giovedì 30 settembre 2021

L' ISOLA CHE NON GUERNSEY



Il fatto che il capitano di marina William Colbin si districasse così egregiamente in quel perfido e brumoso corridoio di mare, faceva una certa impressione all’uomo seduto a bordo del battello a vapore, appartenente alla compagnia "Durande", partito da Saint-Malo alle sette in punto di quella mattina sotto un cielo nascosto dalla foschia. Dissolto l’ultimo velo di nebbia e superata l’ultima cresta d’onda, le scogliere dell’isola, a cui l’unico passeggero era destinato, incominciarono a mostrarsi insieme al minuscolo porto di Saint Peter con le sue casette di legno colorato addossate, in un appiglio quasi morboso, alla vecchia torre normanna che fungeva da faro, dove, illuminata dalla luce giallastra, intermittente e gassosa della lanterna, garriva lacerata dai venti una bandiera britannica.
In breve l’imbarcazione attraccò al molo brulicante di pescatori intenti a rigettare in traballanti barchette le loro reti appena svuotate. Solo un signore, alto e ben vestito, sembrava attendere nervosamente l’arrivo del traghetto. Il 31 ottobre del 1855 un uomo dall'aria modesta e un po' trascurata con un faccione bonario ornato da una folta barba brizzolata sbarcava sull'isola di Guernsey per sfuggire alle patrie galere a causa della sua ferma e dura presa di posizione nei confronti della repressione voluta da Napoleone III. Incominciava l’esilio di Victor Hugo a Guernsey, un esilio lunghissimo, durato ben quindici anni. Guernsey è un’isola strana: gli abitanti sono inglesi senza volerlo e francesi senza saperlo. E tuttavia, se casomai qualcuno di loro lo intuisse ci terrebbe a dimenticarlo in fretta. Politicamente il territorio è un protettorato della Corona inglese, seppure si trovi molto più vicino alla costa francese. Insieme alle consorelle del comprensorio gode di un ampia autonomia giudiziaria e amministrativa. Ha perfino un parlamento, un bilinguismo storicamente accettato e un proprio conio che imprime sulla moneta il profilo austero di Elisabetta ma vi scrive accanto: State of Guernsey. Gli isolani inoltre, da antico decreto legislativo, non possono essere chiamati a prestare sevizio militare a meno che la suddetta Regina in persona non venga catturata oppure l’Inghilterra invasa. Che dire? Al di là di qualcuno che possa progettare il sequestro di Sua Maestà, dopo la sfuriata vincente di Guglielmo, gli altri tentativi più o meno accertati da parte di Bonaparte e Hitler sono ampiamente naufragati e allora, adesso, diciamo che sull'isola dormono sonni abbastanza tranquilli. Luogo bizzarro questo, che si dibatte da secoli fra "Yes" e "Oui" mentre i suoi scogli si allargano e si restringono ogni sei ore per l’influsso delle alte