mercoledì 28 aprile 2021

LICATA SCIATU MIO

 



I fiori sono posati sulla rimboccatura, veggenti. Li senti palpandoli con le dita. Vanno separati, riconosciuti. La zagara è il nome arabico dato al fiore d′arancio nella Sicilia saracena. L′appresi adolescente, sulla riva, dal mozzo d′una goletta durante una vacanza. Basta nominarla che se ne sente il profumo. Fra le sue fronde sonore, spuntano i boccioli, caparbi, duri. Qualcuno è chiuso, qualcuno è aperto, qualcuno mezzo aperto. Qualcuno è delicato, teme la carezza. L′odore è candido, acerbo, infantile, va cercato con le narici in mezzo alle foglie fresche e stillanti che ti inumidiscono il mento e ti entrano in bocca. La zagara, scrisse Elio Vittorini nelle sue “Conversazioni in Sicilia” è virginea e bianca come la sclera dell’occhio. Licata, l’ho conosciuta di sghembo, in tralice, la conservo gelosamente in un cassetto della memoria, così come la custodivano attenti i Fenici, i Greci, i Cartaginesi, i Romani e dopo i Bizantini, i Normanni, gli Arabi e ogni altro a seguire. Mi rivedo passeggiare in pantaloni chiari, corti, snodando vicoli e stradine strette, pertugi, piccole piazze e un’infinità di chiese; mentre nel preludio del pomeriggio d’agosto cercavo riparo dal caldo torrido nella penombra di bottegucce ricavate nella pietra in cui era ancora possibile ammirare l’arte del cucire le reti da pesca con tutto il loro fascino prezioso e integerrimo di una Sicilia antica e senza tempo. Il divertimento poi, a quell’età, si concentrava nella spiaggia sabbiosa e nell’acqua cristallina di un mare dove lo sguardo si perde nell’infinito blu del Mediterraneo. Rammento, eravamo sul declinare degli anni ottanta, e anche in questa ridente, ma non troppo, cittadina della provincia agrigentina il calcio faceva battere il cuore e sognare nelle notti leggere di scirocco, quelle che muovevano, in ogni terrazza, da quelle più proletarie vicino al porto a quelle più barocche, quasi goffe del centro, la stoffa di bandiere gialloblù. Persino nei tabernacoli di Sant’Angelo, insieme a tre fiori appassiti, s'appicicava di colla o di sudore la figurina di capitan Schifilliti, e nei bar, assediati di turisti, nell' effluvio di limonata e anice, spuntavano, appesi sulla vetrina lucida dietro al bancone, i poster della devozione laica. Ma per comprendere questa storia bisogna aver giocato almeno una volta su un campo di calcio in terra battuta, perché è qui che inizia l’avventura, la parabola del Licata fatto di ragazzi che oltre alla passione per il gioco avevano in comune un'altra cosa, molto importante, forse decisiva: l'ufficio anagrafe. Sono tutti siciliani, tutti nati sotto lo stesso sole, circondati dalle stesso mare, solamente smangiucchiati dagli angoli più o meno ruvidi delle inclinazioni dialettali, mutuando la sana stregua autarchia dell'Athletic Bilbao. E allora, in una zona che dopo la crisi dello zolfo si trovò frustrata da ancestrali problemi, una delle poche fonti di rivincita sociale diventerà il calcio dei picciotti di quel tecnico biondo e smilzo voluto dal presidente Giuseppe Alabiso, un boemo di nome  Zdenek Zeman, che fuma mille sigarette, ragiona per aforismi e negli allenamenti fa correre su e giù i suoi ragazzi sui gradoni sbreccati, stinti, dello stadio Liotta, un buco di