martedì 6 ottobre 2020

UN GIORNO SENZA SOLE

 

Piovve quella notte, la pioggia demente di una primavera malata; le nubi incombevano basse alternate da repentini cali di nebbia umida, atta a stendere un sudario caliginoso su Torino che si risvegliò come percossa da un incubo, lattea, spettrale, una mestizia che nemmeno il  suono del campanello della bicicletta di un aitante panettiere riuscì a rallegrare e ridestare. C’era qualcosa in quell’alba livida, impregnata di foschia, una sorta di insofferenza, un patire senza motivo apparente, la condizione patologica della persona depressa nell’attesa spossata di un ansiolitico, pena uno stato perenne di tremore e senso di smarrimento.

Laura Virgili, figlia unica di una famiglia operaia del quartiere Lingotto, dormì malissimo, svegliandosi con un rammarico e un’angoscia che non riuscì a scacciare nemmeno raddoppiando la dose di biscotti da sciogliere nel caffè in quel mattino scuro battuto da pungenti gocce di pioggia. Il granata della bandiera del Toro, e il clamore dei tifosi nel giorno della partita, invadevano la sua stanza arredata con sacrificio, un modesto alloggio che per lei solo pochi anni addietro aveva significato emancipazione e distacco dai rituali di un’educazione ossessiva.

Fu all’incrocio con Piazza D’Armi, guardandosi nello specchietto a scatto tenuto nella borsetta, che si rese conto per la prima volta che tutto sommato non le dispiaceva il rossetto in disordine, mentre da un bar le parole di una canzone invitavano un uomo a stringere una donna, a baciarla, evitando di parlarle nel tepore dei corpi. Nel 1949, passeggiando in Borgo Filadelfia, fra i rumori dei treni in entrata e in uscita dal nodo ferroviario, Laura si fermava a vedere gli allenamenti allo stadio della sua squadra preferita, laddove in mezzo al cerchio dei giocatori si disponeva un certo Erno Erbstein, allenatore ungherese di origini ebraiche, che schierava i suoi ragazzi in un semicerchio nitido, esatto, come se a far da invisibile tratto di compasso fosse stata una matita calata dalla cuspide altissima della Mole Antonelliana.

Colpì Laura la precisione degli esercizi, la sincronia fluida dei movimenti, sebbene fosse chiaro che si stessero allenando non c’era preparatore atletico a guidarli nelle estensioni e nelle acrobazie con cui suscitavano l’ammirazione dei passanti, stupiti, quanto lo sarebbero stati a osservare un funambolo del circo o uno stormo di incantevoli fenicotteri. Da dietro gli occhi sottili, la mente di Laura era fissa sul comune automatismo, da cui scaturiva la gestualità seriale e quasi danzante degli esercizi in atto.   

Laura, in quei momenti, non avrebbe saputo dire con esattezza se il suo entusiasmo per quel Torino invincibile fosse stata la malinconica predisposizione di un inverno pigro di amori, ma ricordò benissimo che quando incrociò lo sguardo di uno degli uomini in tuta le si aprì una limpidezza sconfinata. Osservava, rapita, ogni gesto, ogni braccio, precipitato sulle caviglie e poi appresso la schiena. Si rivide dentro la sua camera, ebbe un pensiero che la fece arrossire, ripensò alla scarsità di mobilie, alla sveglia, allo spartano tavolinetto in legno, a quel mazzo di fiori appassiti che non rammentava più da quanto tempo aveva dimenticato di annaffiare, e poi chissà qual era il motivo perduto che le imponeva di conservarli ancora..    

Si vide "risolta" al solo pensiero di passeggiare sottobraccio e magari sposarsi con uno di quei ragazzi del Toro, aspirando ai ritmi di una serenità coniugale, immaginò il suo matrimonio, una nuova intimità, una casa spaziosa, addirittura fantasticò sui buchi delle serrature, sulle fessure sotto le porte, sul risveglio finalmente discreto, continuando a osservare quelle movenze, stavolta concepite sulla frequenza delle acclamazioni della partita vera, ma poi ancora gli balenarono davanti i lanci del riso, i sorrisi, il viva gli sposi, i brindisi, le bucce annerite sul piatto dopo una cena a lume di candela. 

Fantasticò subito su Rigamonti ma le voci di popolo dicevano fosse un impenitente donnaiolo e allora ripiegò su Ezio Loik dalla faccia bella eppur dannata da attore americano. Studiò qualunque dettaglio, degno di un’immaginazione maniacale eppure composta, e comprese la paranoia non supina al suo iperbolico capriccio. A questo pensò Laura, impiegata allo stabilimento Fiat del Lingotto, all’efferatezza dei sogni, in cui tutto è piegato ai nostri desideri, ma in fondo quei pensieri le dettero un gusto di rappresaglia sportiva verso la Juventus, la squadra dei padroni.   

Era un giorno di riposo per lei, quel 4 maggio del 1949, e allora prese un Tram diretto verso Corso Vittorio Emanuele, detergendo con un fazzoletto la condensa sui finestrini affinché l’opulenza della città austera non offuscasse in lei il ricordo degli atleti. Tuttavia, quella mattina, continuò a percepire ciò che mai avrebbe voluto intuire: le parve di guardarsi dentro, e sentì crollare un ordine interiore, in un solo istante, ne fu certa, era successo qualcosa di terribile, una sventura assoluta, invisibile, senza rumore.

