Ma non sono ubriaco, stasera non ho bevuto niente, niente di niente, nemmeno un sidro o una merda di bitter. Sono solo inquieto, perplesso, foderato da questa morsa d’emicrania che appena si allenta riesco persino a farmi una mezza risata come un isterico clown chiuso nel suo camerino prima dello spettacolo. In tutta sincerità non riesco a immaginarmi la fine di questa notte. Alla radio passano i Genesis e “Keep It Dark” pare si adatti bene al mio caso. Ogni volta che oltrepasso i lampioni giallognoli piantati ai lati di una deserta e tristissima M42, un riflesso metallico mi scintilla sullo specchietto retrovisore e a quel punto alzo impercettibilmente gli occhi controllando per l’ennesima volta che quella chincaglieria ingombrante scaraventata in malo modo sul sedile posteriore della mia Datsun Cherry blu cobalto sia ancora integra al suo posto. Non ho una direzione precisa, guido d’inerzia, incerto sul da farsi. La cartellonistica autostradale mi indica che adesso ho infilato l’ennesimo budello grigio, la M1, e quindi sto andando verso Sheffield. La campagna delle West Midlands è cupa da far paura, solo qualche sperticata luminaria antinebbia issata in lontananza a delimitare perimetri di fabbriche di periferia, ringhiere, reticolati, casette sparse tutte uguali, qualche cane che corre e abbaia senza timbro mentre lo osservo scorrere dall’angolo morto del finestrino. Mi redimo su “ Man on the Corner”, tutta roba scritta da Phil Collins, quel geniaccio di Chiswick, e man mano che il tempo passa mi rendo conto di aver commesso una bella stronzata; oh, sia chiaro, avevo le mie ragioni perché quei disgraziati mi stavano mettendo sotto sopra il locale, il mio locale, belli, fighi, straricchi con le loro mogliettine viziate sottobraccio, più un numero imprecisato di amici sgradevoli al seguito. Ed erano entrati senza avvertire, gettandosi sui tavolini, sedendosi sul bancone, così come se il mio pub fosse uno di quei luridi saloon da film Western zeppo di gangster, prostitute incipriate, cappellacci impolverati, unte carte da poker, barbe ispide e il mite ometto alla pianola. E allora mi è saltato il diavolo sulla spalla, e, accidenti a lui, mi ha suggerito all’orecchio il modo migliore per fargli un grandioso dispetto. Ora però avverto la rabbia calare, credo sia tempo di porre termine a questa sceneggiata, devo fermarmi, rimettere a posto le idee, asciugarmi i pensieri, provare a spiegare l’accaduto e tornare a casa. In fondo, a questo punto, è solamente necessario trovare una stazione di polizia e cercare di esporre nella maniera più esauriente possibile quello che è successo circa un’oretta fa. Tutto sommato se saranno comprensivi non dovrebbe essere un dramma, mi faranno una specie di ammenda, o almeno spero. Scalo un paio di marce e il motore della Datsun grugnisce che è una meraviglia. Imbocco la prima strada utile e mi passo una mano sui capelli giusto per non assomigliare troppo a un fuggitivo di chissà quale carcere di estrema sicurezza e con la lingua mi inumidisco labbra e baffi. Leggo distrattamente il segnale, pare sia finito in un posto chiamato Wesbar, dove francamente non sono mai stato ma dove, per fortuna, c’è quello che speravo: una piccola stazione di polizia ricavata nell’angolo di un vecchio edificio georgiano in mattoni scuri. Parcheggio la macchina accanto a quella delle forze dell’ordine, spengo il motore, mi guardo intorno, poi mi volto verso il sedile alle mie spalle soffiando fuori l’ultimo refolo di tedio scuotendo la testa che anche senza analgesici, grazie al cielo, sta decisamente meglio nonostante quattro parole in ordine ben preciso mi solchino dentro riducendo il mio vocabolario a un'unica sintassi:

“Che cazzo ho fatto?”

L’aria tersa mi rinfresca i polmoni. Nonostante sia primavera inoltrata tira la solita arietta frizzante di queste parti. C’è una coppia che sta uscendo dall’ufficio della polizia, lei assomiglia vagamente a Kate Bush, indossa una minigonna inguinale, un giacchetto di pelle nemmeno buono per un rigattiere di seconda mano e si regge in piedi approssimativamente su di un paio di scarpe rosse fuoco dal tacco imbarazzante. Lui ha la faccia seminascosta da una fluente lanugine corvina, una camicia a motivi floreali e un paio di jeans laceri calati sopra delle Converse scolorite. Il poliziotto al vertice della breve scalinata tiene le mani sui fianchi, appare stanco e decisamente nervoso:

“Andate a casa forza, e non fatevi beccare più, altrimenti prima o poi passate qualche settimana nella patrie galere per la gioia della signorina Thatcher che ne ha le palle piene di comunisti, hooligans, punk e drogatelli come voi...”

