sabato 13 marzo 2021

AMARO BRAUNSCHWEIG

 


Qualcuno ci scherzava, molti giornali ironizzarono, le battute si sprecarono. Quando mai Paul Breitner avrebbe lasciato il Real Madrid per un modesta squadra della Bassa Sassonia dove certamente tutti avevano letto il Faust di Goethe ma quasi nessuno il libretto rosso di Mao? Eppure “Der Afro”, per via della sua capigliatura più adatta alla band Kool and the Gang che alla rigorosità teutonica, accettò la proposta. Era il 1977 e l'Eintracht di Braunschweig stava cercando di riprendersi una collocazione consona nel vuoto di potere lasciato nel calcio tedesco quando sulla fine degli anni settanta il Bayern abbandonò momentaneamente lo scettro della Bundes. Breitner “il Maoista”, il campione controcorrente, naif e scontroso quanto basta nell'adempiere al suo feroce impegno politico disse sì. E a Braunschweig sognarono di ripetere quella loro unica vittoria nel campionato di dieci anni prima, questa volta sotto la guida di Branco Zebec. E allora facciamo un salto indietro, perché di cose da dire c’è ne sono ed anche piuttosto particolari. I cittadini di Braunschweig, la città dove Enrico il Leone volle costruire un imponente castello, ornata nella pietra del romanico, nelle voluttà barocche e puntellata da ispide guglie a ombrare le solite case intelaiate da travi di legno disposte secondo diversi orientamenti, sabato 3 giugno 1967 si ritrovarono, senza nemmeno accorgersene, completamente colorati di gialloblu e concentrati, stipati, festosi, dentro la catinella dell’Eintracht Stadion in Hamburger Strasse, perché la squadra allenata da Helmut Johannsen, uomo tutto di un pezzo, dalla volontà di ferro, astuto tattico, nonché buon psicologo, aveva portato "i leoni" a due punti da uno storico titolo. Nemmeno lui si sarebbe aspettato quella folla, persino i pioppi che si alzavano dietro le curve vennero scalati diventando empiriche tribune aggiunte per i tifosi più giovani quando i botteghini chiusero le serrande e i 38000 biglietti disponibili andarono esauriti. Il Braunschweiger Turn- und Sportverein Eintracht, nato nel 1895, sino a quella stagione aveva pascolato senza sussulti sui prati tedeschi se si eccettua un terzo posto racimolato nel 1958 presto dimenticato. Ma il gruppo di Johannsen si dimostrò macchina da guerra dei trent’anni estremamente oliata. Innanzitutto una cerniera difensiva degna del miglior Vallo, dal portiere Horst Wolter a Jürgen Moll, a Peter Kaak al capitano Joachim Base, una mediana eccellente con Walter Schimdt, e Hans-Georg Dulz e davanti un chirurgico Lothar Ulsaß in odore di santità. Nessun privilegio, un cameratismo ermetico in cui ogni giocatore a prescindere del nome veniva mensilmente stipendiato con 1200 marchi più eventuali altri 250 di bonus in caso di vittoria. Insomma quel giorno di giugno, battendo 4-1 il Norimberga, l’Eintracht di Braunschweig con in rosa tutti calciatori nati nella regione della Bassa Sassonia, si laureò campione di Germania e le lattine di birra prodotte e distribuite gratis per l’occasione dalla Dortmunder Unions-Brauerei, su cui si poteva vedere un'immagine della squadra, non solo vennero comprensibilmente prosciugate ma diventarono rapidamente oggetti di culto e da collezione, anche perché da queste parti, seppur graziose, il Meisterschale non lo alzarono più. Cinque anni dopo ecco un fatto curioso da annoverare. Successe che Ernst Fricke, presidente del club, e Günther Mast, presidente della Mast-Jägermeister (la famosa azienda di liquori che traeva il  logo dalla particolare teofania avvenuta nella conversione di Sant'Eustachio quando durante una battuta di caccia ad Eustachio apparve improvvisamente Cristo crocefisso tra le corna del cervo che stava per abbattere) trovarono un accordo: la ditta avrebbe versato un assegno di 100.000 marchi nelle casse del Braunschweig se questi avessero apposto il cervo Hubertus sulle proprie divise. Esisteva tuttavia l'ostacolo della federazione che permetteva ai club di sfoggiare unicamente lo stemma societario. Nonostante il divieto, alla fine si raggiunse un compromesso in quanto con 145 voti a favore contro 7, l'8 gennaio del 1973 a Braunschweig si accantonò il leone rosso per il cervo della Jägermeister appuntato dalle iniziali E.B. L'esordio avvenne il 24 marzo 1973, nella gara contro lo Schalke 04, ciò nonostante l'affare rischiò seriamente di saltare poco prima del fischio d'apertura della partita a causa di un banale errore di misura nel disegno: 18 cm di diametro contro i 14 imposti dalla DFB. Diciamo che il direttore di gara chiuse un occhio, o forse due, e permise alle squadre di giocare, dopodiché, durante la settimana seguente, l’Eintracht rettificò a dovere le dimensioni. Questa fu la prima sponsorizzazione che apparve sulle maglie di un club professionistico di calcio. Ovvio, i “puristi” non esitarono a gridare allo scandalo; ipotizziamo invece come la Jägermeister fosse ben felice di questo improvviso battage pubblicitario che la vedeva protagonista. I tifosi si divisero: da una parte c’era chi pensava che questo tipo di operazioni commerciali fossero ormai inevitabili, dall’altra c’erano invece coloro che non volevano assolutamente vedere i loro beniamini trasformati in una sorta di “cartelloni pubblicitari”. Il DFB mosse ancora remore ma in un campionato in cui i calciatori venivano equiparati allo status di semi-dilettanti, la prospettiva della proliferazione di pagamenti sottobanco fece presto alzare bandiera bianca alla Federazione, che dalla stagione successiva si vide costretta ad aprire le porte del calcio tedesco agli sponsor. Torniamo a Breitner. A 26 anni con l’esperienza di Madrid, stando alle previsioni, sarebbe tornato in Germania maturo e motivato. Günter Mast pagò in contanti la quota di trasferimento fissata a 1,6 milioni di marchi e il più grande colpo di mercato della stagione 1977/78 si realizzerà. Eppure la scelta di Breitner, che aveva fatto intendere di avere nostalgia di casa, si sarebbe rivelata assolutamente infelice. Paul firmerà un contratto di tre anni, sistemandosi in un bizzarro bungalow con la moglie e i due figli e si iscrisse alla Kant Universität per studiare pedagogia sociale, dando l'impressione di una permanenza a lungo termine. Ciò detto, dopo una sola annata fece le valigie per Monaco. I critici affermarono che il suo fosse un carattere troppo di spicco per questo piccolo club. Tutto ruotava intorno a Breitner: gli interessi, le attenzioni e le curiosità, tutto coinvolgeva la sua immagine a discapito del resto della squadra. Addirittura gli autobus turistici si fermavano davanti al suo strambo villino per fare fotografie. Un microcosmo di provincia, desueto e asfissiante per una stella di quel calibro e di quelle idee. Breitner, allora, si isolò, instaurando rapporti freddi e distaccati con i suoi colleghi. Non nacquero amicizie o legami, “Paule” non era uno facile da coinvolgere, era un solitario, e alla fine il muro che si creò compromise un potenziale successo trasformandolo in un nulla di fatto. Ma i proventi frutto di quell’amaro, fatto di 56 varietà di erbe, radici, frutti e spezie macerati in alcol, anche il libero pensatore di sinistra Paul Breitner sembrò gradirli soddisfatto.

 


 

 

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