calce e terra dove l’erba non vuol crescere e dove puoi solo intuire se quella domenica ti vestirai di fango o di polvere. Gnoffo, Campanella, Taormina, Schifilliti, De Cento, e il gracile, scaltro, Pippo Romano. Sarà questa l'ossatura di quel Licata, una squadra nata dalla libera interpretazione di un allenatore esordiente, sciamanico, che è riuscito a tirar fuori ogni requisito nascosto e vuol giocare all’olandese in una cittadina che al vespro sgrana il Rosario anziché le cartine di un coffee shop di Amsterdam. Eppure nessun passo indietro, nel 1985 il Licata sale la scaletta della C/2, la stravince, sbucando al piano di sopra, accompagnato nel suo incedere da terzini che spingono, da difensori centrali pronti a far scattare perennemente la trappola del fuorigioco, e una volta partito Zeman la favola continuerà con mister Aldo Cerantola, che a guardarlo bene pare capirci poco di cose del sud, è un veneto, e figuriamoci, nella prima esperienza in panchina ha allenato ancora più su, a Belluno. Arrivano una covata di palermitani, nati o di adozione: Salvatore Tarantino, Maurizio Miranda, il geometra Domenico Giacomarro e Angelo Consagra, Ciccio La Rosa (il Gigi Riva siciliano) oppure Tommaso Napoli che ha solo vent'anni, e Giovanni Sorce altro purissimo talento di beddamadre. Cerantola perfeziona i meccanismi, può contare sul centrale Baldacci (l'unico non isolano), capisce che si possono vincere anche le partite sporche. E signori, il Licata nel 1988 andrà in serie B, e poco importò alla gente di quei titoli sul giornale che dicevano "Platamone come Richelieu" riportando la notizia della solita distorta situazione politica regionale con le dimissioni del Dr. Carmelo Castiglione e la susseguente elezione a sindaco del democristiano Giovanbattista Platamone. Il calcio non si fermerà, ci mancherebbe, e così, dinanzi ad un folto pubblico, la Nazionale Militare il 23 marzo di quell’anno inaugura il nuovo Dino Liotta, finalmente ampliato e (minchia signor tenente) con tanto di manto erboso. La serie B si materializzò in afoso 5 di giugno, non certo una domenica normale da involtini e melanzane, alle 14 erano già tutti stipati dentro, e chi non era dentro ascoltava la partita alla radiolina, oppure al maxi schermo affisso come un Cristo in Via Argentina. A tifare Licata scesero da ogni parte d'Italia, dal Belgio, dalla Germania, un compendio di varie stazioni della vita, soprattutto le loro, gli emigranti, commossi dopo ore di treno o di auto, solo per esserci, solo per mostrare al mondo il proprio orgoglio vestito da una maglia gialla listata di blu. La partita decisiva con il Frosinone fu partita combattuta, mascula, assaporata in un clima denso di umori, una partita denudata dalla rete di La Rosa, che ogni pupo farà saltare, negli abbracci, fra baci rubati, e baci smarriti. Cerantola che un pò ci scherzava nell'assonanza con Cenerentola, fu preso in braccio, e finalmente anche lui, uomo del nord, si sciolse sotto quel cielo di maiolica dedicando la vittoria al figlio Dario nato da appena qualche ora. Ma io lo so, voi volete la Superlega e io, sciagurato invece ripenso a Pirandello, a Tomasi di Lampedusa a Camilleri, al bomber La Rosa e al profumo degli aranceti in quell’estate bellissima di lucciole e pistacchio. Licata “Sciatu Mio”.