Poi, pigramente, sposta lo sguardò su di me. Ho un piede sul gradino più basso e l’altro sull’asfalto, mentre intanto impugno il corrimano sinistro della ringhiera. Rintraccio una parvenza di quiete, tuttavia si capisce lontano un miglio che non sono credibile. Così scruto l’orologio cercando nel gesto una timida inflessione di serietà e i cristalli liquidi del mio Seiko al quarzo indicano che è mezzanotte passata da qualche minuto. L’orario dei folli, andiamo male Eric mio. Il poliziotto, un giovane dai capelli biondicci senza berretto d’ordinanza e con una frangetta bislacca in fronte dopo un attimo di esitazione, in tono seccato, mi dice:

“E lei?”

E io? Penso tra e me...

“Ecco, io dovrei soltanto farvi presente una cosa, dieci minuti e me ne vado.”
 
“Guardi, si auguri sia una cosa seria e non una cavolata perché ultimamente di dissennati c’è ne sono pure troppi in giro. Si figuri, un oretta fa ci hanno chiamato dalla centrale di Birmingham perché dicono che un pazzo abbia rubato la Coppa dei Campioni vinta dall’Aston Villa… avanti, salga su e si accomodi, arriviamo tra un istante.”
 
Ho la tentazione di aggiungere qualcosa ma ritraggo le parole. Meglio così, meglio parlare all'interno, in maniera concisa e ordinata, forse mi offriranno pure qualcosa, diamine in un qualche giornale lessi che per certi collaboratori di giustizia c’era un minimo di trattamento di favore.

La stazione di Polizia di Wesbar assomiglia a una sorta di ambulatorio medico con uno sportello in vetro antiproiettile fissato lungo un piano d'appoggio che copre i sei o sette metri di larghezza della stanza più un minuscolo atrio d’aspetto con delle seggioline di legno scomodissime fissate alla parete in cui rannicchiarsi e aspettare il proprio turno magari in manette. In quel caso, almeno per ora, me ne stavo senza catene ai polsi. Attesi il quarto d'ora accademico. Nel frattempo il poliziotto che mi aveva fatto entrare si era defilato dentro il cesso di servizio a farsi una paglia ed ero rimasto solo sotto un neon il cui continuo “bzz-bzz” ne annunciava l’imminente decesso. Ciò avrebbe confermato l’ineluttabilità della legge di Murphy. Al di là dello sportello, immancabile, la tipica donnona da centralino, una stanca e flaccida signora dai capelli rossicci che con una certa probabilità si stava ridipingendo per la terza volta le unghie. Alzò svogliatamente la faccia per scrutarmi storcendo un angolo della bocca come a confermare la sua tesi precotta sulla presenza di un tossicodipendente o di nuovo, alticcio, scocciatore notturno. Insomma evidentemente non presentavo la faccia da serial killer, terrorista islamico, e nemmeno da fanatico dell’IRA. Con ostentato biasimo mi dice di darle un documento e di spiegarle il motivo per cui alle 00.24 minuti del 31 maggio 1982 fossi voluto entrare alla caserma della polizia di Wesbar poco fuori il centro urbano di Sheffield:

Prego signor... Sykes, mi dica...”

Ritrovo una parvenza di portamento ma capisco che alla luce dell’accaduto il mio sforzo di chiarire il caso in maniera ragionevole sia insostenibile, comunque devo provarci.

“Ecco vedete, ho rubato io la Coppa dei Campioni ai giocatori dell’Aston Villa, c’è l’ho con me, è sul sedile posteriore della mia auto posteggiata all’esterno...”

La donna respira profondamente. Emette un colpo di tosse di circostanza, schiocca le labbra, preme un numero sulla tastiera del telefono nero posto su un tavolino di legno accanto a lei ed ecco aprirsi l’unica porta alle sue spalle da dove escono due agenti. Quello di grado verosimilmente più alto, un tipo normolineo dal baffetto curato, prende la parola:

Qual è il problema agente Davies?”

“Il tipo qui dice di avere la Coppa dei Campioni o come diavolo si chiama quella cosa sportiva dentro la sua macchina, qua fuori al parcheggio...”

Il poliziotto mi osserva da capo a piedi in un misto fra curiosità e pena, dopodiché enuncia ciò che temevo.

“Mi ascolti bene, sono il sergente Mick Greenough e in vent’anni di servizio ne ho sentite parecchie di storie. Un giorno è venuto un tizio dicendo di aver rapito la Regina Elisabetta e un'altra volta un tale vestito da Conte Dracula. Ci mancava giusto il ladro pentito delle coppe calcistiche. Sia cortese, mi dica la verità, mi sta prendendo per il culo vero? Guardi che mi girano le palle a fare il turno di notte e la sbatto dentro se scopro che si è fatto di qualche acido. Facciamo così, non ci siamo visti e vada a dormire, dalla patente vedo che abita nei dintorni di Birmingham, beh certo ne ha fatta di strada per venire fin qui a dirci questa scemenza, eh?”

 
“No, no, è tutto vero, controlli pure, ecco queste sono le chiavi.”