e basse maree. Insomma Guernsey è un pezzettino di Francia perduto in mezzo alla Manica raccolto dall’Inghilterra attraverso trattati e donazioni. Un isolotto dal clima talmente infausto che ogni tanto sul campo da calcio di Footes Lane sono costretti a far volteggiare un elicottero per agevolare l'asciugatura del terreno ridotto ad acquitrino dalle piogge. Successe per esempio il 23 marzo del 2013 quando il Guernsey Football Club ospitò nella gara d'andata della semifinale del sentitissimo torneo per squadre amatoriali riservato agli ultimi 3 gradini della Piramide detto "Vase", lo Spennymoor Town, sceso dalla lontana contea mineraria di Durham. Non andò particolarmente bene, i "moors" si imposero per 3-1 e solo ad onor di bandiera contò la rete del provvisorio pareggio siglata da Dominic Heaume che aveva fatto esultare i 4290 accorsi intorno al rettangolo del "Lane" nella speranza di un memorabile viaggio a Wembley. A nulla valsero le utopie rivolte alla partita di ritorno, lassù a 500 miglia da casa, arrivò un'altra sconfitta, seppure di misura per il Guernsey capitanato da Sam Cochrane. Il Guernsey FC è società di recentissima fondazione, nonostante si abbiano notizie ufficiali di un pallone che rotola sull’isola già dal 1893. Nel 2010 la conquista della UEFA Regions Cup da parte della rappresentativa locale stimolò la creazione di una squadra che partecipasse ai campionati inglesi e un anno più tardi, grazie alla collaborazione dei fratelli Matthew e Mark Le Tissier (l’ex idolo del “Dell” di Southampton è nato sull’isola nell’ottobre del 1968), ecco sbucare i "Green Lions":  nel giro di qualche stagione scaleranno un paio di gradini e sotto la guida tecnica di Tony Vance sono finiti a giocare nella Isthmian League Division One South. Matthew Le Tissier è stato presidente fino al 2014, poi ha passato il testimone a Mark. Nelle ultime stagioni la squadra si è salvata con qualche patema d’animo di troppo, in ogni caso il 27 maggio 2016 in occasione della finale di FA Cup un dirigente del Guernsey è stato invitato a sfilare nel pre-partita a Londra perché per la prima volta nell'ultracentenaria storia della competizione una delle partite si è svolta su un’isola (certo pure il Regno Unito è a sua volta un’isola, tuttavia non formalizziamoci troppo, ci siamo capiti...) anziché sulla terraferma. Successe nel mese di agosto in occasione di uno dei tanti match preliminari del torneo quando i verdi giocarono contro il Thamesmead Town. A rappresentare il Guernsey a Wembley ci fu proprio Sam Cochrane che è stato non solo, come detto, il capitano dell’avventura nel Vase di qualche annetto fa, ma anche colui che ha posto la sua firma sul primo contratto ufficiale stampato dal club. 
 