martedì 27 aprile 2021

LA MODA DEL PAISLEY


Ok c’è di mezzo una semifinale, lo sappiamo. In ogni caso l’ultima volta che il Saint Mirren raggiunse l’atto conclusivo di una Coppa di Scozia era il 1987. Mai più successo, al punto che perfino nella cittadina avevano smesso di crederci e nel 2017, a trent’anni esatti dalla ricorrenza, convocarono di tutta fretta un artista di strada, Mark Worst, e gli misero a disposizione un muro di Brown’s Lane per fargli disegnare l’immagine della squadra che sconfisse il Dundee United a Hampden 1-0 con una rete di Ian Ferguson ovviamente ritratto nell’opera insieme agli altri compagni con l’aggiunta di due giocatori di cui il Worst tifoso si era innamorato da bambino: Jackie Copland e Chick Young. Oh, chiariamo la nudità del concetto per i non addetti ai lavori: il Saint Mirren non è Saint Mirren. Viceversa il Saint Mirren è Paisley, un arcano piuttosto semplice da girare sul tavolo poiché il club dei “buddies” (commilitoni o compari) spunterà da una costola di una società di cricket, quando tutti i giovanotti di buona famiglia si chiamavano gentiluomini, anche se non lo erano affatto, e per il loro club mutuarono il nome dal santo patrono locale svezzato nell’abbazia irlandese di Bangor. Paisley sfugge alla linguaccia di Glasgow per puro istinto morfologico, cercando una sorta di salvezza catastale sporgendosi verso l’insenatura stretta del Clyde dove il vento sembra spingere le nubi più velocemente rispetto ad altri luoghi, è ciò permette al sole di illuminare con maggiore clemenza questa città, attraversata dalle acque scure del profluvio Cart. Il pub da segnare sull’agenda è tutto un programma: The Wallace in Causeyside Street. Si cede immediatamente ogni ormeggio davanti a una pinta di Tennent’s (spillata a pompa non a gas, Dio li benedica) dalle venature ramate con una schiumetta leggera pronta a svanire come un piccolo prodigio. L’esterno è di un blu anticato, dentro elegante, arioso, con il bancone in legno, le luci smorzate, i tavolini quadrati, e divanetti imbottiti con la seduta in pelle fissata da chiodi d’ottone dalla testa semisferica. Non ci sono i vetri istoriati, e qualcos’altro di troppo moderno si nota, ma alla fine sono peccati veniali e comunque basta non farci caso. La tappezzeria rende tributo (e vorrei vedere il contrario...) al tessuto storico del toponimo: “Paisley”. Si tratta di una stoffa dal disegno orientaleggiante che rappresenta il germoglio della palma da dattero. Il decadentismo del XIX secolo se ne innamorò follemente regalando notorietà e lavoro alle industrie tessili della zona. Bevete la birra appoggiando delicatamente il bicchiere alle labbra come per un tenero bacio, citando maldestramente il bardo. In fondo se si vuole conoscere il Saint Mirren è obbligatorio ricercare residui del vecchio Love Street. Nessun Indiana Jones, trattasi di una banale tappa di raccoglimento obbligata a ricordo del terreno che ha benedetto le gesta dei “buddies” per 115 lunghi anni. Curioso magari sapere che Jim Morrison scrisse una canzone con questo titolo nel 1968 proprio quando il Saint Mirren vinse il campionato di seconda divisione trascinato dalle reti di Peter Kane. Nel 2007 (affaruccio) la terra fu venduta alla Tesco per la creazione di un supermercato e con i proventi il St. Mirren si è rifatto l’abito costruendosi un nuovo impianto qualche miglia più a ovest. Scivolando nell’aneddoto possiamo garantire che la maglia d’esordio del club presentava tonalità blu- scarlatto, finché