 
“Ok, ok, … agente Wells proceda ad aprire quella fottuta macchina e diamo soddisfazione al signor Sykes. Mi vada a prendere la Coppa...”

Resto a testa china percependo le risate ironiche del gruppo dei poliziotti ai quali nel frattempo si è aggiunto il biondino che mi aveva accolto. Quando l’agente Wells rientra l’atmosfera cambia repentinamente. I volti si fanno improvvisamente seri e tesi. La Coppa dei Campioni d’Europa con ancora i nastrini colorati di claret&blue legati ai manici è sul bancone dell’ufficio della polizia di Wesbar. Riconosco il momento confuso scivolante nel catartico e chiedo gentilmente di poter fumare una sigaretta.

“No, … qui non si fuma... e comunque adesso prima che mezza Scotland Yard, giornalisti, addetti dell’Aston Villa, tifosi, e curiosi del cazzo arrivino in massa in quest’ angolo di merdosa Inghilterra mi spieghi cosa cavolo ha combinato, visto che tutti, esercito compreso, sono alla ricerca di questa cosa.”

Rinfilo la mia stropicciata Benson&Hedges nel pacchetto semivuoto e riporto la versione mentre il luccicante trofeo sembra ipnotizzare gli ufficiali più giovani, increduli di avere quella coppa nel loro luogo di lavoro quotidiano.

“Mi chiamo Eric Sykes ma questo lo sapete già. Sono il titolare del Fox Inn di Hopwas, un villaggio a due passi da Tamworth alla periferia nord di Birmingham, i giocatori dell’Aston Villa senza nessuna prenotazione preventiva sono arrivati nel mio locale per festeggiare. Me lì sono ritrovati faccia a faccia belli carichi con un codazzo di gente che in breve ha imballato il pub in ogni ordine di posto e hanno sistemato la Coppa su uno sgabello vicino al bancone di mescita. Tutti la toccavano, baciavano, fotografavano. Era talmente al centro dell’attenzione che paradossalmente ad un certo punto rimase “sola” e nessuno sembrò più accorgersi di lei, talmente erano sbronzi.”

“E perché mai l’ha portata via Sykes? mi scusi, ma non capisco.”

“Vede, hanno incominciato a spaccarmi il pub quei casinisti, io ci tengo al mio posto di lavoro, le sterline le sudo, mica come quei calcia palloni a tradimento, e allora ho agito. Ho preso la Coppa e sono scappato via, per dispetto, per spregio, per ripicca.”

“Mi scusi ma non ha pensato che potevano riempierla di soldi una volta andati via, poteva essere un’occasione più unica che rara?”

“No, in passato ho già avuto a che fare con calciatori di Prima Divisone o cantanti di grido, prima bevono anche il fondo del fusto e infine se ne vanno dicendo che passerà la società o il loro agente a pagare e puntualmente i conti non tornavano mai.”

A questo punto la faccenda si fa grottesca. Mi invitano sul retro a prendere un tè. Si capisce che per il momento non hanno nessuna voglia di arrestarmi né tantomeno di avvertire Birmingham del ritrovamento. Questa cosa l’avrebbero raccontata ai nipotini e in qualche modo intuisco la volontà di dilatare i tempi. Gli occorreva una fottuta geniale idea prima di ristabilire l'ordine naturale delle cose e riconsegnare il trofeo ai legittimi proprietari.

L’agente Tim Wells escogita la trovata:

“Dai, alla svelta, chiamiamo altri due ragazzi e organizziamo un match 4 contro 4 in garage. In palio la Coppa Campioni d’Europa. Non capita mica tutti i giorni di poterla sollevare dopo una partitella tra amici...”

Chiaro no, voi che avreste fatto al loro posto? 
 
Qualche giro d’orologio e vedo arrivare i loro colleghi e ci trasferiamo tutti nel garage della caserma per giocare la partita di calcio più assurda della storia.

Nessuno parlò mai di quello che avvenne quando le autorità vennero a riprendere il trofeo. Nessuno seppe di quella mezzoretta di calcio nell’umidissima autorimessa della polizia di Wesbar. E io, Eric Sykes, tornai con calma al mio pub ormai vuoto e in subbuglio. La versione ufficiale fu soltanto quella che l’oggetto era stato ritrovato e riconsegnato.

Anni dopo, l’edificio dove si trovava quella stazione di polizia fu messo in vendita e da logori scatoloni sono riemerse le foto degli otto fortunati, me compreso, che in una notte di maggio del 1982 si giocarono in amicizia la Coppa dei Campioni.

(Di Eric Sykes si persero le tracce, non si seppe mai se giocò con quelli che vinsero o no, sta di fatto che lo lasciarono andare indisturbato dopo “ la partita”.)

“Non lo rifaccia, Sykes, mi raccomando..”

“Ah no, certo che no” –dissi -, e comunque, quando pensate che quelli possano rivincere un'altra volta la Coppa dei Campioni?”
 

 

 

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