 

 

STELLE SENZA LUCE


Vinse Tiziana Rivale con “Sarà quel che sarà” ma è indubbio che i Matia Bazar e le loro “Vacanze Romane” avrebbero meritato di più del premio della critica e solo dopo ci si accorse che “L’Italiano” di Toto Cutugno sarebbe diventato un secondo inno nazionale. Insomma quel Festival di Sanremo del 1983 lasciò un po’ di amaro in bocca, ma cosa vuoi, usando un aforisma nietzschiano potremmo dire che la vita è fatta di rarissimi momenti di grande intensità e di innumerevoli momenti scomodi. La maggior parte degli uomini però, ripudiando gli intervalli difficili, finisce col rammentare solo aspetti ritenuti gradevoli. Ma forse, paradossalmente, essere vivi consiste nell’ andare alla ricerca degli istanti morti. Allora una foto è un istante arrestato, il più forte, il più toccante, il più doloroso. Se a uno juventino dici “Atene”, lo accoltelli, se dici “Magath” lo uccidi. Nel calcio ci sono luoghi che diventano ferite, una strana geografia dolente. Quella sera fu una specie di conferma, un grigio rito di passaggio, l'ennesimo. Il bello, anzi il brutto, è che non esiste spiegazione al buio. “Blocco psicologico?” No ma come, per campioni come Bettega e Zoff, Tardelli e Rossi, Platini e Boniek, Gentile e Scirea, il bel Cabrini e il coriaceo biondo Bonini? Non credo nella “stregoneria” di un trofeo proibito alla Juve dirà Giovanni Arpino: “la sconfitte hanno una logica: se rinunciano alla difesa anche i brasiliani possono perdere un mondiale, ma se diventano umili anche i tedeschi, spesso traditi dalla loro arroganza atletica, possono beffare tutti”. Tuttavia era uno di quei momenti che non si possono misurare con l’orologio, ma solo con i battiti del cuore dei tifosi, la Juventus doveva vincere la Coppa dei Campioni, dopo i danesi dopolavoristi dell’Hidrove, la faticaccia con lo Standard di Liegi, dopo il vapore reso stantuffo nel caliginoso Villa Park e le secchiate di pioggia del Comunale, dopo quei polacchi del Lodz, dannatamente spigolosi, eppure domati in semifinale. Ma laggiù, nel catino sudato dell'Olimpico di Atene, esaurito l'effimero colpo di testa di Bettega deviato dal portiere Stein, l’Amburgo, robusto, scaltro, del santone Happel, (che probabilmente pensava di trovarsi nella medesima complicata condizione di cinque anni prima a Londra), passerà in vantaggio con un tiro beffardo, vagamente solforoso, scagliato dal satanasso Felix Magath dal limite dell'area, che beffò Zoff. C’era tempo, quasi tutta la partita, ma la Juve, imballata e impalpabile, restò immobile, inchiodata a quella panchina di Corso Umberto a Torino con in braccio una storia apparsa troppo pesante. Forse c'era un rigore su Platini, però nella sostanza cambiò poco dentro gli occhi vitrei di Giovanni Trapattoni, i cui fischi non richiamarono all’ordine nessun gregge d’Arcadia; la Juve non riuscirà a segnare in quello stadio costipato di bianconero. Il giorno dopo ebbe postumi tragicomici nell’Italia del benessere e del disincanto, del “Ciao” e delle feste in garage col “Mangianastri”, autentico strumento da "tombeur de femmes" con il fastidio dalla necessità di girare il nastro che comportava la momentanea interruzione della copula almeno fino all’avvento dell’ auto-reverse. Molta gente si mise in mutua, altri in ufficio furono costretti a rinchiudersi in uno sgabuzzino, mentre sui muri colava ancora la vernice di quel “Grazie Magath” scritto dovunque in tutta fretta, nella notte caustica dei campanili, ad aumentare la sofferenza. Eppure mi è parso corretto cogliere, nell’amarezza della sconfitta ateniese, almeno il conforto dell’eterna bellezza di un gioco capace di sorprendere o vanificare ogni programmazione perché la logica del calcio ha sempre un limite o il suo contrario.