nel 1883 si passò alle strisce bianconere, dapprima orizzontali, in seguito verticali. Ecco, se non ci sono dubbi sull’ anno del mutamento cromatico, resta una disputa sul motivo della modifica. Una teoria sostiene che le strisce rappresentino l’unione dei fiumiciattoli che attraversano l’abitato, il “White Cart” e il “Black Cart”. Negli ultimi anni, tuttavia, si è fatta strada l’ipotesi monastica legata all’abbazia cluniacense eretta a due passi dai corsi d’acqua. Infatti l’abito talare dell’ordine reca esattamente questa tinta. Ma andiamo al 1987 attraverso una specie di grandangolo privilegiato dove si vede, seppure immancabilmente sfocato dal tubo catodico del periodo, il St. Mirren di Alex Smith, occhi a fessura e sorrisetto malinconico, nato a Cowie, un villaggio annerito di minatori, altrettanto anneriti, nei pressi di Stirling. Nel dicembre del 1986, a stagione in corso, approda quindi a Love Street. Sembrava una stagione da consegnare agli annuali senza niente di speciale da segnalare. Le notizie più importanti che caratterizzavano le discussioni nei pub di Paisley erano sostanzialmente due, anzi tre. Il governo di Margaret Thatcher che annunciava la famigerata poll tax, la curiosità per l’arrivo di Smith, infine i 3 cartellini rossi rimediati da Billy Abercromby in una partita di campionato con il Motherwell che gli valsero ben 12 giornate di squalifica. Episodio disdicevole per un giocatore che in pratica ha regalato tutta la sua carriera a questo club ma evidentemente tenutario di qualche piccolo problemino caratteriale se si considera che negli anni successivi sarà purtroppo coinvolto in pesanti problemi di alcolismo. Alex Smith ebbe la capacità di leggere dentro la testa del ragazzo e di riportarlo alla tranquillità. Abercromby era un centrocampista nerboruto dal baffetto accennato che in virtù dei regolamenti delle carte federali avrebbe potuto essere schierato in coppa e la cosa ripagò le attenzioni del manager con prestazioni di ottimo livello. Occorre spendere qualche altro nome per far girare meglio il Juke Box di quei Saints al ritmo di: “The Buddies Came Roaring Back”: Kenny McDowall, Paul Chalmers, Peter Godfrey (centrocampista con una vaga assomiglianza con l’attore Peter Sellers), il già citato, “ossigenatissimo”, Ian Ferguson, e Frank McGarvey. La storia di McGarvey va appuntata al cancello di Love Street. I suoi ricci ribelli, il suo dispotico destro, avevano incominciato qui la carriera prima che un altro Paisley, nel 1979, vale a dire Bob, l’allenatore del Liverpool si infatuerà del ragazzo portandolo ad Anfield per 270000 sterline. Al Liverpool però McGarvey non troverà il giusto spazio in mezzo a tanti, troppi campioni e dopo dieci mesi stagnanti sulla Mersey tornerà in Scozia al Celtic. Cinque anni a Parkhead e 78 sigilli, poi nel 1985 rieccolo là dove tutto era iniziato. Billy Abercrombie fu il capitano che accompagnò in campo i ragazzi di Alex Smith il 16 maggio 1987 all’Hampden Park di fronte a 51782 spettatori. Maglia bianca con impercettibili striscioline nere e sponsor rosseggiante della ditta “Clydeside”. L’incontro si trascinò abbastanza scarno di emozioni fino ai supplementari. E in quella mezzoretta di passione, mentre sulla BBC2 i Simple Minds cantavano in diretta “Live in the City of Light” guadagnando la vetta della hit parade, Ferguson sparerà un bolide su cui il portiere del Dundee United Billy Thompson onestamente non potette opporsi. St. Mirren 1- Dundee United 0. E’ tempo di riprovarci.
 