E prima che la notizia dilagasse funesta in ogni recesso della città e rimbalzasse in tutta Italia, Laura Virgili si mise a piangere. 

Anche Ettore Gianzi aveva dormito male quella notte e non se ne capacitava. In genere il sonno era di una quelle cose che, nonostante la vita gli avesse regalato un dispiacere terribile, non gli procurava fastidi e riusciva sempre a riposare piuttosto bene. Si alzò, guardò distrattamente il calendario che recitava mercoledì 4 maggio, e si mise davanti alla specchiera, le rughe cominciavano a solcargli la faccia leggermente incanutita dall’incedere degli anni, quasi cinquanta pensò. 

Per i tempi cominciava ad essere una certa età, e come scrive Ernesto Sabato una certa età è sempre un età incerta. Ma in verità quello che il vetro rifletteva e disturbava Ettore, addetto al Filadelfia da ben prima della guerra, era un guizzo di malinconia che ormai si era accasato tra le tempie incise dalla ex appartenente al reparto genieri dell’esercito italiano, quel povero esercito sbandato uscito dall’ambiguo armistizio dell’8 settembre, insinuando uno sgradevole contrasto con l’allegria che sapeva di saper elargire non appena si aggirava soddisfatto nei corridoi e sul prato dello stadio, la cui erba tagliava una volta alla settimana oppure a seconda della stagione. 

Bisognava farlo con cura perché su quell’erba giocava la squadra più forte del mondo e di questo ne era consapevole. Ogni sera lucidava e controllava il tagliaerba, un modello leggero in alluminio prodotto dalla ditta Briggs & Stratton, preparando la dose di miscela corretta per il giorno seguente, cosicché lo trovasse già pronto nella stanzetta dei magazzinieri accanto agli spogliatoi dei giocatori, sotto un fiammante gagliardetto granata, appeso a un chiodo, con la scritta campioni d’Italia 1947/48.

Sulla sedia impagliata, accanto al letto, teneva al pari di una reliquia, la maglia regalategli da Franco Ossola, mentre sul comodino, sotto una abatjour vagamente dozzinale, gravava obliqua sul perno della cornice la foto di Irma, sua moglie, scomparsa a causa delle ferite riportate da un bomba caduta in città durante i giorni fatti di sirene stridule e di corse senza fiato verso i rifugi imposti dal conflitto bellico. Dalla finestra vedeva una piccola parte di Corso Regina Margherita e si accorse che piovigginava, allora decise di infilarsi la giacca impermeabile.

Il Corso, smorzato dalla bruma, si mostrava poco trafficato. Afferrò la bici legata con il fil di ferro alle apposite rastrelliere, e dopo aver percorso un centinaio di metri entrò dal panettiere all’angolo con Corso Oddone per prendere il suo “Gavasot” quotidiano. Quando entrò si accorse dello strano silenzio, le ultime voci si spensero, e Ettore, non capacitandosi del motivo, nascose immediatamente un accenno di sorriso che ritenne inopportuno. In molti sapevano del suo lavoro, lo guardavano fisso in faccia come se si attendessero una risposta, un qualcosa a cui aggrapparsi contro l’inutilità della speranza. 

Fu solo in quel preciso istante che Ettore Gianzi percepì il gracchiare della radio, il pianto sommesso di alcuni clienti e la faccia rigida di Renato, il fornaio baffuto al quale giusto una settimana prima aveva regalato una foto autografata del capitano Valentino Mazzola, che ora se ne stava sospesa sopra agli scomparti del pane e pareva guardare tutti da un punto indefinito dell’universo. Renato non proferì parola, restando con i gomiti appoggiati al bancone in un aria mesta di disagio e sconforto. 

I notiziari intanto parlavano di una disgrazia, di un incidente, di un aereo caduto. Sì, forse proprio quello del Torino, anzi nessun forse, la voce metallica scandì bene il comunicato. Vittorio Pozzo insieme ai pompieri e alle forze dell’ordine stava riconoscendo i cadaveri. Non era giusto, dopo gli stenti del dopoguerra, il Grande Torino dai volti puliti, la meglio gioventù di un paese ancora in cerca di identità, ragazzi timidi dai volti tesi, gli zigomi spigolosi e i capelli imbrillantinati all’indietro, più anziani dei loro vent’anni, che dissimulavano timidezza, sorridendo con imbarazzo alle cineprese. Il Grande Torino di ritorno dal Portogallo per un amichevole era collassato a bordo di un aereo sulla Basilica di Superga, nascosto dal fumo maledetto delle macerie e da quella foschia grigia, opprimente. Lassù, in qualche modo, sono rimasti per sempre, insieme ai sogni di Laura e al secondo dolore di Ettore, oltre ai ricordi di un’intera generazione. Tutto si dissolve recitando la litania di quella formazione epica: Bagicalupo, Ballarin, Maroso, Greizar, Castellano, Loik, Mazzola, Menti, Gabetto, Ossola, e in lontananza sembra che la tromba del capostazione Oreste Bormida suoni ancora la carica fra gli angoli ossuti e screpolati del vecchio Filadelfia.

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