martedì 28 settembre 2021

ICH BIN EIN MAGDEBURGER


Nella foschia del primo mattino le sagome delle gru emergevano, quasi irreali, all'orizzonte, instaurando la corona metallica di una città che la guerra aveva ferito a morte e ora stava quasi completando la sua resurrezione dal deserto di macerie. E’ il 1974, anno entusiasmante e disgraziato al tempo stesso, dove i ruderi stavano per essere definitivamente sepolti sotto le collinette dei giardini che ravvivavano i nuovi quartieri. Magdeburgo, la città vergine e inespugnabile della guerra dei trent’anni, affresco gotico su cui converge la torcia dell’eretico di Altieri, fu centro basilare delle industrie belliche Krupp durante il secondo conflitto mondiale. Gli aerei alleati distribuirono la loro pioggia di bombe su fabbriche, palazzi, chiese, e monumenti. Senza distinzione. Sedicimila morti in mezz'ora, nella sola ondata del 18 gennaio 1945 mentre il rimasuglio della Wermacht con indomito e inverosimile sforzo tentava di ricacciare indietro le teste di ponte angloamericane sull’Elba senza un briciolo di speranza. Entrando in Alter Markt, oltre l'atrio, attraverso le grandi vetrate, qualche spezzone di arco anneriti testimoniava ancora il passato da ricomporre, come fosse un immenso puzzle. Il piano di sviluppo socialista prevedeva cantieri edili rivolti al 1990, anno in cui, in tutta la DDR avrebbe dovuto essere annunciata “la fine del problema casa”, il più sentito nel paese e per il quale effettivamente si lavorò alacremente. E se Hans Peter Kirsgh sarà l’architetto che più di altri ha cambiato i connotati a Magdeburgo, evidentemente la K è lettera angolare anche nel calcio perché sempre qui Heinz Krügel, nato il 24 aprile 1921 nell'attuale distretto di Zwickau a Planitz, ferito sul fronte russo, dopo la vittoria nel primo campionato della Zona Orientale con l'SG Planitz nel 1948 a 29 anni, a causa di un grave infortunio al ginocchio, diventerà iconica fermo immagine per la sua straordinaria avventura da allenatore. Tipo sornione, calvizie inclemente, una tuta ginnica per amica, Krügel, all’ombra dei riflettori dell’Ernst-Grube-Stadion, arriverà nel 1966 mentre sui francobolli della DDR imperversava il profilo del cosiddetto Oleodotto dell'Amicizia che dalla Madre Russia erogava petrolio al Patto di Varsavia. Il suo pragmatismo da medico della mutua individuerà subito un ragazzino diciottenne con la zazzera, Jürgen Sparwasser, lo convocherà negli uffici del club e gli disse: "Stai lontano da quelli che ti danno solo pacche sulle spalle dopo le vittorie, attieniti a quelli che ti dicono cosa era buono e che non nascondono cosa devi fare meglio”. Sparwasser, che si è assicurato fama eterna ai Mondiali del 1974 con il goal per la DDR nella vittoria per 1-0 nel girone eliminatorio contro i cugini in blue jeans dell’ovest, andrà a segno anche nella semifinale di Coppa delle Coppe disputata in primavera allo stadio Alavalade di Lisbona aprendo le porte della finale al Magdeburgo. Il settimanale “Kicker” si dimostrò piuttosto scarso in fantasia quando presentò la partita con il Milan assegnandole il classico titolo di "Davide contro Golia". Helmut Gaube, fino ad allora schierato principalmente nella squadra riserve della lega distrettuale sarà chiamato da Krügel sul palcoscenico per la squalifica del difensore Klaus Decker e dovette controllare il signor Gianni Rivera, trascinandolo sull'orlo dell'invisibilità in una rappresentazione plastica da atto d'accusa da libro di Herman Hesse atto a condannare il consumismo occidentale e la sua struttura ipocrita, chiusa e limitante delle libertà dello spirito. Heinz Krügel era un eccellente psicologo, dice Wolfgang Seguin, che, come Sparwasser e l'allora capitano Manfred Zapf, ha servito i dieci anni di Krügel nel laboratorio biancoblu di Magdeburgo tra il 1966 e il 1976. Seguin, a Rotterdam contro i rossoneri, segnerà la rete del 2-0 da posizione defilata dopo 73 minuti chiudendo, di fatto, l’incontro. Restano foto leggendarie quelle effettuate durante il giro di campo dopo la consegna del trofeo con i giocatori insaccati in empirici accappatoi bianchi. Il Magdeburgo era una squadra d'attacco. Si erano fatti le vesciche ai piedi a furia di creare