 

 


 

lunedì 26 aprile 2021

LA QUESTIONE RUSSA




Pilade era un tipo canuto, magro, dal sorriso accorto, ma era stato un combattente, un militante e uno zio presente. Ti squadrava con i suoi occhi chiari, accentuando sul volto uno zigzagante cifrario di rughe accompagnato dal disincanto tipico degli anziani di una volta, che avevano visto tutto e il contrario di tutto al ritmo del destino. Lui a Mosca c’era stato. Due volte. In entrambe le occasioni al seguito delle celeberrime gite politico-culturali indette dalla locale sezione del Partito Comunista. Ci teneva a rimarcarlo, anche se nell’ultima occasione tornò perplesso poichè pareva che qualcosa stesse incominciando a sfaldarsi, lassù come quaggù. Nel giugno del 1988, in concomitanza con l’apertura degli europei di calcio in Germania, venne nominato segretario del PCI italiano Achille Occhetto, un torinese rapito emotivamente in adolescenza dai comizi di Umberto Terracini, portava un paio di occhiali spessi, un pinzetto da congresso emendato e una voce un po’ in falsetto. Nel frattempo Mikhail Gorbaciov aveva sostituito Konstantin Černenko a capo di un Unione Sovietica attraversata da una crisi senza precedenti. Durante la complessa segreteria di Occhetto iniziò un grande dibattito interno al partito sul rinnovamento, iniziando dal nome e dalla parola “comunista”. Eppure, nelle stanze del nostro Circolo ARCI tutto sembrava invariato, i tavolini in formica colorata, le sedie di plastica dura, i mazzi di carte da briscola disposti su un piccolo alloggiamento di legno sistemato nei pressi del bancone, le corse domenicali per accaparrarsi almeno uno dei due biliardi disponibili, il caffè corretto con la sambuca, il quadretto di Antonio Gramsci alla parete protetta da un tremendo cartone pressato, la saletta da lettura con l’Unità aperta su una pagina a caso, e infine nell’angolo controluce, il mobiletto rustico con la televisione a colori, che dopo la diretta dei funerali di Berlinguer, quasi a rimarcare la disillusione indotta dalla dipartita dell’amatissimo Enrico, veniva accesa soltanto per Novantesimo Minuto, i Mondiali di calcio, e qualche tappone di ciclismo, in un vorticare di fumo, qualche bestemmia di troppo insieme a gare di lancio degli incarti Sammontana nei cestini. Certo, schioccava anche il calciobalilla, (anzi il "biliardino", perchè balilla diciamo era termine bandito dal vocabolario) onestamente preda dei ragazzi, una palestra per muscoli, riflessi e fitto di contestazioni continue, al punto che venne stabilito un regolamento per evitare il minimo accenno di zuffa. Ecco, nei paesi toscani degli anni ottanta il mondo gravitava intorno al suo monolite ricreativo, ignaro che dopo quarant’anni tutto si stava per spezzare, per trasfigurarsi in qualcosa di non comprensibile ai più anziani, e quando l’Italia allenata da Azeglio Vicini conquistò le semifinali degli Europei, il giro di destino gli accoppiò beffardamente l’Unione Sovietica del pallone, quella griffata dalla scritta in cirillico CCCP sulle maglie, la falce e il martello cucite sul cuore, in un refolo di vento, dannatamente sciroccato dalla perestroika. Pilade, fu uno che ci aveva creduto. Alla Rivoluzione dico, lui e Sergio, un uomo dai tratti morbidi, puliti, sui settanta, serioso quanto basta, con la canottiera bianca fissa in nei lunghi pomeriggi d'estate e alla sera una camiciola leggera aperta sul davanti a non nascondere affatto una discreta pancetta esposta con totale noncuranza dello stile, poichè lo stile, diceva lui, è essere come siamo e non nasconderci dietro le mille ipocrite maschere di questa insensata società odierna dell’apparire. Loro stavano con Pietro Secchia, mica con Togliatti, e quando nemmeno dopo l’attentato “il migliore” non dette il via libera all’insurrezione armata, ebbero molto da ridire, poi malcelatamente delusi si adeguarono alle cose affinché le stesse andassero alla