mercoledì 28 aprile 2021

LICATA SCIATU MIO

 



I fiori sono posati sulla rimboccatura, veggenti. Li senti palpandoli con le dita. Vanno separati, riconosciuti. La zagara è il nome arabico dato al fiore d′arancio nella Sicilia saracena. L′appresi adolescente, sulla riva, dal mozzo d′una goletta durante una vacanza. Basta nominarla che se ne sente il profumo. Fra le sue fronde sonore, spuntano i boccioli, caparbi, duri. Qualcuno è chiuso, qualcuno è aperto, qualcuno mezzo aperto. Qualcuno è delicato, teme la carezza. L′odore è candido, acerbo, infantile, va cercato con le narici in mezzo alle foglie fresche e stillanti che ti inumidiscono il mento e ti entrano in bocca. La zagara, scrisse Elio Vittorini nelle sue “Conversazioni in Sicilia” è virginea e bianca come la sclera dell’occhio. Licata, l’ho conosciuta di sghembo, in tralice, la conservo gelosamente in un cassetto della memoria, così come la custodivano attenti i Fenici, i Greci, i Cartaginesi, i Romani e dopo i Bizantini, i Normanni, gli Arabi e ogni altro a seguire. Mi rivedo passeggiare in pantaloni chiari, corti, snodando vicoli e stradine strette, pertugi, piccole piazze e un’infinità di chiese; mentre nel preludio del pomeriggio d’agosto cercavo riparo dal caldo torrido nella penombra di bottegucce ricavate nella pietra in cui era ancora possibile ammirare l’arte del cucire le reti da pesca con tutto il loro fascino prezioso e integerrimo di una Sicilia antica e senza tempo. Il divertimento poi, a quell’età, si concentrava nella spiaggia sabbiosa e nell’acqua cristallina di un mare dove lo sguardo si perde nell’infinito blu del Mediterraneo. Rammento, eravamo sul declinare degli anni ottanta, e anche in questa ridente, ma non troppo, cittadina della provincia agrigentina il calcio faceva battere il cuore e sognare nelle notti leggere di scirocco, quelle che muovevano, in ogni terrazza, da quelle più proletarie vicino al porto a quelle più barocche, quasi goffe del centro, la stoffa di bandiere gialloblù. Persino nei tabernacoli di Sant’Angelo, insieme a tre fiori appassiti, s'appicicava di colla o di sudore la figurina di capitan Schifilliti, e nei bar, assediati di turisti, nell' effluvio di limonata e anice, spuntavano, appesi sulla vetrina lucida dietro al bancone, i poster della devozione laica. Ma per comprendere questa storia bisogna aver giocato almeno una volta su un campo di calcio in terra battuta, perché è qui che inizia l’avventura, la parabola del Licata fatto di ragazzi che oltre alla passione per il gioco avevano in comune un'altra cosa, molto importante, forse decisiva: l'ufficio anagrafe. Sono tutti siciliani, tutti nati sotto lo stesso sole, circondati dalle stesso mare, solamente smangiucchiati dagli angoli più o meno ruvidi delle inclinazioni dialettali, mutuando la sana stregua autarchia dell'Athletic Bilbao. E allora, in una zona che dopo la crisi dello zolfo si trovò frustrata da ancestrali problemi, una delle poche fonti di rivincita sociale diventerà il calcio dei picciotti di quel tecnico biondo e smilzo voluto dal presidente Giuseppe Alabiso, un boemo di nome  Zdenek Zeman, che fuma mille sigarette, ragiona per aforismi e negli allenamenti fa correre su e giù i suoi ragazzi sui gradoni sbreccati, stinti, dello stadio Liotta, un buco di calce e terra dove l’erba non vuol crescere e dove puoi solo intuire se quella domenica ti vestirai di fango o di polvere. Gnoffo, Campanella, Taormina, Schifilliti, De Cento, e il gracile, scaltro, Pippo Romano. Sarà questa l'ossatura di quel Licata, una squadra nata dalla libera interpretazione di un allenatore esordiente, sciamanico, che è riuscito a tirar fuori ogni requisito nascosto e vuol giocare all’olandese in una cittadina che al vespro sgrana il Rosario anziché le cartine di un coffee shop di Amsterdam. Eppure nessun passo indietro, nel 1985 il Licata sale la scaletta della C/2, la stravince, sbucando al piano di sopra, accompagnato nel suo incedere da terzini che spingono, da difensori centrali pronti a far scattare perennemente la trappola del fuorigioco, e una volta partito Zeman la favola continuerà con mister Aldo Cerantola, che a guardarlo bene pare capirci poco di cose del sud, è un veneto, e figuriamoci, nella prima esperienza in panchina ha allenato ancora più su, a Belluno. Arrivano una covata di palermitani, nati o di adozione: Salvatore Tarantino, Maurizio Miranda, il geometra Domenico Giacomarro e Angelo Consagra, Ciccio La Rosa (il Gigi Riva siciliano) oppure Tommaso Napoli che ha solo vent'anni, e Giovanni Sorce altro purissimo talento di beddamadre. Cerantola perfeziona i meccanismi, può contare sul centrale Baldacci (l'unico non isolano), capisce che si possono vincere anche le partite sporche. E signori, il Licata nel 1988 andrà in serie B, e poco importò alla gente di quei titoli sul giornale che dicevano "Platamone come Richelieu" riportando la notizia della solita distorta situazione politica regionale con le dimissioni del Dr. Carmelo Castiglione e la susseguente elezione a sindaco del democristiano Giovanbattista Platamone. Il calcio non si fermerà, ci mancherebbe, e così, dinanzi ad un folto pubblico, la Nazionale Militare il 23 marzo di quell’anno inaugura il nuovo Dino Liotta, finalmente ampliato e (minchia signor tenente) con tanto di manto erboso. La serie B si materializzò in afoso 5 di giugno, non certo una domenica normale da involtini e melanzane, alle 14 erano già tutti stipati dentro, e chi non era dentro ascoltava la partita alla radiolina, oppure al maxi schermo affisso come un Cristo in Via Argentina. A tifare Licata scesero da ogni parte d'Italia, dal Belgio, dalla Germania, un compendio di varie stazioni della vita, soprattutto le loro, gli emigranti, commossi dopo ore di treno o di auto, solo per esserci, solo per mostrare al mondo il proprio orgoglio vestito da una maglia gialla listata di blu. La partita decisiva con il Frosinone fu partita combattuta, mascula, assaporata in un clima denso di umori, una partita denudata dalla rete di La Rosa, che ogni pupo farà saltare, negli abbracci, fra baci rubati, e baci smarriti. Cerantola che un pò ci scherzava nell'assonanza con Cenerentola, fu preso in braccio, e finalmente anche lui, uomo del nord, si sciolse sotto quel cielo di maiolica dedicando la vittoria al figlio Dario nato da appena qualche ora. Ma io lo so, voi volete la Superlega e io, sciagurato invece ripenso a Pirandello, a Tomasi di Lampedusa a Camilleri, al bomber La Rosa e al profumo degli aranceti in quell’estate bellissima di lucciole e pistacchio. Licata “Sciatu Mio”.

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