possibilità e soluzioni da gol. Un continuo movimento alla ricerca degli spazi e degli scambi per concludere. Gli uomini che misero in ginocchio il Milan (e vinsero il titolo domestico) provenivano tutti da Magdeburgo e dintorni: Wolfgang Seguin di Burg, Jürgen Sparwasser di Halberstadt, Manfred Zapf di Stapelburg, Jürgen Pommerenke di Wegeleben, Martin Hoffmann, il pulcino di Gommern, Wolfgang Abraham di Osterburg, il portiere Ulrich Schulze di Darlingerode. “Heinz Krügel non era uno che dettava, ma una persona meravigliosa che ci rispondeva” -racconta il recordman della nazionale della DDR Joachim Streich, “l'uomo giusto al posto giusto, ci ha lasciato il guinzaglio lungo quando serviva, poi lo ha tirato con rara personalità”. Lui e il suo assistente allenatore Günter Konzack erano una coppia ideale, una sorta di Brian Clough e Peter Taylor con passaporto tedesco orientale. Il suo mantra rispondeva sempre all’asserzione: “Stai calmo, giovanotto, capisco”. Sorprese i suoi ragazzi con metodi di allenamento non convenzionali e insoliti, promosse nuovi modelli di preparazione atletica motivando a dovere il gruppo e soprattutto mostrando coraggio rispetto a un sistema stringente nelle sue disposizioni non esattamente libertarie. Eppure non si lasciò convincere da nulla. Per i funzionari che regolavano il pallone della DDR aveva battute incisive: "Il sole splende su Nizza, il mondo intero su di noi". "Alcuni della direzione del distretto cercarono di interferire e Heinz gli mugugnò pubblicamente: “Siete politici, dovete assicurarvi che le persone stiano bene. Io sono un allenatore di calcio, con anima e corpo, una figura paterna, un insegnante”. A proposito del golpe di Rotterdam, disse: "Se avessi allenato secondo le linee guida della Federcalcio, non avremmo mai vinto quella coppa.” Insomma voleva essere un allenatore, non un ambasciatore politico. Nonostante gli ottimi risultati Krügel (e il Magdeburgo indirettamente) scivolò su una cartaccia telegrafata in codice. È una storia di speranza appena assaggiata. Quello che è successo a Magdeburgo dopo quel trionfo è una storia di speranza appena assaggiata. Tutto riecheggia, rimbomba ed è amplificato quando vivi in una città per molti aspetti ancora in bianco e nero. Perché questa storia è certamente un'eco, di proporzioni piuttosto eclatanti ed è importante ricordare che il 1974 è stato diplomaticamente un anno molto tempestoso. C'erano molti dissidenti in tutte le terre teutoniche, i ribelli volevano che la società tedesca fosse un po’ più equilibrata. La Rote Armee Fraktion (la banda Baader-Meinhof) era all'apice della sua aurea di terrore a livello nazionale. In autunno a Zurigo l’urna della UEFA sorteggiò il Magdeburgo come avversario del Bayern in Coppa dei Campioni. Dentro una cabina telefonica di Monaco bagnata dalla pioggia d’autunno, c’è l’allenatore dei bavaresi Udo Lattek intento a spiegare a un membro del suo staff le tattiche che intende usare per battere l’ostica squadra dell’Est galvanizzata non solo dal successo europeo ma anche dalla beffa di Amburgo firmata proprio da un suo giocatore. Lattek non sa che quella cabina è controllata da una pulce sistemata dalla STASI e in breve il discorso arriva nelle mani di Krügel che però si rifiutò di utilizzare un dialogo registrato per scopi tattici. Era interessato allo sport, non allo spionaggio. Tuttavia questa volta la sua intransigenza gli costò cara al di là dell’insuccesso nel doppio confronto contro i bavaresi. La squadra ricevette la notizia della radiazione del loro mentore durante un pasto poco prima di una partita di campionato. Krügel, l'uomo che Seguin chiama senza esitazioni "il più grande allenatore di club della DDR", fu bandito dal calcio e il governo decise di assumerlo come responsabile presso la BSG Motor Mitte di Magdeburgo. Ma sportivamente solo dopo la caduta del muro venne riabilitato. Si spegnerà nell'ottobre del 2008 all'età di 87 anni, e dal 2014 è stata eretta una scultura in bronzo in suo onore davanti alla moderna MDCC Arena, ribattezzata a suo nome, e eretta a due passi dallo scorrere dell’Elba e dai pinnacoli della Kloster Unser Lieben Frauen, il Monastero di Nostra Signora. Magdeburgo, über alles.
 