maniera disposta, e se Secchia, dopo la vana occupazione della prefettura milanese con la cosiddetta "Volante Rossa", si chiuse in un attico bolognese a dipingere quadri, Pilade e Sergio si consolarono con le bocce e con l’orto, perchè quando le stagioni facevano le stagioni, i carciofi ti arrivavano alle cintura, i pomodori spuntavano in quantità industriale e Maramao mica sarebbe morto per mancanza di insalata. La discussione, persino brusca, nacque intorno al bancone dopo il classico Campari mischiato alla dose esatta di vino bianco fermo o di un amaro Montenegro. Intanto giugno esplodeva di caldo, i tigli stampavano ombre lunghe sull'asfalto e qualcuno già se ne stava sotto l’ombrellone a Follonica oppure a Castiglione della Pescaia con la radiolina, appoggiata fra la Gazzetta dello Sport e la Lemonsoda, che elargiva a intervalli regolari la voce inconfondibile di Anna Oxa e quella profonda, spruzzata di partenopeo, di Massimo Ranieri fresco vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo con “Perdere l’Amore”. Il tema del contendere fu il seguente: Pilade e Sergio avrebbero tifato per la Russia, non c’era verso di convincerli sull'idea di patriottismo privo di socialismo o cose simili; sarà stata la nostalgia del fervore delle Internazionali perdute, di quando appendevano clandestinamente su muri le affissioni elettorali con l'insindacabile dicitura “Vota Comunista” (quelle col simbolo disegnato da Guttuso), o delle nottate trascorse nei boschi da partigiani durante la guerra con in tasca il libretto spiegazzato del “che fare” di Lenin e uno di preghiere con la "madonnina delle grazie" da indulgenza plenaria, ben nascosto all'interno degli stivali. Pilade e Sergio non avevano fatto una piega di fronte ai fatti d’Ungheria e di Praga, nemmeno si distanziarono dal cosiddetto dossier "Mitrokhin". Un affaruccio da circa ventitré milioni di dollari, corrisposti nel giardino della villa dell'ambasciata dell'URSS a Roma nelle mani di Anelito Barontini, funzionario del partito e uomo di fiducia di Armando Cossutta che sovraintendeva al flusso finanziario. E poi oh, nel 1976 il PCI raggiunse il suo massimo storico elettorale, roba grossa, un mezzo prodigio, risfiorato nel 1984 dopo la morte di Berlinguer in quell'atmosfera sospesa dalle lacrime, dai pugni chiusi, dai due milioni di persone arrivate in Piazza San Giovanni con le bandiere e i labari di sezione, che ispirarono il “Dolce Enrico” di Antonello Venditti. Chiaro, ai due, apparentemnte duri e puri, Berlinguer appariva uomo leale ma pure un mezzo burocrate con la fissa dell’eurocomunismo, del famoso ombrello NATO, dal quale il PCI ricevette una serie di mazzate mica da ridere, una sequela di sconfitte politiche e di fallimentari trovate, dalla disastrosa gestione della lotta alla FIAT nell’autunno del 1980, alla micidiale sconfitta nel testardamente voluto referendum in difesa della scala mobile, alla improvvisa scoperta della questione morale. Di sicuro c’era che il comunismo italiano nel dopoguerra divenne il cinema neorealista, la Costituzione, gli operai di Sesto San Giovanni, le maestrine di Reggio Emilia, i braccianti uccisi dalla mafia, gli intellettuali tormentati con gli occhialini, i cineforum e le goderecce feste dell’Unità, mica le parate militari sulla Piazza Rossa. Va da sé che il cordone ombelicale con Mosca esisteva e di conseguenza il Partito cominciò a risentirne, a stare male, e la base peggio. Ma se l’Unione Sovietica di quell’ingrugnito, strambo, incartapecorito, allenatore ucraino da colbacco avesse vinto l’Europeo forse sull'onda del successo sportivo si poteva recuperare, forse c’era ancora una superficie disegnata, sia pure su deboli coordinate cartesiane, utile per ritrovare coesione e tessere fresche, e, a quel punto, la stella issata sul Cremlino sarebbe ritornata a brillare, decretando nuovamente il suo primato come fece Jurij Gagarin, quel giorno