I fiori sono posati sulla
rimboccatura, veggenti. Li senti palpandoli con le dita. Vanno separati,
riconosciuti. La zagara è il nome arabico dato al fiore d′arancio nella Sicilia
saracena. L′appresi adolescente, sulla riva, dal mozzo d′una goletta durante
una vacanza. Basta nominarla che se ne sente il profumo. Fra le
sue fronde sonore, spuntano i boccioli, caparbi, duri. Qualcuno è chiuso, qualcuno è aperto,
qualcuno mezzo aperto. Qualcuno è delicato, teme la carezza. L′odore è candido,
acerbo, infantile, va cercato con le narici in mezzo alle foglie fresche e
stillanti che ti inumidiscono il mento e ti entrano in bocca. La zagara, scrisse
Elio Vittorini nelle sue “Conversazioni in Sicilia” è virginea e bianca come la
sclera dell’occhio. Licata, l’ho conosciuta di sghembo, in tralice,
la conservo gelosamente in un cassetto della memoria, così come la custodivano
attenti i Fenici, i Greci, i Cartaginesi, i Romani e dopo i Bizantini, i Normanni, gli Arabi e ogni altro a seguire. Mi rivedo passeggiare in pantaloni chiari, corti, snodando vicoli e stradine strette, pertugi, piccole piazze e un’infinità di
chiese; mentre nel preludio del pomeriggio d’agosto cercavo riparo dal caldo torrido nella penombra di bottegucce ricavate nella pietra in cui era ancora possibile
ammirare l’arte del cucire le reti da pesca con tutto il loro fascino prezioso e integerrimo di una
Sicilia antica e senza tempo. Il divertimento poi, a quell’età, si concentrava nella spiaggia sabbiosa
e nell’acqua cristallina di un mare dove lo sguardo si perde nell’infinito blu del Mediterraneo. Rammento, eravamo sul declinare degli anni ottanta, e anche in
questa ridente, ma non troppo, cittadina della provincia agrigentina il calcio faceva battere
il cuore e sognare nelle notti leggere di scirocco, quelle che muovevano, in ogni terrazza, da quelle più
proletarie vicino al porto a quelle più barocche, quasi goffe del centro,
la stoffa di bandiere gialloblù. Persino nei tabernacoli di Sant’Angelo, insieme a tre fiori appassiti, s'appicicava di colla o di sudore la figurina di capitan
Schifilliti, e nei bar, assediati di turisti, nell' effluvio di limonata e anice,
spuntavano, appesi sulla vetrina lucida dietro al bancone, i poster della devozione laica. Ma per
comprendere questa storia bisogna aver giocato almeno una volta su un campo di
calcio in terra battuta, perché è qui che inizia l’avventura, la parabola del
Licata fatto di ragazzi che oltre alla passione per il gioco avevano in comune un'altra
cosa, molto importante, forse decisiva: l'ufficio anagrafe. Sono tutti siciliani, tutti nati sotto
lo stesso sole, circondati dalle stesso mare, solamente smangiucchiati dagli angoli più o meno ruvidi delle inclinazioni dialettali, mutuando la sana stregua autarchia dell'Athletic Bilbao. E allora, in una zona che dopo la
crisi dello zolfo si trovò frustrata da ancestrali problemi, una delle poche fonti di
rivincita sociale diventerà il calcio dei picciotti di quel tecnico biondo e smilzo voluto dal presidente Giuseppe Alabiso,
un boemo di nome Zdenek
Zeman, che fuma mille sigarette, ragiona per aforismi e negli allenamenti fa
correre su e giù i suoi ragazzi sui gradoni sbreccati, stinti, dello stadio
Liotta, un buco di calce e terra dove l’erba non vuol crescere e dove puoi solo
intuire se quella domenica ti vestirai di fango o di polvere. Gnoffo, Campanella,
Taormina, Schifilliti, De Cento, e il gracile, scaltro, Pippo Romano. Sarà
questa l'ossatura di quel Licata, una squadra nata dalla libera interpretazione
di un allenatore esordiente, sciamanico, che è riuscito a tirar fuori ogni requisito
nascosto e vuol giocare all’olandese in una cittadina che al vespro sgrana il Rosario
anziché le cartine di un coffee shop di Amsterdam. Eppure nessun passo indietro,
nel 1985 il Licata sale la scaletta della C/2, la stravince, sbucando al piano di sopra, accompagnato nel suo incedere da
terzini che spingono, da difensori centrali pronti a far scattare perennemente la
trappola del fuorigioco, e una volta partito Zeman la favola continuerà con mister Aldo Cerantola, che a
guardarlo bene pare capirci poco di cose del sud, è un veneto, e
figuriamoci, nella prima esperienza in panchina ha allenato ancora più su, a
Belluno. Arrivano una covata di palermitani, nati o di adozione: Salvatore Tarantino,
Maurizio
Miranda, il geometra Domenico Giacomarro e Angelo Consagra, Ciccio La Rosa (il
Gigi Riva siciliano) oppure Tommaso Napoli che ha solo vent'anni, e Giovanni
Sorce altro purissimo talento di beddamadre. Cerantola perfeziona
i meccanismi, può contare sul centrale Baldacci (l'unico non isolano), capisce
che si possono vincere anche le partite sporche. E signori, il Licata nel 1988
andrà in serie B, e poco importò alla gente di quei titoli sul giornale che dicevano "Platamone
come Richelieu" riportando la notizia della solita distorta situazione
politica regionale con le dimissioni del Dr. Carmelo Castiglione e la
susseguente elezione a sindaco del democristiano Giovanbattista Platamone. Il calcio
non si fermerà, ci mancherebbe, e così, dinanzi ad un folto pubblico, la Nazionale Militare il 23
marzo di quell’anno inaugura il nuovo Dino Liotta, finalmente ampliato e (minchia signor tenente) con
tanto di manto erboso. La serie B si materializzò in afoso 5 di giugno, non certo una
domenica normale da involtini e melanzane, alle 14 erano già tutti stipati dentro, e chi non era dentro ascoltava la
partita alla radiolina, oppure al maxi schermo affisso come un Cristo in Via Argentina. A tifare Licata
scesero da ogni parte d'Italia, dal Belgio, dalla Germania, un compendio di varie stazioni della vita, soprattutto le loro, gli emigranti, commossi dopo ore di treno o di auto, solo per esserci, solo per mostrare al mondo il proprio
orgoglio vestito da una maglia gialla listata di blu. La partita decisiva con il Frosinone fu partita
combattuta, mascula, assaporata in un clima denso di umori, una partita denudata dalla rete di
La Rosa, che ogni pupo farà saltare, negli abbracci, fra baci rubati, e baci smarriti. Cerantola che un pò ci scherzava nell'assonanza con Cenerentola, fu preso in braccio, e
finalmente anche lui, uomo del nord, si sciolse sotto quel cielo di
maiolica dedicando la vittoria al figlio Dario nato da appena qualche ora. Ma io lo so, voi volete
la Superlega e io, sciagurato invece ripenso a Pirandello, a Tomasi di Lampedusa a Camilleri,
al bomber La Rosa e al profumo degli aranceti in quell’estate bellissima di lucciole e
pistacchio. Licata “Sciatu Mio”.
mercoledì 28 aprile 2021
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