 

 

 

lunedì 13 settembre 2021

CON GLI OCCHI DI GILLIAN



"Mi chiamo Gillian Alcock e quel giorno di primavera del 1959 ero ancora troppo piccola per seguire i miei, in uno stadio così grande, con così tanta gente. Mio padre, Harold Wrigley Alcock, possedeva qualche enoteca in West Bridgfort, e poco dopo la fine della seconda guerra mondiale era diventato presidente del Nottingham Forest Football Club. C’era un cerchio rosso sulla data del calendario, un cerchio a stringere il 2 maggio come una siepe colorata in cui il Forest dopo circa sessant’anni, si sarebbe introdotto a rigiocarsi una nuova finale di Coppa d’Inghilterra. A Wembley, insieme a mio padre, andarono mia madre Margaret e mio fratello maggiore Antony. Presero posto nelle morbide sedute del palco reale, giusto sopra la regina Elisabetta e al vecchio scontroso generale Montgomery. In campo, ordinatamente schierati uno accanto all’altro, il nostro capitano Jack Burkitt presentò al Duca Filippo la nostra squadra. Certo, occorre un flashback, tutte queste cose me le hanno raccontate successivamente, non le vidi nemmeno in TV poiché in famiglia c’era ancora quel gocciolante fogliame di aristocrazia da quercia del Trent, e il televisore pareva uno sbilanciamento verso un orrido lupanare di borghesia e astruso modernismo, ma ogni orpello cedette in breve allo scalpicciare inesorabile dei tempi. Oh, restava la radio, una bellissima radio in bachelite e noce, perfettamente sintonizzata sulle frequenze serafiche della BBC, tuttavia mia nonna in concomitanza con il fischio d’inizio della partita, decise di portarmi a fare una passeggiata. E insomma su e giù per Stamford Road, una rigogliosa zona verde con tante villette in mattoni rossi e infissi bianchi, a qualche chilometro dal sonnolento City Ground. Il pensiero dell’evento era palpabile, e allora dopo un po’, mia nonna accelerò il passo, quasi pentita, rientrando tutta trafelata in casa, fiondandosi sulla radio la quale senza un minimo di stridulo annunciò con enfasi che il Nottingham Forest aveva appena vinto per 2-1 e pubblico e giocatori stavano festeggiando il successo. La nonna si mise a ballare, non lo faceva dalla fine della guerra. Quel giorno modificò per sempre i nostri album di fotografie, la nostra vita. Rivedo i miei tornare sulla Jaguar, mio padre con il borsalino e il sigaro in bocca, mia madre con una mano fuori dal finestrino, la manica larga del vestito a fiori svolazzante nell’aria tersa di primavera a salutare gruppetti di gente ai bordi delle strade intenti ad applaudire. Al lunedi mio padre volle accompagnarmi nella mia scuola di Broadgate con la FA Cup dentro al bagagliaio che però non si chiudeva bene, e quindi fummo costretti a guidare attraverso Nottingham con la coppa che spuntava dal retro e i nastri ancora legati ai bracci del trofeo accarezzati dal vento. Mio padre, Harold, arrivò a Nottingham dopo aver lavorato per la Dunlop nel Kent fondando una società di sua proprietà e da amante dello sport nel 1950 acquistò il Forest che in quel momento non se la passava benissimo gestito da un comitato di sette “saggi” dibattendosi senza strepiti nei chiaroscuri della terza divisione. Indubbiamente voleva cambiare le sorti del club, essere coinvolto, vincere qualcosa d’importante. Indisse una serie di incontri allo Spread Eagle Pub in Goldsmith Street, un localino fosco pieno di cianfrusaglie liberty e arnesi da caccia dove servivano pinte adagiate su un bancone di mescita in legno bistorto sul quale ondeggiava, sospinta dal gelido riscontro della porta d’ingresso, una lampada a petrolio, ornamento tramandato dal vagito d’apertura. Qui si strinsero collaborazioni per un avventura che sarebbe durata oltre 35 anni, segnata indelebilmente dagli impensabili trionfi degli anni settanta, in Inghilterra e in Europa, con quel matto in odore di santità di nome Brian Clough. Ma pochi, o forse nessuno, tendono ad annodare la vittoria in FA Cup del 1959 come propedeutica alle clamorose affermazioni