nello spazio. D'altro canto l’Unione Sovietica di Valery Lobanovsky aveva una visione per certi aspetti rivoluzionaria: “I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo”, scriveva Karl Marx nelle sue Tesi su Feuerbach. Il "calcio del futuro", del Colonnello, sbuffava nel becco bunsen da laboratorio, meno erboristico di quello olandese, ma altrettanto frizzante e veloce. Lobanovsky, che da ragazzo voleva fare l’idraulico, stabilì rapporti calcolati con il gruppo della nazionale, vedendo nel suo approccio distaccato, efficienza e pragmatismo utili a incutere il massimo rispetto da parte dello spogliatoio e, in definitiva, appariva l’aspetto più importante per lui. Una zona a tutto campo libera dalla schiavitù dei ruoli, permissiva nelle sortite offensive delegate a difensori efficaci, uniti a ottimi ripiegamenti degli uomini d’attacco al momento del bisogno. Un moto perpetuo che rese l’URSS la migliore formazione della prima fase del Mondiale 1986, forse la più seria candidata al titolo, più della Germania Ovest, dell’Argentina, troppo dipendente da Maradona, e della Francia di Platini incostante negli appuntamenti importanti. I nomi di quella squadra (in un travaso fisiologico con la Dinamo Kiev) iniziavano a diventare familiari, perché da oltre cortina filtravano voci insistenti sulla possibilità di mandarli a giocare all’estero. L’icona Rinat Dasaev fra i pali, Protassov, Zavarov, Belanov, Alejnikov, Litovchenko e il sontuoso regista difensivo Kuznetsov. I sovietici in Germania furono addirittura lasciati liberi di parlare e sembravano sinceramente contenti della politica della trasparenza di Gorbaciov. L’ufficio stampa faceva filtrare di buon grado notizie sugli hobby e le abitudini dei pomeriggi in ritiro, trascorsi a guardare videoclip di Michael Jackson sulla televisione tedesca. E così persino Sergio e Pilade scoprirono che Alexander Zavarov era un appassionato di scacchi e pensa te, ascoltava i "Ricchi e Poveri", mentre Belanov preferiva Adriano Celentano. La sera della partita in diretta rigorosa su RAI 1 con il commento strascicato di Bruno Pizzul da Cormons, al Circolo Arci si creò un effetto stranissimo da piccolo teatrino di provincia con la maggioranza intenta a cantare l’Inno di Mameli e la corrente minoritaria, capeggiata dai due pro-URSS, divisi dal resto dei presenti da un paio di quei tavolinetti bassi, superflui, che andavano tanto di moda in quei bizzarri anni ottanta da bere, un po’ paninari, un pochino da tempo delle mele, parecchio da inflazione ma chi se ne fregava. A Stoccarda l’Italia cedette il passo ai più esperti russi. A cavallo dell’ora di gioco Litovchenko infilerà Zenga e gli azzurri non ebbero nemmeno il tempo di metabolizzare il colpo che giunse inesorabile il raddoppio griffato Protasov. La polemica al Circolo finì a notte fonda, ben oltre l’orario di chiusura decretato da Statuto alla mezzanotte. Per carità, ci penserà l’Olanda a tirare giù il muro di Berlino, a chiudere il Circolo e il secolo breve, e ogni ideologia, di sinistra o di destra, tentò di arrampicarsi come onirica edera su macerie sbreccate. Ogni tanto Pilade e Sergio vado a trovarli al cimitero. Duri sì, ma c’era pure molta avanguardia, tanta sana commedia all’italiana, tanto Peppone e Don Camillo, e infatti, neanche tanto di nascosto, il prete del paese si vedeva recapitare in sagrestia qualche lepre e qualche bel sacchetto di baccelli e di formaggio. E ben sapeva chi era stato a metterglieli di volata sotto il quadretto di San Lorenzo in graticola, e alle esequie, in due puntuali pomeriggi grigi di pioggia, lui era più commosso del compagno issante il vecchio gagliardetto della sezione, perché nei piccoli paesi, in fondo, eravamo amici a prescindere e il sacro sempre, si sposava con il profano, nonostante le apparenze e le distanze dovute dalla rispettiva coccarda.

 

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...