di vent’anni dopo, giacché il destino si divertì a giocare uno scherzo mica da poco, una coincidenza che a distanza di tanto tempo fa persino sorridere, stupendo anche i più scettici. Signori, l’arbitro di quella finale si chiamava Clough. Si, avete capito bene Clough, (per la precisione Jack all’anagrafe) caso o meno che sia. Non cominciò con squilli di trombe il nostro cammino in coppa. Nel terzo turno, nel profondo suburbio londinese, in casa dei dilettanti del Tooting & Mitcham, il Forest rischiò una figuraccia epocale strappando un compassionevole pareggio per 2-2 dibattendosi nel piccolo rettangolo innevato di Sandy Lane sotto un cielo di piombo che minacciava maltempo perenne. C’erano tutti gli ingredienti classici: il campetto di Contea il terreno insidioso, i salumieri, i panettieri e gli operai della fabbrica di candele locale, tutti lì schierati in campo ad affrontare l’eleganza della Prima Divisione. Un eleganza più formale che sincera perché i contrasti alla luce dei fatti tendevano a sfumare addirittura economicamente. I calciatori del Tooting infatti non avevano (tutto sommato) una sostanziale differenza di stipendio rispetto ai loro importanti avversari. Anzi, se il club offriva loro un piccolo compenso, fatto passare come rimborso spese, ecco che gli allegri omuncoli del Tooting guadagnavano più o meno la stessa cifra rispetto a quelli del Nottingham. Sembra il giurassico rispetto a oggi, un autentica era persa in chissà quale angolo dello spazio delle dure randellate del tempo. Billy Walker, il nostro manager, con un discreto passato da giocatore dell’Aston Villa, aveva annunciato alla squadra che l’incontro non si sarebbe disputato viste le condizioni dell’impianto e il gruppo già stava allegramente pranzando al ristorante della stazione aspettando il treno che li avrebbe riportati a casa, quando improvvisamente furono raggiunti dalla notizia che, per diamine, la partita si sarebbe svolta, nonostante il gelo e ogni diavolo avverso. E quindi le cose rischiarono di andare a ramengo. Mi immagino la faccia accigliata di mio padre. Il Forest sotto due a zero. Un rinvio di Chick Thomson colpì in pieno un attaccante del Tooting, regalando il vantaggio ai bianconeri, poi, un rinvio di alleggerimento da oltre quaranta metri andò a sbattere incredibilmente sotto la parte inferiore della traversa finendo nel sacco. Il Forest, secondo i cronisti, si avviava a uscire mestamente dalla FA Cup, e ad entrare nelle pagine sportive dei giornali della domenica da indegno protagonista. A casa, mia madre, seduta in soggiorno, teneva la radio accesa a un volume bassissimo. “Mamma, perché non la spegni...". In realtà pensai volesse stare il più possibile lontano dalla fonte di sofferenza, senza però eliminarla completamente... Dovrei consultare gli almanacchi per riportare quanto successe, ma alla fine il Forest riuscì a rimontare nella seconda frazione con i centri di Graniger e Murphy, strappando un pari decisivo. Uno dei solchi ghiacciati del loro campo li tradì, deviando un passaggio indietro diretto tranquillamente fra le braccia del portiere destinandolo in rete; di seguito l’arbitro concesse un rigore per un fallo abbastanza veniale e la partita terminò, come detto, sul 2-2. C’è l’eravamo vista davvero brutta, brutta davvero. Il replay al City Ground il 24 gennaio cominciò prestissimo, in modo da consentire la disputa con la luce naturale, ma stavolta su un prato sul quale si sarebbe potuto benissimo giocare a biliardo, vincemmo facilmente per 3-0, con Billy Gray sugli scudi. Nel quarto turno ci fu meno sofferenza e la squadra evidentemente strigliata a dovere s’ impose in casa per 4-1 sul Grimsby Town. Nella partita successiva contro il Birmingham City l’asticella si alzò e a salvarci dalla capitolazione esterna ci pensò un tiro dal dischetto realizzato da Tommy Wilson a un minuto dal termine. Le due parti furono quindi costrette a ritrovarsi di nuovamente da noi e anche in quell'occasione, il risultato fu il copia e incolla del primo match. Solo nel terzo incontro, giocato al Filbert Street di Leicester, riuscimmo a sbarazzarci degli indomiti blu di Birmingham con un perentorio 5-0. Nel sesto turno il sorteggio ci regalò una gara casalinga con il Bolton terminata 2-1 per il Forest risolta dalla giornata di grazia di John Quigley. Lo stesso Quigley che nella semifinale sul neutro di Hillsborough, (in una giornata caotica, piena di problemi di traffico che ritardò l’arrivo degli spettatori), contro l’Aston Villa, risolse la contesa previa un assist di Wilson. Il giorno antecedente la finale la squadra si trasferì a Londra in un albergo della zona di Hendon e nel pomeriggio i ragazzi fecero due passi sul manto erboso dello stadio per saggiarne la consistenza e respirarne la grandezza. La mattina della partita mio padre, con la tipica aria trasognante che potevo avere io quando mi accompagnavano al circo o al parco giochi, si alzò dal letto senza nemmeno bisogno di rimettere la sua terribile sveglia di ferro. Si diresse alla finestra e scostate le improbabili tendine tartan gialle e marroni si affacciò fuori mentre sul viso gli si aprì un innocente sorriso. Il vacuo cielo del Nottinghamshire pareva sbiancare la corteccia scura dei ciliegi in fiore, e oltre la siepe che delimitava il giardino, era possibile ascoltare gli echi lontani di Sherwood. Scese al piano di sotto, dove mia madre gli aveva preparato la sua colazione preferita: uova, bacon, purea di patate e broccoli. Poi, tutti e tre salirono in auto diretti verso la capitale. In finale non trovammo ad affrontarci che so, il Chelsea di Jimmy Greaves, il Preston di Finney o il Blackpool di Stanley Matthews. Spuntarono a sorpresa quei cappellacci del Luton Town, al loro debutto a Wembley. “Mad as a hatter”. Non un semplice proverbio. C'è del vero. Se, come riportano le cronache, durante la lavorazione dei cappelli vigeva l'abitudine di utilizzare il mercurio. Sostanza che alla lunga aveva effetti rovinosi sulla salute mentale degli artigiani. Forse Lewis Carroll nel suo Alice in Wonderland ha probabilmente ironizzato sul detto popolare quando ha ideato la figura del cappellaio matto. Surreale ed enigmatico personaggio accusato di ammazzare il tempo, che risentito, si bloccò alle sei del pomeriggio in una folle e perenne ora del tea. Magari Carroll avrà pensato a Luton. Alla Luton del XVII secolo quando la cittadina era all'apice in Inghilterra nella produzione di cappelli. Ad ogni modo una finalissima di FA Cup, dove la BBC per la prima volta introdusse le didascalie del punteggio durante le riprese, e a dirla tutta ci sarà un “piccolo- grande” errore quando fu visualizzato il nome della nostra squadra diluita in un icastico Notts Forest. il commentatore, Kenneth Wolstenholme, chiese scusa affermando che la dicitura si doveva leggere ovviamente come Nottingham Forest. Noi in maglia rossa su pantaloncini bianchi, loro in maglia bianca su pantaloncini neri. Il Luton capitanato da Syd Owen poteva contare sul loro grande cannoniere Gordon Turner quell’anno autore di 14 reti. Tuttavia al decimo giro di lancette Roy Dwight ci portò in vantaggio con un tiro sul quale il portiere degli Hatters Ronald Baynham non poté onestamente opporsi. E non passarono nemmeno cinque minuti dagli esiti di un fraseggio intercorso fra Gray, Imlach e Tommy Wilson, lo champagne fu messo in ghiaccio. Avanti due reti all’intervallo seppure in dieci uomini visto l’infortunio occorso a Dwight, e all’epoca non erano consentite sostituzioni nelle partite ufficiali. Sotto la sapiente direzione d’orchestra del regista Jeff Whitefoot però, il Forest tenne duro. Il Luton fece qualcosa, qualcosina, un uncinetto da soprammobile, poco più, andando a segno con Dave Pacey, ma la coppa che la Regina consegnò a Jack Burkitt, brillò per le strade di Nottingham sul classico bus scoperto da parata, e la sera fece bella mostra di se sul davanzale di casa mia."
 

 

 

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...